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ESCLUSIVA – Marco Galiazzo: “Realizzai di aver vinto dopo 3 anni, l’oro a squadre fu più cercato”

Marco Galiazzo
Marco Galiazzo - Foto FITArco

Un oro individuale e uno a squadre, specialità in cui vanta anche un argento. Marco Galiazzo ha scritto la storia del tiro con l’arco italiano alle Olimpiadi, pur avendo iniziato a scoccare le prime frecce relativamente tardi, intorno all’età di 14 anni. Con un amore sbocciato immediatamente supportato dal grandissimo talento, l’arciere classe 1983 ripercorre le sue imprese a cinque cerchi nel podcast ‘Oro‘ a cura di Giuseppe Pastore e Alessandro Nizegordcew.

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Le domande sono piuttosto classiche per chi entra nelle case degli italiani dal giorno alla notte, in un pomeriggio di venerdì di agosto, quasi da sconosciuto a 21 anni. Come andò quella giornata? Che ricordo hai a partire dal risveglio, visto che iniziasti a gareggiare dal mattino con gli ottavi di finale alle 10 contro Ilario Di Buò?
Forse è stato un vantaggio non essere un favorito perché pensavo di fare la mia gara senza avere pressioni esterne, ho dato il massimo che potevo. È andato bene anche il percorso in base alla qualifica, è andato tutto come doveva andare.

In realtà leggendo le cronache di quel giorno mi è capitata una frase del tuo ct Luigi Vella che disse testualmente: “Se oggi ci sarà vento sarà la giornata di Di Buò, altrimenti quella di Galiazzo”. C’era un’aria di impresa nell’ambiente italiano quel giorno?
Io col vento mi sono trovato bene, il fattore probabilmente era più per l’esperienza che Di Buò aveva ma anche io non mi sono mai trovato molto svantaggiato rispetto agli avversari con il vento.

Com’era psicologicamente affrontare un derby agli ottavi? Siete abituati, ma per un posto nei primi otto all’Olimpiade forse era una cosa che non ricapitava più.
Era molto difficile perché sai qual è il valore dell’avversario rispetto agli stranieri, ce l’hai sempre in casa e sai quanto può fare. Sapevo che Ilario poteva tirare molto bene e che sarebbe stato uno scontro molto difficile, poi ci sono stati degli errori che mi hanno permesso di avanzare.

La storia del tiro con l’arco è una storia di Corea del Sud, tutto passa da quella nazione. E anche nel tuo caso si scrisse molto dell’allenatore, detto Pietro, che ha accompagnato tutta la vostra generazione in quei mesi. Qual è la sua storia? Come l’hai conosciuto e qual era il tuo rapporto con lui?
Venendo dalla categoria giovanile, l’ho trovato come tecnico della nazionale senior. Tende ad ascoltare gli atleti, era cambiato molto dalla mentalità coreana: rimanendo molti anni in Italia si era occidentalizzato abbastanza, cercavamo sempre di trovare un compromesso tra i nostri modi di pensare.

A proposito di coreani, per noi profani risulta inconcepibile in modo positivo la storia personale di colui che era il favorito: Im Dong Hyun, che era ipovedente per non dire peggio…
Questo non lo sappiamo, lo dice lui… I coreani hanno il tiro con l’arco come noi abbiamo il calcio, ci sono impianti in università, scuole, stadi solo per questa disciplina. La mentalità di vivere asiatica aiuta molto nel tiro con l’arco, basta pensare che a 8-9 anni tirano già 600 frecce al giorno, da noi è impensabile una cosa del genere. Può essere anche che non vedesse benissimo ma riuscisse ad aiutarsi con la tecnica.

Quando hai visto che era stato eliminato hai pensato a qualcosa o sei rimasto concentrato sulla tua gara?
Capita spesso all’Olimpiade che il primo esca con l’ultimo, dove il primo ha tutto da perdere: c’è tensione. Fondamentalmente non mi preoccupavo di chi avevo davanti, cercavo di pensare alle mie frecce e come tirare, al vento e dove contromirare. Poi se l’avversario faceva di più, allora bravo lui.

Hai battuto Serrano di un punto, così come Wunderle ai quarti, Godfrey di due punti in semifinale e Yamamoto in finale. Hai mai pensato in questi 20 anni “Se avessi sbagliato quella freccia lì la mia vita sarebbe stata diversa”? Hai una freccia esatta tra tutte quelle scoccate che può essere stata la chiave della giornata?
Onestamente no. A parte che mi sono reso conto di aver vinto l’Olimpiade dopo tre anni… Non ho registrato le frecce tirate, non ho ricordi di come le ho tirate: è stato un insieme di prestazioni, neppure l’ultima tirata in finale la ricordo bene come sensazioni.

In che senso te ne sei accorto dopo tre anni?
Fondamentalmente l’Olimpiade è una gara come tutte le altre. È vero che arriva ogni 4 anni, ma gli avversari sono sempre gli stessi. Forse si può dire che è più “facile” di un Mondiale perché sono solo 64 atleti e c’è meno probabilità di perdere. Non mi sono reso conto subito del fatto che fosse un’Olimpiade: per me era una gara di tiro con l’arco e dovevo tirare meglio che potevo per vincere. Nella mia carriera non ho mai pensato “ad agosto ci sono i Mondiali, poi le Olimpiadi…”, ho sempre cercato di dare il massimo in ogni gara e a volte succedeva che ero consapevole di quello che potevo fare.

Qual è la sensazione che si prova quando ti sta riuscendo tutto e quando si trema un po’ e si sente la tensione in questa disciplina?
Quando la gara va come deve andare tiro e faccio 10, sapendo che l’avversario non può competere con te. Però magari anche lui fa 10 e allora iniziano a venire i dubbi, il male assoluto per un atleta, che deve essere convinto di quello che sta facendo. Inizia a venir fuori il discorso “Se questa la tiro male…” e arriva la paura di sbagliare, quella è la fine dell’atleta.

Vinci l’oro circa alle 3 del pomeriggio, poi cosa succede fino alla sera? Cosa accade dall’ultima freccia fino al momento in cui sei andato a dormire?
Siamo andati a Casa Italia, cenato lì e fatto una piccola festa. Non potevamo fare troppa baldoria perché il giorno dopo c’erano gli scontri a squadre. Purtroppo andò male, potevamo prendere una medaglia anche lì. Ci eravamo qualificati bene, il primo scontro era senza avversario e non abbiamo potuto tirare nel campo di gara. Lo scontro successivo abbiamo gareggiato contro una squadra che sapeva già luce e vento com’erano. La prima volée l’abbiamo persa di 4 o 5 punti, poi abbiamo fatto sempre di più ma non abbiamo recuperato i punti persi.

Dà più gusto l’oro individuale o a squadre? Sei uno dei pochissimi arcieri della storia ad avere questo privilegio.
A mente fredda si può dire che l’individuale è più prestigioso ma la medaglia d’oro l’ho vinta come prima Olimpiade e non era preventivata, non cercata. L’oro di Londra invece è stato voluto perché venivamo da un argento a Pechino, quasi oro, e ha dato più soddisfazione.

Non è bello parlare degli 8 che fa un arciere, ma quello che fai alla penultima freccia della finale a squadre contro gli Stati Uniti mette il tuo amico Michele Frangilli nelle condizioni di fare il numero finale con il 10 che porta l’oro: una sceneggiatura da film emozionantissima. Cos’hai pensato in quel momento? Tensione, dispiacere?
No, assolutamente. Perché la freccia precedente di Frangilli è stata un 8 e io 10, poi quella successiva io 8 e lui un 10. La mia prima freccia un 10 e la sua un 8 a destra, poi io un 8 a sinistra e lui un 10 in centro. Probabilmente è stata anche una questione di vento, è andata bene così.

Nelle gare a squadre c’è sempre un modo di supportarsi: c’è il momento in cui uno va bene e l’altro meno, com’era il vostro rapporto? Che tipo di squadra eravate?
Una squadra che funzionava bene, ci compensavamo a vicenda. Se uno andava male, noi cercavamo sempre di portare il 10 e ci riuscivamo. Non si parla molto perché si è concentrati, si danno informazioni sul vento. Poi sta a quello che arriva dopo credere di ciò che dice il tuo compagno, anche quella è una questione di fiducia.

E Londra quando l’hai realizzata? Sempre dopo 3 anni?
No, già in semifinale perché aveva perso la Corea e lì ho pensato “ok, abbiamo vinto”. Conoscendo noi e gli avversari, ero abbastanza convinto del successo.

Torniamo indietro, hai iniziato a 14 anni a tirare con l’arco e dopo 7 hai vinto un oro olimpico. Ricordi cosa pensasti a quell’età quando hai iniziato in questo sport?
Ho iniziato per caso, c’era un amico di mio padre che lo praticava. Praticavo calcio ma non piaceva granché, poi abbiamo provato in una società di tiro con l’arco con un corso. Ho cominciato a fine ’96 e dal ’98 sono in nazionale, dal secondo campionato italiano li ho vinti tutti sino alla categoria senior.

Dopo due anni era già in nazionale, ti è riuscito subito tutto bene?
Sì, mi riusciva abbastanza facile. Imitavo l’istruttore e ci riuscivo, magari è stato anche molto merito suo.

Hai avuto la fortuna di gareggiare ad Atene in un luogo mitico dello sporto come il Panathinaiko dove Baldini vincerà l’oro nella maratona. Avevi notato questo particolare campo gara e in qualche modo ti ha ispirato?
L’Olimpiade è partito tutta da lì fondamentalmente, ma non avevo metri di paragone. Poi gareggiando in altri Giochi ho potuto dire che fosse il più bello: a Pechino era uno stadio normale e con lo smog, a Londra era uno stadio storico del cricket.

Dovendo metterle in fila a quale sei più affezionato?
Atene, Londra, Pechino. Poi Rio, che non è andata benissimo.

 

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