“Che nemmeno Mennea” è il titolo di un album di Daniele Silvestri del 2013. “Pietro Mennea e Sara Simeoni/son rivali alle elezioni”, gli risponde Samuele Bersani nel verso di una sua canzone del 2002, “Che vita!”, che ironizzava sul destino di due delle figure più popolari dello sport italiano anni Ottanta. “Pietro Mennea e Sara Simeoni erano l’unico caso in cui l’atletica ha fatto lievitare le copie dei quotidiani sportivi”, disse una volta Giorgio Tosatti, direttore del Corriere dello Sport in quegli anni ruggenti. Nei decenni il nostro eroe è stato citato al cinema da Ettore Scola, Paolo Sorrentino, in “Febbre da cavallo” di Steno. Le gesta di Pietro Mennea da Barletta sono rimaste proverbiali e resistono a distanza di quasi mezzo secolo, nonostante tutta una serie di valori – il lavoro, la fatica, lo spirito di sacrificio – drammaticamente uncool nell’era del guadagno facile e dell’estetizzazione dello sport. Sono incastonate tra due decenni profondamente diversi della storia d’Italia, tra la cupezza degli anni Settanta e la spensieratezza un po’ plastificata degli Ottanta. Mennea si è incaricato di portare il testimone da un’epoca all’altra, trasmettendo serietà, dandoci orgoglio, persino gioia, una spinta emotiva che sta tutta condensata in quei venti secondi e diciannove centesimi con cui rincorse il suo sogno per duecento metri sulla pista dello stadio Lenin di Mosca, il 28 luglio 1980, alle 20:10 ora locale, 23 gradi, umidità al 56 per cento, vento sostanzialmente assente.
Mennea non era simpatico. All’indomani della sua morte, sopraggiunta il 21 marzo 2013, il Corriere della Sera pubblicò un’intervista a Livio Berruti che non indugiò a raccontare almeno un paio di episodi sgradevoli, esemplificativi del suo rapporto conflittuale con la “Freccia del Sud”. “Considerava il mondo un nemico e per dare il meglio doveva sentirsi solo contro tutti. Ma ancora oggi mi chiedo: quanto è stato utile tramandare quell’immagine di sofferenza?”. Il bello, o perlomeno l’affascinante di Mennea era che lui non si poneva alcun dubbio sulla propria condotta di vita: la fatica era l’unico modo per riuscire, accompagnata da una fiducia in sé stesso che nei momenti di grazia sconfinava in una vera e propria fede. A fargli da contraltare, il sarcasmo e il disincanto dell’allenatore Carlo Vittori, che l’aveva ammirato per la prima volta ad Ascoli nel 1969 e l’aveva incontrato un anno dopo a Formia, portato lì dal suo allenatore dell’epoca, il professor Franco Mascolo. Avevano stabilito una connessione miracolosa, con i vuoti dell’uno contrapposti ai pieni dell’altro. Quando Vittori tardava di qualche minuto per una seduta, trovava immancabilmente Mennea ad aspettarlo, picchiettando col dito indice sull’orologio. E negli anni, ogni volta che Vittori veniva invitato ai vari convegni per illustrare la tabella di marcia che Mennea aveva seguito per stabilire il record del mondo a Città del Messico 1979, riceveva sempre la stessa domanda: “Ma chi ha seguito questo programma è ancora vivo?”. 5 ore al giorno per 14 allenamenti alla settimana per 350 giorni all’anno, con appena due settimane di riposo. Due ore di pesi al mattino, poi tre ore in pista per una serie interminabile di “ripetute alattacide”, cioè che non mirano ad accumulare acido lattico nel sangue: venti serie sui 60 metri, divisi in quattro serie da cinque. Poi la parte finale, lattacida e dunque massacrante, tre serie da tre su distanze tra i 150 e i 250 metri. Senza contare i venti minuti giornalieri di riscaldamento e altre quattro ripetute di 60 metri di corsa balzata, prima di iniziare l’allenamento vero e proprio. Il suo segreto era nelle straordinarie capacità di recupero, illustrate dal fedele fisioterapista Nazareno “Rocky” Rocchetti: “Tutte le sere finivo di massaggiarlo intorno alle 23, poi di corsa a letto. Come lui non ne ho visti più”.
Poi però bisogna allenare anche la testa, e a Mosca 1980 la testa probabilmente conta più di ogni altra cosa. Intanto perché è un’Olimpiade, e dopo il bronzo di Monaco 1972 (alle spalle del sovietico Borzov) Mennea si porta ancora dietro la delusione di Montréal 1976, un quarto posto molto amaro con la tentazione di mollare tutto. Poi perché quella di Mosca è un’Olimpiade particolare, squassata dalle polemiche degli atlantisti che vogliono aderire al boicottaggio promosso dagli Stati Uniti e del centro-sinistra che vuole esserci lo stesso. Noi, così come gli inglesi, sceglieremo naturalmente di tenere il piede in due scarpe: ci andremo senza inno né bandiera né atleti che facciano parte dei corpi militari – musica per le orecchie di Mennea, che non ha nessun motivo per disertare Mosca, “queste maledette Olimpiadi” non per il veleno della politica, ma per l’ansia che gli provocano. Da poco meno di un anno è primatista mondiale dei 200 metri, un folle 19”72 alle Universiadi che durerà per 17 anni, agevolato anche dall’alta quota di Città del Messico. Senza gli americani dovrebbe essere un po’ più favorito, anche se ai nastri di partenza saranno presenti almeno altri due grossi calibri come il campione uscente Don Quarrey, giamaicano, e lo scozzese Alan Wells, “l’ingegnere volante” per via della sua laurea in ingegneria navale.
La magra figura rimediata sui 100 metri, dove i suoi atavici problemi a uscire dal blocchetto gli costano l’accesso in finale, gli riempie la testa di dubbi. E Mennea, che già di natura non è un allegrone, si chiude ancora di più nel suo ostinato mutismo. Oltre a Vittori, riescono a fare breccia nella sua corazza solo due persone: il fratello Vincenzo, con cui intrattiene una lunga conversazione telefonica Mosca-Barletta, e il grande Valery Borzov, che viene a fargli visita al villaggio olimpico e gli dispensa un consiglio prezioso: “Per tornare a essere Mennea, devi dimenticarti di essere grande ed entrare in pista pensando di essere una nullità. Lo sanno tutti che sei un campione, ma tu devi dimostrarlo in gara, non prima”. Domenica 27 luglio, dopo una batteria interlocutoria superata in scioltezza, riscopre antiche sensazioni ai quarti di finale, vinti bene in 20”60. Il lunedì mattina fa colazione alle dieci e mezza, poi fedele alla linea inizia a immagazzinare energie per il pomeriggio: si fa cucinare un piatto di spaghetti da uno dei suoi pochi amici fuori dall’atletica, il lottatore Antonino Caltabiano, poi completa il pranzo – carne, pesce, molta frutta – con il dirigente del CONI Ernesto Sciommeri. All’una va a riposare e alle 15:30 sale sul pullman per lo stadio Lenin, sempre scortato da Caltabiano. Quindi supera la semifinale con un 20”70 che verso la fine è quasi camminato, con tanto di gesto sul traguardo vagamente derisorio a Quarrie di rallentare, per non sprecare energie preziose. Le due manche di semifinale sono compressissime: i tempi degli otto finalisti sono racchiusi in appena 32 centesimi di secondo, dal 20”61 del cubano Silvio Leonard al 20”93 del suo connazionale Osvaldo Lara. Pur senza sovietici, è una finale marcatamente orientata verso Est, sia geografico che politico, che oltre a Wells, Leonard, Quarrie e Lara comprende anche i polacchi Lech Dunecki e Marian Woronin e il tedesco DDR Bernhard Hoff.
Il sorteggio delle corsie, del tutto casuale e indipendente dai tempi di semifinale, riporta il malumore nella tempestosa testa del campione. A Mennea tocca una scomodissima ottava corsia, col fiato sul collo di Wells in corsia 7, mentre ancora peggio va al migliore dei semifinalisti, Leonard, addirittura in prima corsia. Il clan italiano, a cominciare dal presidente FIDAL Primo Nebiolo, sospetta un qualche complotto britannico per sfavorirlo: non è escluso ci pensi anche Mennea, sempre predisposto ai cattivi pensieri. Ma bisogna star tranquilli, nonostante la mascella indurita e l’espressione facciale ai blocchi di partenza dicano tutt’altro. L’avvio di gara conferma l’inquietudine di Mennea: si solleva troppo presto, riducendo la spinta iniziale, come mosso da un’urgenza insopprimibile. Gli scappano tutti: non solo il temuto Quarrie in quarta corsia, ma soprattutto Wells che gli sfila a sinistra, creandogli una sensazione sgradevole anche dal punto di vista visivo. Dieci secondi e siamo già a metà gara, in piena curva: non c’è tempo per respirare, figurarsi per pensare, eppure la versione che Mennea darà di questi istanti infiniti racconta di una lucidità impressionante. “Ho pensato che si stesse mettendo male, ma tutto quel veleno è stato il mio carburante per rimontare. Ho pensato: non avrò altre occasioni. Dodici anni di lavoro e di dolore per niente”. Wells è lanciato verso l’oro olimpico, ma dalla penultima posizione è partito il micidiale rush finale di Mennea, scandito dalla cantilena del telecronista RAI Paolo Rosi: “Recupera, recupera, recupera…”. L’Italia nelle spiagge e nei bar, a Milano come a Barletta, sotto il tenue chiarore del cielo che volge al tramonto, l’Italia cantata da De Gregori assiste col fiato sospeso. “Recupera, recupera… ha vinto!”, esclama Rosi, mentre Mennea arriva primo al traguardo per due centesimi di secondo, alza le braccia – un lampo che fa rabbrividire Vittori, temendo che quel gesto gli costi qualche centesimo – e solleva il ditino indice, lo stesso che picchiettava sul quadrante dell’orologio per rimbrottare Vittori e adesso è gioiosamente alzato – per quanto possa essere gioioso Mennea – per indicare il numero uno, il comun denominatore di ogni vittoria.
Al traguardo, dopo un festoso giro di campo, dopo i baci ai tricolori e il podio muto, Mennea torna Mennea: la sua versione malmostosa, ispida, terribilmente fiduciosa di sé stesso. Parla in terza persona, come nelle grandi occasioni, e il suo mistero è chiuso in sé: “Non saprete mai perché Mennea sia uomo da dieci e sessanta sui cento e poi da vittoria olimpica sui duecento. Non vi spiegherò mai il segreto”. Già in quel momento sente che il sacro fuoco si sta attenuando: da lì in poi, potrà solo scendere. “Il più grande masochista della storia della velocità” (Livio Berruti) inizia a programmare il declino: forse è simbolico che il premio da otto milioni di lire venga investito in sei poltrone di pelle Frau. Verranno gli anni dello studio “matto e disperatissimo”, con quattro lauree (scienze politiche, giurisprudenza, scienze motorie e sportive, lettere) e decine di libri divorati con la stessa dirittura morale di quando correva, di quando rimontava. “Hai visto Mennea?”, si chiedeva l’Italia, l’Italia del valzer e l’italia del caffè, l’Italia derubata e colpita al cuore, come canticchiava qualche ora prima con un filo di voce Sara Simeoni sul podio dopo l’oro nel salto in alto, in mancanza dell’inno di Mameli nel pieno di un’estate memorabile, bella e terribile, straziata pochi giorni dopo da una sconcertante strage terroristica. Viva l’Italia, l’Italia che non muore.