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ESCLUSIVA – Roberto Di Donna racconta l’oro di Atlanta 1996: “Aveva ragione Pavarotti: ho realizzato quanto fatto al rientro”

La gara finisce quando si taglia il traguardo, ne è un metro prima, ne è un metro dopo“. Parole semplici che racchiudono però l’imprevedibilità dello sport, pronunciate da Roberto Di Donna, protagonista di uno dei momenti olimpici più incredibili della storia dello sport italiano e non solo. Nella finale di pistola 10 metri ad aria compressa che aprì i Giochi di Atlanta 1996, l’azzurro conquistò infatti la medaglia d’oro spuntandola in un duello dal finale inaspettato con il cinese Wang. Di Donna, intervistato da Giuseppe Pastore e Alessandro Nizegorodcew (quest’ultimo coadiuvato al montaggio da Diego Sorano), ci ha raccontato le emozioni di quel giorno nella prima puntata del podcast “Oro”, una produzione Nexting e Sportface che ripercorre le grandi vittorie azzurre a cinque cerchi a pochi mesi dal via delle Olimpiadi di Parigi 2024. Ecco, di seguito, le parole di Roberto Di Donna.

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Se tu adesso chiudi gli occhi e torni a prima di quella gara, non al dopo, non alla gioia, all’incredulità di quel momento, ma a prima: che immagini ti vengono in mente?

Le immagini sono ancora vivide. Io ho un ricordo ben preciso della meticolosità con la quale mi ero preparato a quelle Olimpiadi, curando ogni minimo dettaglio. Ti faccio un esempio: avevo visto che al villaggio olimpico ci potevano essere delle zanzare e mi ero portato le zanzariere da casa da mettere alle finestre, che poi fortunatamente non sono servite. Questo per farti capire che era la mia terza Olimpiade, ero in forma, ero uno dei favoriti e di conseguenza ero molto teso, ma molto concentrato sull’obiettivo, che era quello di riuscire quantomeno a salire sul podio. Ho proprio questi ricordi della preparazione. Venivo da un’annata con risultati importanti, avevo vinto le due prove di Coppa del Mondo che fungevano anche da preolimpica, dunque conoscevo bene gli impianti ed ero determinato e concentrato nel voler perseguire l’obiettivo di essere competitivo. Tanto è vero che anche i giorni prima avevo dato poco spazio alle interviste, perché poi chiaramente le interviste erano da fare, però due giorni prima della gara mi ero chiuso e ho deciso di non rilasciare più interviste per rimanere concentrato su quello che dovevo fare.

Una curiosità: quella Cerimonia di Apertura passa alla storia per Muhammad Ali, per la grande emozione. Non so, dovendo gareggiare il mattino successivo, se avessi partecipato alla Cerimonia…

Era la mia terza Olimpiade e noi come tiro a segno abbiamo sempre aperto i Giochi perché le nostre sono sempre state le prime gare. Di conseguenza, avevo già deciso da tempo di non partecipare alla Cerimonia di Apertura, anche perché poi quello che noi vediamo della Cerimonia è la sfilata, però bisogna essere lì molte ore prima. Comunque è stancante, io mi ero visto l’accensione della fiaccola del grande Muhammad Ali da una piccola televisione che c’era al villaggio olimpico, dopodiché ero subito andato in camera per concentrami e prepararmi per il giorno dopo. Dunque me ne sono visto un piccolo pezzo in televisione.

Un’altra cosa che si ricorda di quell’Olimpiade è la difficoltà negli spostamenti, almeno tutti i giornalisti ricordavano quanto fosse caotico il sistema delle navette e degli autobus che portavano gli addetti e lavori. Dovendo tu gareggiare la mattina presto, avevi questo problema, questa ansia di fare ritardo?

No, perché poi alla fine ci si organizzava per partire per tempo. Il viaggio era un po’ lungo, nonostante le corsie preferenziali, però alla fine non mi ha disturbato assolutamente. Ero proprio partito per tempo per arrivare al campo di gara con largo anticipo e fare il riscaldamento. Non ho ricordi di aver avuto difficoltà sotto questo punto di vista.

Oggi ovviamente si parla sempre di preparatori di ogni tipo, mental coach, cose che immagino siano soprattutto nuove. Come era la preparazione tua mentale visto che arrivavi da vittorie importanti, che eri uno dei favoriti, quindi un po’ di pressione addosso immagino te la sarai messa da solo e un po’ te l’avranno messa anche gli altri? Mentalmente come ci eri arrivato?

Io ho fatto un percorso di cura anche per quanto riguarda la ricerca dell’attenzione con l’agopuntura. Facevo delle sedute di agopuntura, avevo provato anche prima delle gare e mi ero trovato bene. Però sostanzialmente il grosso della preparazione mentale l’avevo fatto da solo, nel senso che oramai conoscevo quelli che potevano essere i miei punti di forza e i miei punti deboli e mi ero preparato anche in questo. Noi soffriamo molto quella che è l’ansia: durante la finale olimpica avevo 167 battiti, più o meno come Pantani sul Pordoi. Comunque era una situazione assolutamente di difficoltà, però era una situazione che ero abituato a vivere quindi non era una cosa che mi sconvolgeva più di tanto. La bravura nostra doveva essere proprio quella di riuscire a sganciare il colpo nell’attimo fuggente, dunque era una situazione di grandissimo stress, ma eravamo anche preparati quantomeno a conviverci, a volte anche ad assecondarlo. Questo era l’importante, questa è la differenza che fa chi riesce poi a primeggiare in quei momenti: riuscire a superare quei momenti di crisi che sono dovuti proprio a questo enorme carico di stress.

Lo stress giocò un brutto scherzo al tuo avversario più importante, che è stato un gigante del tiro a segno. Immagino che nel ‘96 parlare con un cinese fosse ancora più difficile di quattro sia oggi, che rapporto avevi con lui?

Ci siamo rivisti un paio di anni fa, ci siamo abbracciati, ci siamo anche commossi, lui ora è il vicepresidente della Federazione internazionale. Ho un bel ricordo, ci conosciamo bene perché negli ultimi anni ci trovavamo sempre a vivere questi testa a testa continui. Io ho vinto, mi ricordo, una Coppa del Mondo a Pechino, dove secondo, terzo e quarto erano arrivati 3 cinesi e lui arrivò secondo, dunque c’era sempre stata questa grande rivalità. Nelle due gare preolimpiche che ho vinto proprio quell’anno ad Atlanta, credo lui fosse arrivato entrambe le volte secondo. C’era questa rivalità sportiva molto accesa. Lui è stato un gigante e ha dimostrato di sapersi prendere molto bene. Lì ha avuto un momento di grandissima difficoltà perché proprio prima dell’ultimo colpo c’è stato un blackout, siamo stati fermi molti minuti. Probabilmente l’Olimpiade l’ho vinta lì perché sono riuscito a rimanere assolutamente concentrato e a staccarmi da quella che era la classifica, io non sapevo assolutamente in che posizione fossi. Quando è stato dato lo start per sganciare l’ultimo colpo, dallo start passano 75 secondi, lui ha alzato la pistola: non ha tirato la prima volta, non ha tirato la seconda, ha tirato la terza. Il tempo stava per scadere e clamorosamente ha fatto il colpo che ha fatto, che è stata la sua tragedia sportiva e umana ed è stata sicuramente la mia fortuna. Però, come anche ho sempre detto dopo, la gara finisce quando si taglia il traguardo, ne è un metro prima, ne è un metro dopo. Lì è stata la mia bravura e capacità di rimanere legato alla gara e concentrato e purtroppo il dramma di Wang è stato proprio quello che non ha retto la pressione dell’ultimo colpo.

Roberto Di Donna, Olimpiadi di Atlanta 1996 – Foto archivio CONI

Oggi la prassi istituzionale prevede che una medaglia d’oro olimpica venga contattata da un alto dirigente, magari anche un presidente della Repubblica. Come andò il post-vittoria nel ’96?

C’era il Presidente del Coni perché al campo di tiro dove eravamo noi c’era anche il tiro a volo e noi abbiamo una grandissima tradizione nel tiro a volo dunque erano a vedere anche le loro gare. Quindi tutta la dirigenza del Coni era presente durante la mia finale ed è stata poi una grande festa. Un piccolo aneddoto: ho avuto problemi con l’anti-doping perché riuscivo a fare quello che dovevo fare, ma mancava la densità perché avendo bevuto parecchio era troppo liquida. Dunque ho dovuto rifare l’anti doping il giorno dopo e ho dormito al villaggio olimpico in stanza col presidente dell’antidoping, che era un signore brasiliano, e poi il giorno dopo mi sono svegliato, ho rifatto l’esame antidoping ed è andato tutto bene. Poi c’era questa festa in mio onore in quanto era la prima medaglia d’oro dell’Italia e c’era Pavarotti ospite. Ho un ricordo bellissimo perché Pavarotti mi disse: “Lei ieri ha fatto una bellissima cosa per il nostro Paese”. Io subito non capii bene quelle parole e dissi: “Maestro, detto da lei che ci rappresenta nel mondo da 40 anni massimi livelli è un grande privilegio”. E lui mi disse: “Lei se ne renderà conto quando tornerà a casa di quello che ha fatto”. E in effetti questo è stato, mi è cambiata la vita. Ero riconosciuto un po’ ovunque e ho smesso, ad esempio, di andare in alcuni ristorati della mia città perché non riuscivo mai a pagare dunque avevo anche questa sorta di vergogna a presentarmi. Ha cambiato sostanzialmente la mia vita e la cosa che mi rende più orgoglioso è che ho fatto entrare un po’ il tiro a segno nella casa degli italiani perché è stata una delle finali più seguite in quanto era stata trasmessa alle nove di sera e c’era mezza Italia davanti alla televisione. È stata una gioia perché credo di essere riuscito a promuovere un po’ uno sport come il tiro a segno, dove abbiamo un ipotetico quarto d’ora di gloria ogni quattro anni se riusciamo a vincere.

Tornando alla gara, se dovessi scegliere tre momenti di quella gara?

I tre momenti li ricordo benissimo. Uno è della fase eliminatoria, dove avevo questa tensione che mi stava mangiando e ho detto: “No, ma io devo riuscire a fare bene lo stesso”. Avevo questo cuore che ho addirittura smesso di ascoltare, cercavo ogni colpo nonostante questa pistola andasse un po’ ovunque perché chiaramente la tensione era alle stelle. Ma sono riuscito comunque a rimanere molto molto concentrato ed ero un po’ deluso perché con gli ultimi 10 colpi avevo avuto qualche difficoltà. Un altro momento fondamentale è stato il primo colpo di finale dove ho tirato un otto, un brutto colpo ed ero sceso in classifica. Però è stata anche un po’ la mia fortuna perché a quel punto mi sono completamente dimenticato della situazione della classifica e ho pensato a tirare gli altri nove colpi cercando proprio ogni colpo il centro perfetto ed è stato forse quello il momento anche topico che mi ha consentito di rimanere agganciato alla finale e riuscire, colpo dopo colpo, a guardare le posizioni fino a questo ipotetico secondo posto. Il mio amico Stefano Bizzotto (telecronista, ndr) ha detto “prima medaglia d’argento per l’Italia” perché doveva ancora tirare l’ultimo colpo Wang e poi è successo quello che è successo. È stato proprio un momento sportivo che credo abbia creato un certo phatos su un po’ tutti, nel senso che una sicura medaglia d’argento nel giro di pochi secondi si è trasformata in medaglia d’oro. Poi è stata una festa per i nostri colori ed è stato un momento molto difficile per Wang.

Ma te ne sei accorto subito, cioè avevi conteggiato quando doveva fare perché tu vincessi? Perché immagino che non ti aspettassi quel colpo…

No assolutamente. Io ho questo ricordo molto vivido, quando ho tirato l’ultimo colpo, ho detto: “Lo devo sganciare subito”. Perché la tensione mi stava proprio assalendo, dunque ho cercato proprio di anticipare un po’ i tempi. Mi sono girato a verso il mio commissario tecnico e mi fa: “Sei arrivato secondo”, perché chiaramente Wang doveva ancora tirare e io ero già contento perché memore del primo colpo di finale che non era dato bene, il secondo posto a quel punto era già un grande successo per me. Dopodiché è successo che dopo circa 50 secondi ha tirato Wang e ho sentito un boato, credo ci fossero state 4-5 mila persone nel palazzetto e generalmente il boato c’è se fai un gran colpo o se fai proprio un colpo di quelli terribili. Mi sono girato e (il Ct, ndr) mi ha detto: “Aspetta”. E dopo 3 secondi è proprio esploso il palazzetto perché credo forse di aver avuto qualche tifoso in più rispetto al cinese in quel momento. A quel punto io non ho capito più niente, mi hanno abbracciato tutti e c’è stato un momento veloce ma molto intenso a livello emotivo.

Dopo qualche giorno poi hai vinto anche una medaglia di bronzo: qual era il tuo stato d’animo? Eri più rilassato, più responsabilizzato, cosa ricordi di quella seconda medaglia?

Mi riallaccio al discorso della festa di Pavarotti. Dovevo essere quella sera a tavola con lui appunto per proseguire i festeggiamenti e gli dissi: “Maestro, torno al villaggio olimpico perché io dopodomani ho un’altra gara e voglio proseguire con questo percorso”. E lui mi disse: “Ti capisco e fai benissimo a fare quello che stai facendo”. All’inizio è stata forse la gara tecnicamente più bella della mia carriera. Poi c’è stato un problema: durante la finale ero in testa e ho tirato un colpo che io nella mia testa avevo visto un buon colpo, me lo sono trovato invece lontano dal centro. Lì ho iniziato a perdere un po’ di fiducia nei miei mezzi, tanto è vero che si vede anche nel podio che di quella medaglia di bronzo non ero assolutamente soddisfatto proprio perché avevo condotto la finale fino a tre colpi dalla fine e poi c’è stato quel momento un po’ problematico che non sono riuscito a superare e mi sono dovuto accontentare del bronzo. Però mi ha lasciato l’amaro in bocca, anche se poi comunque è sempre una seconda medaglia importante. Mi ha gratificato parzialmente perché potevo bissare l’oro della gara precedente.

L’accettazione dell’errore penso sia fondamentale in questa disciplina. Immagino che sia quello che cerchi di spiegare anche ai ragazzi giovani che provano a fare questo sport, penso che sia proprio il punto focale, no?

Hai perfettamente ragione. Il problema è che durante una finale i colpi sono in sequenza molto rapida, non si ha il tempo di pensare molto e di metabolizzare. Questo errore che ho fatto, non ho avuto in quel momento la capacità e la lucidità di farmelo scivolare addosso e andare avanti. Cioè i colpi dopo li ho tirati con la paura, perché ho detto: “Caspita, quel colpo lì che l’avevo visto bene, non mi è finito come me l’ero immaginato”. Sicuramente è stato un aspetto che mi ha condizionato e il rammarico è stato proprio quello, di non essere stato capace in quel momento di mettermi l’errore alle spalle e di andare avanti con maggiore lucidità.

C’è un dettaglio che magari ti porti con te da 28 anni di quella giornata che magari sfugge dal racconto normale che fai da tanti anni?

Roberto Di Donna alle Olimpiadi di Atlanta 1996 – Foto archivio CONI

Io ricordo con estrema lucidità i due giorni prima della gara, dove avevo proprio una adrenalina che mi stava divorando e mi ricordo che andavo sempre in un bar in centro ad Atlanta con la metropolitana, perché poi li bisognava anche cercare di passare il tempo e di distrarsi. Comunque rimanere al villaggio olimpico voleva dire sempre continuare a pensare alla gara e alla fine poteva anche essere controproducente quindi andavo in questo bar. Mi ricordo che il giorno prima della gara i miei allenatori e compagni di squadra avevano visto la Gazzetta dello Sport, dove c’era scritto “Puntiamo all’oro” e c’era la mia immagine in posizione di tiro e questi ragazzi che cercavano di tenermela nascosta per non farmi vivere ancora una maggiore tensione. Io ricordo quei momenti con estrema gioia perché il rapporto che si ha con sé stessi durante la partecipazione alle Olimpiadi, soprattutto se si parte da protagonisti o da favoriti, è un momento di un’intensità emotiva straordinaria ed è sicuramente l’aspetto delle gare che più mi manca. Avevo vissuto in quel momento, in quella stagione, in quel periodo un rapporto talmente intenso con me stesso che è anche difficile da spiegare. Tutti si aspettavano un risultato importante da parte mia e io questo un po’ lo sentivo, lo percepivo, però ero talmente determinato che questo aspetto quasi quasi mi caricava. Non era più un momento di sofferenza sportiva ma era diventato un momento di carica, dove io mi sentivo spinto un po’ da tutto questo tifo e questa voglia da parte del mondo del tiro a segno di riuscire a vincere una medaglia, magari anche d’oro, dopo 64 anni dall’unica medaglia che era stata vinta in precedenza nel tiro a segno. Quindi ho questo bellissimo ricordo di questi momenti di grande intensità emotiva e sportiva, che sono forse il vero ricordo che mi porto dentro. Io non ho no medaglie, non ho coppe, non ho diplomi, in casa non c’è nulla che possa testimoniare quella che è stata la mia carriera. Ho dato tutto quanto a mia mamma perché il ricordo non è dato da un diploma, da una medaglia o da una coppa, ma è dato da quello che ho provato avendo avuto il privilegio di avere una carriera abbastanza lunga, dove qualcosina ho vinto, al di là dell’Olimpiade. Però è questo quello che mi porto dentro, sono molteplici aneddoti che mi hanno fatto vivere un’intensità e un rapporto talmente intenso con me stesso che è quello che mi manca di più dell’essere protagonista in pedana oggi.

C’è una frase di qualcuno che, in quel periodo prima della gara, ti è rimasta impressa?

C’è stato, io lo chiamo il mio secondo papà, Giuliano Bedeschi, che è stato il presidente del tiro a segno di Verona quando ho iniziato ed è stato quello che mi ha accompagnato e aiutato per tutta quella che è stata la mia carriera, che prima di partire mi disse: “Ricordati comunque che sei bravo, ti sei preparato bene. Tu pensa a cercare di colpire il centro più volte possibile, vedrai che andrà bene”. Mi ha dato questa tranquillità, questa forza e questa carica che me la sono portata dentro per tutti i 10 giorni che ho vissuto ad Atlanta prima di gareggiare e che poi ho pensato e ho ricordato anche dopo.

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