Olympic Face

Livio Berruti, l’angelo con gli occhiali da sole

Roma 1960 - Livio Berruti all'arrivo dei 200 metri

Tra la semifinale e la finale olimpica dei 200 metri di Roma 1960 – la prima finale olimpica dei 200 metri della storia in cui è presente un atleta italiano – Livio Berruti fa qualcosa che non si dovrebbe mai fare: non si riscalda. Tra le due gare c’è un intervallo di appena due ore, e i pensieri viaggiano incontrollabili. Sono due ore uniche, inimitabili: un sabato pomeriggio così, tra le 4 e le 6, non tornerà mai più. Così Berruti decide di goderselo, e si lascia cullare dal vento che muove i pini marittimi di Monte Mario e definisce l’inimitabile atmosfera dei Giochi di Roma, gli ultimi Giochi – come si suol dire – “dal volto umano”. Se ne sta seduto su una panca, sotto un ombrellone a raffreddare i pensieri, poi sale in tribuna per osservare dall’alto le altre gare, gli spettatori, le bandiere, il braciere olimpico. Poi, quando si avvicina il momento della gara, torna in pista: le immagini del bellissimo film ufficiale di Roma ’60, interamente a colori, lo colgono nell’atto di fissare a martellate i blocchetti di partenza sul fondo in terra battuta della pista dell’Olimpico. E infine, visto che nel frattempo sono arrivati anche tutti gli altri finalisti, va a salutarli uno per uno, una stretta di mano a testa. Educazione sabauda. E così iniziano i venti secondi più importanti della sua vita.

La storia di Livio Berruti, il primo dei soli tre atleti italiani di sesso maschile a vincere una gara individuale di velocità in un Olimpiade, è una storia diversa. Non sentirete mai pronunciare le parole “sacrificio” o “fatica”, capisaldi esistenziali di un altro fuoriclasse come Pietro Mennea. Berruti, a dire il vero, non amava troppo nemmeno allenarsi, ma non per spocchia o pigrizia: semplicemente, nella vita gli interessava anche altro, e a quell’epoca si poteva essere atleti di livello mondiale anche senza pensare alla pista per 25 ore al giorno. Ha sempre rivendicato l’importanza degli studi, dal Liceo Classico alla Laurea in Chimica, che a fine carriera gli ha garantito un avvenire anche fuori dallo sport. Ha portato la sua diversità anche in pista, in un mondo molto più piccolo, più semplice, più ingenuo, più tagliato con l’accetta, dov’era utopia anche una semplice amicizia tra atleti bianchi e atleti neri: e invece il primo abbraccio dopo aver tagliato il traguardo dei 200 metri Berruti lo riservò all’amico Abdoulaye Saye, senegalese che correva per la Francia, e fecero il giro dei rotocalchi le foto a passeggio mano nella mano nel Villaggio Olimpico con la fuoriclasse statunitense Wilma Rudolph.

Figlio di Alda e di Michele, perito chimico che lavora all’Arsenale Militare di Torino, Livio Berruti trascorre l’infanzia a Stroppiana, nel Vercellese, dove per fortuna riesce a stare lontano dalle miserie della guerra. Da bambino scopre di avere un dono speciale, quando mette a confronto la sua velocità nell’inseguire i gatti con quella dei suoi compagni di gioco. Ma la sua prima passione sportiva è il tennis, e per giocare gratis a tennis accetterà di fare anche un po’ d’atletica, ai tempi del liceo, quando il suo primo allenatore – il professor Melchiorre Bracco – lo indirizza verso i salti, in alto e in lungo, salvo poi cambiare idea un giorno – quando durante l’ora di ginnastica, il 16enne Livio sfida e batte Saverio D’Urso, il più veloce della scuola: è una rivelazione eclatante, impetuosa, che nel giro di pochi mesi lo porta a battere addirittura il campione italiano in carica, Gigi Gnocchi, in una gara a Torino: “In batteria mi misero accanto a lui e io, pur avendo appena mangiato, con la digestione ancora in corso, corsi in 11 secondi netti”.

È il 1956: Berruti ha 17 anni e sembra già maturo per l’atletica dei grandi, tanto che viene anche provato come terzo staffettista per la 4×100 in vista dei Giochi di Melbourne: tutti si sono accorti delle sue straordinarie qualità da curvista, per quel gusto tutto suo di “sfidare la forza centrifuga, piegare il corpo, stringere verso l’interno, una cosa che mi dava immediatamente un senso di piacere, quasi erotico”. Berruti non salirà sull’aereo per l’Australia, ma il decollo è solo rimandato: il quadriennio successivo è una marcia d’avvicinamento dal passo inesorabile verso Roma, un’occasione che sembra fatta apposta. Esplode del tutto nel 1959, quando batte il campione d’Europa Armin Hary sui 100 metri e poi sui 200 anche Ray Norton, il più forte degli americani. Secondo la rivista specializzata “Track & Field” nei 200 metri Livio Berruti è il secondo al mondo, dietro solo a Norton. Il suo periodo di grazia prosegue anche nel 1960, in Europa vince sempre, Zurigo, Varsavia, Duisburg, vince persino a Mosca, 100 e 200 metri. E Roma è sempre più vicina, e bisogna fare delle scelte: la sua, per certi versi sorprendente, è quella di rinunciare ai 100 metri per concentrarsi solamente sulla distanza doppia, e sulla sua amata curva. Anche se, come succede sempre, gli equilibri che si sono venuti a creare in Europa negli ultimi quattro anni improvvisamente non valgono più. Prendiamo per esempio il podio dei campionati Europei di Stoccolma 1958: oro al tedesco Manfred Germar, argento al britannico David Segal, bronzo al francese Jocelyn Délecour. Bene, nessuno di loro partecipa alla finale olimpica: Segal squalificato in semifinale, Délecour eliminato ai quarti, il campione europeo Germar, imbattuto da 74 gare, fuori addirittura in batteria. Ci sono invece gli americani, tutti e tre in grande spolvero: in rigoroso ordine alfabetico, Les Carney, Stone Johnson e Ray Norton. Questi ultimi due, tre mesi prima, hanno stabilito il nuovo record del mondo sulla pista di Palo Alto, 20 secondi e 5 decimi – è ancora un’epoca in cui i tempi si rilevano con il cronometro a mano, con tutta l’imprecisione del caso. Ma ha corso in 20”5 anche un terzo atleta, pure lui primatista del mondo, il britannico Peter Radford a maggio sulla pista di Wolverhampton. E Berruti se li ritrova contro tutti e tre, Norton Johnson e Radford, nella semifinale olimpica più dura che si possa immaginare, e in finale ci vanno solo i primi tre. Alla faccia del sorteggio casalingo…

Subito costretto ad andare forte, Berruti in effetti va fortissimo, 20”5 davanti ai due americani, record eguagliato, finale centrata persino in scioltezza, persino con l’orribile sospetto di aver dato troppo, e di aver finito la benzina in anticipo. Ed è anche per questo che Berruti decide di non forzare, di improntare le due ore tra semifinale e finale all’insegna di un totale relax, perché in quel momento tutta Italia gli sta mettendo addosso una pressione sufficiente a far deragliare un autotreno. Figuriamoci un atleta di 1 metro e 80 per 76 chili, che oggi definiremmo un normotipo e che nel 1960 è sinonimo di grazia ed eleganza. “L’angelo” secondo molti giornali, che giocano anche sui suoi modi educati, quasi da intellettuale, con quegli occhiali da sole indossati non “per avere più carisma e sintomatico mistero” come canterà vent’anni dopo Franco Battiato, ma banalmente per combattere una forte miopia: “Mi mancavano 4 diottrie e mezzo, se avessi corso senza occhiali alla curva sarei andato dritto…”. Gianni Clerici lo chiama “fratino in shorts”, Gianni Brera per definirlo usa una parola – “abatino” – che tanti anni dopo scatenerà un dibattito nazionale perché appioppata a un divo come Gianni Rivera. Berruti e Brera sono legati da un episodio che spiega bene quanto fossero ingenui e genuini quei tempi. Lo racconterà anni dopo lo stesso Berruti, in un’intervista al Giornale: “Una volta Brera mi invita a cena da lui sul lago di Pusiano. Sapendo della passione per i vini arrivo con una scorta di rossi piemontesi da me imbottigliati per sfidare quelli dell’Oltrepò Pavese. Inizia lui con i suoi. Stappa il primo, annusa e fa una smorfia: «Sa di tappo». Seconda, terza bottiglia e stessa smorfia. Imbarazzato per la figuraccia, non mi ha mai più invitato”.

Torniamo a Roma, alle due ore più sospese della vita di Livio Berruti, che ora sa perfettamente di non potersi più nascondere: sarà il favorito di una finale che oltre a lui comprenderà i tre americani Norton, Johnson e Carney più i primi due della prima semifinale, il francese di origini senegalesi Abdoulaye Faye e il polacco Marian Foik. E dunque, come abbiamo visto, non si riscalda. Scende in pista, sistema i blocchetti, stringe la mano agli avversari e questo è un atteggiamento sinceramente sconcertante per tutti gli altri, che pensano “ma guarda questo Berruti, è così forte che nemmeno si riscalda e invece viene a salutarci uno per uno”. Un italiano oro olimpico nei 200 metri? Possibile, in una specialità in cui in 12 edizioni per 10 volte hanno vinto gli americani e per due volte i canadesi? E però c’è un’aria strana attorno alla velocità olimpica, il ponentino soffia a favore della vecchia Europa, se è vero com’è vero che l’America è caduta anche nei 100 metri, vinti dal tedesco Armin Hary dopo 48 anni di dominio statunitense o canadese. E c’è un’aria nuova attorno all’Italia, un vento di rinascita, la sensazione che tutto è possibile e dopo quindici anni di consapevole vassallaggio verso gli Stati Uniti, nell’atletica come nella politica, è arrivato il momento di prenderci anche noi qualche soddisfazione. E allora giù le carte. Partenza subito valida: Norton parte sparato ma Berruti in curva è sontuoso come sempre, raggiunge Norton, lo supera ed entra nel rettilineo in quinta corsia già davanti a tutti. All’esterno Seye tenta la rimonta, torna su fortissimo anche Les Carney ma gli ultimi 50 metri di Berruti sono perfettamente all’altezza della storia: vince ancora in 20”5, ancora record mondiale eguagliato, un decimo più veloce di Carney argento 20”6, due decimi più veloce di Seye bronzo a 20”7. I tempi non ufficiali misurati con l’elettronica saranno più precisi: Berruti 20”62, Carney 20”69, Seye 20”83. Berruti ha corso semifinale e finale in maniera sostanzialmente identica: un piccolo miracolo psico-fisico.

La carriera ad alti livelli di Berruti, sostanzialmente, finisce qui. E per forza: come fai a fare meglio? Se non sei un agonista puro, se non dedichi alla corsa e alla fatica ogni tuo pensiero, come fai a pensare di continuare? Berruti andrà avanti per onor di firma, concedendosi un ultimo scatto d’orgoglio prima dei Giochi di Tokyo 1964, pungolato dalla frase incauta di un collega, il brianzolo Sergio Ottolina, che a un giornale dirà che “Berruti è finito”. Arriveranno tutti e due in finale: però Ottolina finirà ultimo e Berruti quinto, a due decimi dal trinidegno Roberts medaglia di bronzo, mentre gli americani avranno di nuovo ripristinato l’ordine costituito vincendo a mani basse l’oro e l’argento. Sta arrivando un altro modo di concepire l’atletica, meno improvvisato, più professionistico, con il tartan al posto della terra battuta, con meno eleganza e più potenza, simboleggiato dalla possanza del primo grande campione dell’era moderna, l’americano Bob Hayes. Ma Berruti, non ne farà certo una tragedia: parteciperà anche ai Giochi di Città del Messico 1968, eliminato in batteria nei 200 che adesso, dall’altra parte del mondo, racconteranno tutta un’altra storia, la storia con la S maiuscola, quella scritta da Tommie Smith e John Carlos.

Ma Berruti era talmente avanti che la questione dell’integrazione razziale, per quanto lo riguardava, l’aveva già risolta otto anni prima. Ricordate la sua amica del villaggio olimpico? Da sessant’anni, alla faccia di un oro olimpico leggendario, la domanda che gli rivolgono più spesso è sempre quella: ma poi, con Wilma Rudolph, dopo che vi eravate presi per mano…? Nulla di fatto: “Il giorno dopo mi presentai al villaggio femminile per cercarla, avevo architettato un invito a cena a Trastevere, il mio inglese era scarsissimo ma ero fiducioso di passare dalla fase platonica a quella aristotelica. Ma non c’era più: mi dissero che il Comitato Olimpico Americano non voleva pagare il soggiorno ad atleti che avevano già concluso le gare. E poi si diceva che su di lei avesse messo gli occhi un certo Cassius Clay… l’ho rivista vent’anni dopo, ma era insieme al marito”. Così finirono, con una punta di dolce malinconia tipica dell’estate che volge al termine, le memorabili vacanze romane 1960 di Livio Berruti da Stroppiana, Vercelli, Italia.

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