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Lega Pro, Marani: “Calcio pensato in modo vecchio, è un miracolo sia ancora lo sport più amato”

Matteo Marani
Matteo Marani - Foto Lega Pro

“E’ finito il monopolio del calcio, la vecchia generazione aveva solo il calcio o quasi. Oggi ci sono una serie di offerte alternative maggiori, dalle arti marziali, al tennis che ora si può praticare nei circoli. Penso anche allo sci. Oggi esiste una varietà di approccio allo sport diversa. Il calcio ha fatto di tutto per farsi male, ogni volta c’è uno spettacolo indecoroso. Ha litigato e si è spaccato su tutto, tra scandali, corruzioni. Ed è una cosa miracolosa che nonostante tutto questo sia ancora lo sport più amato e seguito. Il calcio però si deve mettere al passo con il resto del mondo”. Così in un’intervista a LaPresse Matteo Marani, presidente della Lega Pro, sullo stato di salute del calcio italiano.

“Il problema è che viene pensato in modo vecchio. Il calcio gli inglesi lo hanno fatto diventare ‘pop’ con la Premier, la Spagna lo ha spettacolarizzato con la parte tecnica del gioco. Noi non abbiamo trovato una nostra strada italiana, abbiamo continuato a reiterare un modello che andava benissimo negli anni Settanta. Bisogna avere la forza di rimodellarci e questa è una metafora dei nostri stadi, che hanno una età media di mezzo secolo”, ha aggiunto.

“Cosa manca davvero? Non è l’appeal ma la cultura. Se non hai cultura non hai una classe dirigente elevata e questo determina delle scelte. In altri Paesi ogni Lega viene prima del tuo stesso club, per noi l’idea che possa esserci una figura terza a comandare il calcio è vissuta male. E’ un mondo dove c’è troppo ‘io’ e troppo poco ‘noi’. E questo si riflette anche nei ricorsi. A volte si ricorre al Tar anche senza motivo. Ognuno pensa al proprio interesse”, ha aggiunto. “Quali sono le soluzioni? Tutto parte dal vertice, ci vuole un presidente che creda nel settore giovanile e investa nei giovani. Si devono mettere a disposizione gli impianti giusti, pagare bene gli insegnanti facendo in modo che si porti il giovane a giocare in prima squadra. E’ una questione culturale. Se vogliamo fare una piccola grande rivoluzione così si deve fare, se i dirigenti non vogliono cambiare possiamo raccontarci quello che vogliamo”, ha concluso.

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