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Da Stoccarda a Stoccarda, dentro la crisi di Matteo Berrettini: il suo annus horribilis

Matteo Berrettini
Matteo Berrettini - Foto Ray Giubilo

Dodici mesi fa, sul Centrale di Stoccarda, qualche lacrima scendeva sul viso di un Matteo Berrettini capace di tornare ancora una volta in campo da vincitore dopo uno stop per infortunio, in quel caso di tre mesi a causa di un intervento chirurgico alla mano destra. A distanza di 365 giorni, nello stesso stadio, ancora lacrime, ma questa volta non di gioia. Di delusione e frustrazione per una situazione che sta evidentemente facendo molto male al tennista romano anche sotto il piano emotivo.

Lo scorso anno, al successo in Germania nella finale contro Andy Murray seguì il secondo titolo consecutivo sugli storici campi del Queen’s. Un Berrettini che per l’ennesima volta era stato in grado di tornare immediatamente competitivo, sia sotto il punto di vista fisico che quello mentale, dopo un stop di natura fisica. Un Berrettini che si apprestava a fare il suo esordio a Wimbledon come secondo favorito per i bookmakers. Poi, lo sappiamo, arriva il covid che gli impedisce di giocarsi da protagonista quest’occasione. Un’altra tegola pesante sulla psiche dell’azzurro, che però non molla mai.

Nella seconda parte di stagione ci prova: finale a Gstaad, poi i quarti di finale agli Us Open, tre vittorie su tre in Davis. Non è un Berrettini al 100%, lo si vede, ma dà tutto quello che ha per dimostrare in primis a sé stesso, ma anche alla malasorte che vuole riprendersi tutto. Poi, a Napoli, la sconfitta in finale e il problema al piede che lo costringe a fermarsi di nuovo, per poi tornare a dare una mano ai suoi, nonostante le condizioni che definire precarie è un eufemismo, nel doppio decisivo della semifinale di Davis persa contro il Canada.

Nonostante una preparazione invernale condizionata da questo fastidio, gli exit poll provenienti dalla United Cup con la quale apre il suo 2023 sono più che positivi. Batte due top-10 quali Ruud e Hurkacz, poi fa partita pari – nonostante le sconfitte – contro Tsitsipas e Fritz. Matteo sembra pronto a riprendersi tutto con gli interessi, a tornare ai livelli che gli competono.

Poi, arriva un’altra delusione difficile da affrontare, seppur per una volta non dovuta a problematiche fisiche. Quel passante di rovescio che si ferma in rete sul match contro Murray sulla Rod Laver Arena all’esordio degli Australian Open è una mazzata. Per Matteo, per i suoi tifosi. L’azzurro si prende il mese di febbraio libero per completare la preparazione, ma allo stesso tempo anche per cercare di mettersi alle spalle una sconfitta cocente come quella con lo scozzese. Invece, al ritorno in campo è l’ombra di se stesso: in sfiducia totale dal punto di vista fisico e mentale, si ritira contro Rune ad Acapulco sotto 0-6 0-1, poi perde contro Daniel Shevchenko e McDonald nei tre tornei che gioca negli stati Uniti.

Nonostante il periodo complicato, Matteo e il suo staff sono fiduciosi perché sta bene e la fiducia prima poi tornerà. Sono cose che accadono a tutti. E allora nella “sua” Monte Carlo prova a dare tutto per rialzarsi ancora una volta. E forse anche troppo. Perché nel secondo turno contro Cerundolo avverte un nuovo dolore a quel muscolo addominale che lo fece piangere alle ATP Finals di Torino del 2021 e ancor prima gli Australian Open contro Khachanov lo stesso anno. Resta in campo, vuole vincere a tutti i costi e ci riesce. Ma a caro prezzo. Deve fermarsi ancora, per la seconda stagione consecutiva non può giocare a Roma e Parigi.

Torna, come dodici mesi fa, sull’erba. La superficie che gli può donare fiducia e risultati. Ma è evidente come non possa essere tutto, sempre, così automatico. Vero, Matteo ci ha abituato negli anni a continui stop&go, a ritorni vincenti lasciandosi alle spalle ogni infortunio. Ha dichiarato più volte che l’aspetto “positivo” di così tanti stop sta nel fatto di saperci ormai convivere e quindi conoscere come affrontarli. Ma non siamo robot, neanche Matteo lo è. Può riuscirci una volta, due, anche tre. Poi sia il fisico che la mente presentano il conto. Da quella finale a Wimbledon di due anni fa ha dovuto saltare le Olimpiadi, ha dovuto abbandonare le ATP Finals, non ha potuto giocare nel torneo di casa e al Roland Garros per due edizioni di fila, non ha potuto dare il suo contributo ai compagni nelle Finali di Davis. E in quelle lacrime di oggi non c’è la delusione per il 6-1 6-2 subito dall’amico Sonego, ma tutto ciò che il suo fisico e la sua mente hanno dovuto accumulare nell’ultimo anno e anche di più.

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