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ESCLUSIVA – Stefano Baldini rivive l’oro di Atene 2004: “Ero in stato di grazia, non ho sbagliato nulla”

Da Maratona ad Atene, è l’ultimo atto dei Giochi Olimpici del 2004. È la gara più suggestiva, che richiama il mito del percorso compiuto da Fidippide per annunciare la vittoria sui persiani. L’impresa leggendaria, quel 29 agosto, la compie un italiano: è Stefano Baldini, oro nella maratona a cinque cerchi in una gara preparata alla perfezione, frutto di lavoro e ricerca di quel guizzo che spesso gli era mancato per agguantare la medaglia più pregiata. Non senza intoppi, come dimostra l’aggressione di un cane a poche ore dalla partenza verso Atene.

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La gara di Atene 2004 è il punto esclamativo di una carriera da maratoneta che inizia molto prima, un capire che lentamente si può arrivare al livello dei grandi: i due bronzi di Parigi e di Edmonton, il quarto posto di Londra spartiacque nel 2004. Quand’è che hai capito non solo di poter fare bene ad Atene ma anche di vincere?
Ci avrei messo volentieri anche meno tempo ad arrivare al punto esclamativo, ma nell’economia di una carriera di un atleta non sempre tutto fila liscio, soprattutto in uno sport ad alta incidenza di infortuni come l’atletica e la corsa. Infatti i miei Giochi dovevano essere in teoria quelli di Sydney, a 29 anni nel pieno della maturità sportiva, ma nell’avvicinamento alla gara qualche acciacco di troppo non mi aveva permesso di concludere la maratona australiana. Se oggi la longevità va sempre più avanti – vicino ai 40 anni nell’atletica si ottengono ottimi risultati – una ventina di anni fa diciamo che a 33, la mia età ad Atene, si era già un po’ dopo lo scollinamento della maturità sportiva. Da quel momento negativo dell’Olimpiade di Sydney, che lì per lì ti fa pensare di mollare tutto e fare altro nella vita perché forse lo sport di alto livello non riesci a sostenerlo fisicamente, è partito un quadriennio dove le convinzioni e motivazioni sono cresciute giorno dopo giorno, il più bello della mia vita. Forse legata anche al fatto che la nascita della mia prima figlia, a 30 anni, ti fa scattare quel qualcosa che prima non avevi e che mi ha fatto macinare un risultato dopo l’altro con il culmine ad Atene.

Ripercorrendo i mesi precedenti quell’Olimpiade, il 2004 parte dalla Namibia: un luogo mitico del fondo e della maratona. Ti chiedo di raccontarlo a livello antropologico: come funziona un lungo periodo di allenamento?
Andavamo a Windhoek, la capitale, nei mesi invernali perché c’era caldo ed è un luogo in quota: 1800 metri sul livello del mare dove le attività di endurance trovano terreno fertile per la preparazione. Era un luogo che frequentavo da 5-6 anni con diversi periodi di allenamento, solitamente uno a gennaio e uno a marzo, per preparare una maratona primaverile nel percorso della finalizzazione di una maratona istituzionale estiva – Europei, Mondiali o in quel caso Olimpiade – e la Namibia era diventata anche un luogo dove staccare la spina dalla nostra quotidianità per allenarsi con un sistema di vita e sociale completamente diverso. Mi ha sempre dato qualcosa, non soltanto dal punto di vista dell’allenamento, ma anche nel vedere cosa succede nel mondo oltre la nostra vita frenetica di tutti i giorni. Lì la vita scorre un po’ più tranquillamente e hai molto più tempo per interiorizzare le cose che stai facendo, allenamento compreso.

Poi si torna in Europa, arrivi quarto a Londra, vinci le ultime gare brevi prima di Atene. È quasi un anno di grazia perché non ci sono stati infortuni: avevi l’ansia dell’intoppo per la tua ultima occasione olimpica?
Un po’ di cautela e un po’ di incoscienza, perché non puoi allenarti col freno a mano tirato. Noi, come team, abbiamo rischiato anche qualcosa: quella di Londra era un po’ la mia classica, quell’ennesimo quarto posto diceva che ci sono ma che mi manca qualcosina. Abbiamo scardinato il nostro sistema di allenamento abituale che portava sempre a buoni piazzamenti ma mai al grande risultato. Abbiamo copiato quello che fanno gli africani, allenandoci a grossi cambi di ritmo nella gara, quelli che sfiancano gli avversari. Rischiando, abbiamo trovato la chiave per migliorare quelli che potevano essere i miei limiti nelle gare un po’ tattiche. Ha pagato tantissimo il lavoro perfetto del mio allenatore, il prof. Gigliotti che la maratona olimpica aveva già vinto nel 1998 con Gelindo Bordin.

Tra gli aneddoti di quel periodo, l’aggressione da parte di un doberman prima della partenza…
Il giorno prima della partenza, ero a Modena in pieno agosto: attività chiuse, persone in vacanza. Partendo dal campo scuola per una corsetta da 10 km, c’era un garage aperto da cui sono usciti due cani: uno piccolino e uno molto grande. Era il martedì che precedeva la domenica della gara di Atene, rincorso da questi due cani mi son dovuto fermare e con un paio di calci mi sono liberato da questo dobermann che mi aveva solo graffiato il ginocchio. Mi è andata bene, poteva finire male. Alla richiesta fatta al padrone di riprendere il cane, ho detto “io domenica devo fare la maratona all’Olimpiade”, la sua risposta fu bellissima: “Va bene, allora farò il tifo per te”. È stato un segno premonitore del destino, tutto doveva andare bene.

Hai il ricordo di come ti sentivi le ore prima di partire?
Ricordo il risveglio della mattina della gara. Solitamente un maratoneta dorme poco perché le gare sono al mattino presto. In quell’occasione invece si correva alle 18, questo ti dà la possibilità di avere una notte più serena, aiutato dal fatto che quando sei in buona condizione sai di aver fatto tutto il possibile per essere al meglio. Mi sono svegliato presto, avevo letto un libro di Ken Follett la sera prima, ascoltavo Vasco Rossi – c’era “Buoni o cattivi” in quel periodo che rispecchiava un momento della mia vita – e ci sono tante fotografie del mio fisioterapista, Daniele Parazza, che mi ritraggono sempre sorridente: anche nel viaggio in pullman, mentre mi stavo scaldando. Rispetto ad altre volte era una liberazione, finalmente ero alla partenza al massimo e dovevo solo gareggiare come sapevo fare. Sono riuscito a mettere sulla strada, in quelle 2 ore e 10, tutte le esperienze fatte, il meglio e anche gli errori di una vita di sport ad alto livello, cercando di non ripeterli e trasformarli in energia positiva. Non ho sbagliato proprio nulla, anzi devo dire di aver fatto una cosa più bella di ciò che potessi sognare. Un atleta, quando arriva a certi risultati, deve essere in grado di stupire se stesso quando si taglia un traguardo. L’adrenalina di un evento come i Giochi, con un’atmosfera totalmente diversa, ha dato la possibilità di superarmi.

Eri mai stato a Maratona prima di partirci?
C’ero stato, la mia prima maglia azzurra in assoluto è stata ad Atena: anche quello un segno premonitore. Una dozzina di anni prima ho esordito nella nazionale dei ‘grandi’ ai Giochi del Mediterraneo. È una città che mi ha sempre dato buoni risultati.

Un momento chiave è la ricognizione del percorso. Quando hai studiato tutti i dettagli del percorso olimpico qualche giorno prima?
In realtà volevo andare a vederlo anche prima, avevamo fatto richiesta con il Coni di provarlo ad aprile-maggio. Ma la strada tra Maratona e Atene era stata raddoppiata per i Giochi del 2004 e c’erano ancora i lavori in corso. L’ho fatto qualche giorno prima: il giovedì abbiamo visto il percorso con la macchina, con il Gps per misurare l’altimetria. Non lo ricordavo così impegnativo, c’è quel sottopassaggio a 4 km dal traguardo che avevo individuato come momento in cui poter iniziare qualcosa da portare sino al traguardo. Effettivamente è stato così. Ero con Keflezighi, il ragazzo americano che vince l’argento, e sono partito all’inseguimento di Vanderlei de Lima che era stato fermato dal prete irlandese e lo avevamo già nel mirino. Fortunatamente non ho visto quell’incidente, c’era una semicurva e forse mi avrebbe un po’ condizionato. Lui bravissimo a reagire a un momento di così grande difficoltà, ma lì avevo deciso di arrivare sino in fondo. Ero ancora pieno di energie, è stata una gara molto lenta all’inizio e corsa velocemente nel finale, con parziali negli ultimi km da quasi da gare in pista. Ero pronto per un percorso del genere: partenza e arrivo al mare, in mezzo le famose colline di Fidippide molto impegnative. La maratona di Atene è un percorso che anche nella sua classica versione di novembre non vede tempi di alto livello. Io, in estate, con 30 gradi, ho fatto il record del percorso.

In una gara del genere c’è un lasso di tempo in cui stai vincendo e quindi la testa, immagino, possa andare chissà dove. Quali sono stati i pensieri subito prima del traguardo?
Sono stato in testa da solo gli ultimi 11 minuti, per 4 km che sembrano pochi ma sono molto lunghi. Da una parte volevo arrivare al traguardo il più velocemente possibile, dall’altra che quel tempo non finisse mai. Lo stato di grazia di un atleta, quello che incontri nella tua vita sportiva due-tre volte, non di più. È stato molto bello, traspariva dal mio linguaggio del corpo qualcosa che ha emozionato a casa e il pubblico sul percorso. C’era l’incredulità, il giorno migliore era davvero arrivato.

A quello che si diceva, il grande favorito era Paul Tergat. Era così anche per te? Lo stesso Tergat ha detto ‘abbiamo capito subito che quello che stava meglio era Baldini’.
Paul era il primatista del mondo in quel momento, aveva corso sotto le 2 ore e 05. C’è stato un momento intorno al 25° km in cui io, lui e Gharib, campione del mondo in carica che non stava benissimo, siamo andati via ed era la situazione che avevo sempre sognato. Dopo il 30° km, quando si supera l’ultima asperità, c’è un momento in cui lo squadro da testa a piedi perché non credevo ai miei occhi: Tergat aveva il viso spento e preoccupato, dava l’idea di aver finito la benzina. Lì ho deciso che era il momento di provare qualcosa, davanti Vanderlei de Lima era molto lontano e allora ho preso in mano la situazione, la medaglia che volevo era quello d’oro.

Com’è stato il cerimoniale all’arrivo?
La cerimonia di premiazione era all’Olimpico, mi è stata data la possibilità di fare un rapido giro d’onore, un passaggio negli spogliatoi dove Tergat è stato il primo a fare i complimenti, e poi ci hanno messo su un Van. Su quel pullmino, con il prof. Gigliotti è stato il momento del raffreddarsi un po’ e per guardarci negli occhi e dirci che ci avevamo messo una dozzina di anni ma che avevamo costruito qualcosa di davvero bello. La premiazione all’interno della cerimonia di chiusura è stata bella, c’è stato un po’ più gusto ad essere italiani.

È vero che Gigliotti aveva nascosto la bandiera dell’Italia in fondo allo zaino a inizio stagione?
Secondo me lo faceva sempre… è una cosa che io da allenatore non faccio, ricordo che mi è stata data e l’ho bagnata con le lacrime dopo il traguardo. Poi mi è stata data una bandiera più grande che conservo ancora a casa per il giro d’onore, mentre quella di Gigliotti ci è servita in occasioni successive, perché la mia carriera è continuata ancora per qualche stagione.

Una battuta sull’attualità, che emozioni diverse vivi da commentatore televisivo a Sky Sport?
Sono sempre stato molto appassionato e curioso, appena ho smesso mi sono rimesso nel mondo del lavoro. Ho ricominciato a studiare per il percorso della formazione tecnica da allenatore, per tanti anni facevo già il ct delle nazionali giovanili. È capitata l’occasione grazie a Sky Sport, che aveva i diritti televisivi di Londra 2012, di commentare le gare in televisione: mi è piaciuto, infatti non ho ancora smesso, e ho completato la mia formazione a 360°. Sono un uomo di campo, che tutti i giorni prende i tempi, insegna l’atletica: lavorare in tv mi obbliga anche un po’ a rimanere aggiornato e a essere attore dello sport a tutto tondo. Abbiamo ottenuto degli ottimi risultati come ascolti, portando l’atletica in una pay tv focalizzata ancora molto su calcio e motori.

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