Calcio

Il trionfo agli Europei, il flop Mondiale e le dimissioni improvvise: i cinque anni di Mancini in Nazionale

Mancini e Vialli

 

Come un fulmine a ciel sereno, come una pioggia torrenziale in pieno agosto, allo stesso modo, sono arrivate le dimissioni di Roberto Mancini da Commissario Tecnico della Nazionale Italiana. I 5 anni vissuti insieme sono stati una relazione felice con picchi di amore e di gioia clamorosa, ma con la batosta, forse quella che ha poi spento tutto, di quella non qualificazione ai Mondiali che ha gettato tutti nello sconforto.

Il 2018, dopo il disastro Ventura, Gravina decide con fermezza di voler avviare un ciclo chiaro con un’identità specifica da creare. La scelta coraggiosa del presidente della FIGC cade su Roberto Mancini, uno che per esuberanza, talento, classe e voglia di emergere, se ne intende. L’esordio arriva con l’Arabia Saudita il 28 maggio 2018,  quando Belotti e Balotelli fanno iniziare bene il ciclo Mancini. La squadra comunque fatica ad ingranare, complice anche la depressione per la mancata qualificazione al Mondiale di Russia con Ventura. Poi arriva la svolta nell’inverno susseguente: 4-3-3, due playmaker e voglia di avere sempre la palla nei piedi per creare occasioni e per essere propositivi. Bonucci e Chiellini dirigono da dietro, Jorginho e Verratti guidano l’orchestra, Insigne e Chiesa al centro del progetto, con il lancio di Zaniolo prima che anche la Serie A si accorgesse di lui. Una scelta forte, coraggiosa, che ci port a qualificarsi agevolmente agli Europei del 2020.

Il Covid poi blocca tutto, ma Mancini gli amici dello staff, fra cui il Capo Delegazione Vialli, non si abbattono anzi. In quell’anno forgiano ancora di più la loro creatura perfetta che incanta poi nel 2021 tutt’Europa. Sembra tornare il Rinascimento Italiano, ossia quel movimento che andava alla ricerca del bello, che andava alla ricerca del risultato attraverso l’esposizione delle più belle opere d’arte. Il volto della Nazionale assume i tratti somatici, belli, di Roberto Mancini che quanto a stile non ha nulla da invidiare a nessuno. Insigne è il fulcro del gioco della Nazionale, gli sprazzi di Chiesa fanno ammattire tutte le difese che ci capitano davanti e la retroguardia con Bonucci-Chiellini-Donnarumma è una diga insuperabile. Vinciamo l’Europeo, sembra l’inizio di una nuova epoca, segnata da uno degli abbracci più belli degli ultimi 50 anni: quello fra due amici, che a Wembley, dovevano prendersi una grossa rivincita.

Viviamo un’estate azzurra, intonando e cantando dovunque le note di “Notti Magiche“, ma l’incubo Mondiale è dietro l’angolo. D’improvviso perdiamo la brillantezza dei giorni migliori, complice anche la rottura del legamento crociato di Federico Chiesa, vero emblema e Campione della Nazionale Campione d’Europa. Soffriamo nel girone di qualificazione a Qatar 2022, ma arriviamo comunque allo spareggio con la Svizzera valido per giocarci il primo posto nella nostra casa, all’Olimpico.

Proprio quello stadio che aveva gettato le basi per il trionfo meno di un anno prima. Toppiamo, finisce 1-1. Si va agli spareggi per Qatar 2022. Il preludio che fosse una salita, troppo ripida da scalare, arriva fin dai sorteggi: peschiamo il Portogallo di CR7 e la Macedonia del Nord. Battere i macedoni in casa a Palermo per poi arrivare in terra portoghese per mettere pressione a Santos ed ai suoi. Quella che sembrava essere una formalità, battere la Macedonia a Palermo, si dimostra un vero e proprio incubo che segna, difatti, la fine di quel bel gioco professato in tutt’Europa.  Trajkovski gela il Barbera e ci catapulta di nuovo da dove tutto era partito, ossia in quella sera di freddo del 2017 a San Siro quando la Svezia esultò in faccia a Buffon.

Seguono momenti di tensione, lo stesso Mancini riflette sulla sua posizione, ma spinto da Gravina decide di continuare in sella. Il CT si dimostra nervoso ed affranto, anche nelle conferenze stampe ricorda come un’ossessione il fatto di non essere andato ai Mondiali, rivendicando una mancata vicinanza da parte dei club che non aiutano la Nazionale. Cerca nuovi stimoli, convocando gente nuova come Retegui o lo stesso giovanissimo Pafundi, ma arriva un’altra batosta, stavolta più grave. Il 6 gennaio arriva la tragica notizia della morte del fratello di mille avventure sul quale Roberto poteva confidarsi e sfidare il mondo insieme. Vialli non c’è più, Mancini si sente terribilmente da solo senza nessuno che lo possa difendere e confortare. Gli stimoli, forse, svaniscono proprio in quel momento.

Troppe distanze, troppi rimorsi per andare avanti ancora insieme. L’ultimo concerto è la fase finale della Nations League dello scorso giugno, competizione in cui gli azzurri dimostrano di avere carattere e di star cercando una via per ritornare ad essere belli. Chiudiamo la Nations da terzi, battendo l’Olanda padrona di casa. Mancini sembra quasi totalmente reintegrato. Bene quasi. I dissidi interni con Evani sulla posizione di Bonucci, ritenuto ancora centrale dl CT, diventano via via più larghi. E quando anche Evani si dimette subentra ancora quella assenza di vicinanza che porta Mancini a chiudere una storia bella, intensa, vissuta con amici di un tempo, ma da terminare. Un addio che lascia vuoto, che lascia spettri sul futuro, ma che, forse, in questo momento era la via più giusta da prendere.

 

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