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Pozzecco si racconta a L’Equipe: “Il basket mi rende felice e con i risultati dimostro di fare sul serio”

Gianmarco Pozzecco
Gianmarco Pozzecco, Italbasket - Foto LiveMedia/Fabio Fagiolini

“Mio padre non credeva nel mio futuro da giocatore di basket, mi spingeva verso il calcio. Ho sempre detto che il basket era uno sport razzista riservato agli adulti, ma ho aiutato i più piccoli a credere nella loro fortuna. Ero veloce, intelligente. Come Davide contro Golia, ho spostato il confronto su un altro terreno, utilizzando armi diverse, per impormi”. Gianmarco Pozzecco si racconta in un’intervista a L’Equipe poche settimane dopo essersi seduto sulla panchina dell’Asvel, oltre a mantenere l’incarico di ct dell’Italbasket.

“Ho bisogno di questo tipo di rapporto stretto con i miei giocatori – continua Pozzecco – Non sono un ragazzo con una filosofia militare, che lavora fino allo sfinimento, di cui dovresti aver paura. Non funziona con questa generazione e non ci credo. Non sono i miei giocattoli. Dobbiamo condividere vittorie e sconfitte, essere tutti coinvolti, come una famiglia. Non so quale sarebbe un obiettivo realistico in questa stagione. Ma sono come i miei figli. E tuo figlio, vuoi che diventi un astronauta. Anche se alla fine non ci riesce”.

Pozzecco dice che ‘La Mosca Atomica’, il soprannome che gli diede Franco Lauro, è perfetto per lui: “Sono un piccolo insetto che ronza, ti dà fastidio e ti gira continuamente intorno senza che tu possa mai schiacciarlo. Sono così. Non penso sempre a quello che sto facendo. Sono appassionato, selvaggio. Quando ero giovane, facevo sempre cose stupide”, ammette. “Il basket mi rende felice, seguo le mie idee, anche se spesso la gente mi trova eccessivo. Non ho mai cercato di convincere gli altri che avevo ragione. Lo dimostro attraverso il lavoro, i risultati. Da giocatore, tutti pensavano che fossi un clown, che non aveva vinto nulla. Ho finito per dimostrare, vincendo il titolo con Varèse con un altro ragazzo incontrollabile, il mio amico Andrea Meneghin, che facevo sul serio. Lo dissi allora, ma vale ancora oggi: posso essere un clown. Ma il clown numero 1″.

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