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Benvenuti a Roma, quando un italiano fu migliore di Cassius Clay

Nino Benvenuti
Nino Benvenuti - Foto IPA IMAGO

Il Palazzo è una bolgia. Il nuovissimo Palazzo dello Sport, progettato da Marcello Piacentini e inaugurato appena tre mesi prima, ridisegna la skyline del quartiere EUR ed è l’attrazione più moderna delle ultime Olimpiadi dal volto antico, che si stanno dipanando con memorabili esiti tra le Terme di Caracalla, l’Appia Antica e la Basilica di Massenzio. Tempio pagano dei giorni nostri, viene preso d’assalto da torme di romani più o meno invasati, che intasano il largo vialone intitolato a Cristoforo Colombo, la strada alberata a tre corsie bloccata per almeno un chilometro. Il cronista della Stampa che si avventura per gli incontri di boxe descrive scene che non sfigurerebbero nel successivo “Roma” di Federico Fellini: “Molta parte del pubblico è formata da comitive arrivate fin qui dai rioni più popolari e dalle borgate: è gente alacre, avida, di sensazioni violente, Intollerante verso i pugili che vorrebbero portar via un alloro all’avversario italiano, assai scortese nei confronti degli arbitri. Continui e assordanti sono i richiami fra i vari “Romoletto”, “Quirino”, “Danilo” nella sala surriscaldata, fra le linee elissoidali e ricche di estro architettonico che dalla platea salgono verso l’immensa cupola perlacea. (…) Non più rivenditori di caramelle e gomme americane; qui trovate secchielli pieni di lupini e di olive dolci, e poi noccioline, semi di zucca, carrube; e dappertutto blocchi di ghiaccio con sopra bibite e rosse fette di cocomero. Non dico lo straniero, ma perfino l’italiano di altre regioni finisce col sentirsi spaesato”.

In questo clima da suburra, insieme terribile ed esaltante, fiorisce la carriera di Giovanni Benvenuti detto “Nino”, un ragazzo di bell’aspetto e bellissime speranze che lungo quel decennio ancora agli albori è destinato a diventare il pugile italiano più forte dell’era moderna. Ha 22 anni e questa sarebbe anche potuta essere la sua seconda Olimpiade, se nel 1956 non fosse stato ritenuto troppo giovane per affrontare la trasferta a Melbourne. Terzo di cinque figli, spinto alla boxe da suo padre Fernando, commerciante ittico, è nato e cresciuto a Isola d’Istria – oggi Izola, in territorio sloveno – località di mare e di pesca. Come tanti altri olimpionici degli anni Cinquanta e Sessanta, anche lui ha provato da giovanissimo l’aspra sensazione di essere un indesiderato: la sua famiglia è stata spinta al breve esilio nella zona A di Trieste, amministrata dall’Italia prima che la città torni interamente tricolore nel 1954. La fine di un periodo di ostilità e persecuzione, con la polizia di Tito che aveva arrestato suo fratello maggiore Eliano, nel dolore e nella prostrazione fisica ed emotiva di sua madre che si spegnerà molto giovane, a 46 anni, per problemi di cuore eredità di quei giorni strazianti.

Chissà, forse è anche per reazione a questi tempi cupi che Nino sviluppa una passione tardo-infantile per la boxe. Sotto casa ha uno stanzone che funge da cantina, deposito, garage, ripostiglio. È pieno di roba e si regge su tre colonne di cemento, l’una a tre metri dall’altra: nella fervida immaginazione di un ragazzino, un ring perfetto ancorché triangolare. Il sacco è di iuta, pieno di frumento, i guantoni sono due calzettoni di lana riempiti di stracci. E così si parte, fino a incontrare adolescente l’uomo che gli cambia la vita: il maestro Luciano Zorzenon, “un personaggio degno di Salgari”, ricorderà decenni dopo Benvenuti, “che lavorava come palombaro a Isola per recuperare i resti del transatlantico Rex affondato dagli inglesi nella baia di Capodistria”. Anche Zorzenon s’industria per mettere su una palestra rudimentale, ma presto ha ben chiaro che un talento naturale come Benvenuti va fatto allenare a livelli più alti: così due volte a settimana lo accompagna in bicicletta all’Accademia Pugilistica di Trieste, quella che ha sfornato campioni del calibro di Duilio Loi e Tiberio Mitri, e lo affida alla sapienza umana e sportiva del maestro Pino Culot.

Sono anni in cui fare il pugilato professionista rende ricchi e famosi, molto più di ora. Ma il professionismo può attendere: il primo grande sogno di Nino Benvenuti è l’oro olimpico, e la piccola delusione di Melbourne lo spinge a dominare per quattro anni la categoria super-welter da dilettante. Subisce una sola sconfitta, in circostanze molto controverse, per mano del turco Akbas in una tournée non del tutto casualmente in Turchia. Poi vince due titoli europei (Praga 1957 e Lucerna 1959) e cinque titoli italiani consecutivi, dal 1956 al 1960. Sulla strada per Roma, però, si staglia l’ombra minacciosa di un americano fortissimo: Wilbert McClure, oro ai Giochi Panamericani di Chicago 1959 sotto gli occhi dell’allenatore della Nazionale Natale Rea, che rimane impressionato dall’esibizione di McClure a tal punto da ribaltare le strategie della squadra. Il welter Carmelo Bossi dovrà prendere tutti i chili necessari per passare alla categoria superiore, mentre Benvenuti dovrà fare il percorso inverso e sottoporsi a una dieta massacrante per accedere alla categoria inferiore. Mica facile: “Perdere quei quattro chili fu come togliermi un braccio. Non bevvi acqua per un mese, facevo la sauna con due maglioni su, per un anno rimasi scombussolato, sonno, stomaco, pancia. Un martirio”.

Debilitato dalla cura dimagrante, Benvenuti è comunque troppo superiore per i primi turni del torneo olimpico. Li vince tutti 5-0 – vale a dire, mette d’accordo tutti e cinque i giudici a bordo ring – contro il francese Josselin, il coreano Kim Gi-Su e il bulgaro Mitsev. Lo stesso trattamento subisce in semifinale il britannico Jim Lloyd, che pure era considerato il favorito dal suo entourage, in un combattimento entusiasmante che vede tra il pubblico del PalaEur anche il principe Ranieri di Monaco. SI prospetta un match equilibrato, deciso da pochi punti, invece Benvenuti non prende un colpo e controlla l’avversario praticamente attaccando solo di sinistro. Scrive la Gazzetta dello Sport: “Il match di Benvenuti meriterebbe di essere incluso in un’antologia pugilistica nel capitolo ‘Come, usando il sinistro, si può diventare campioni del mondo’”. La qualità tecnica e stilistica della boxe di Benvenuti è indiscutibile: manca soltanto l’ultimo squillo per coronarlo immortale.

Succede la sera del 5 settembre 1960, serata campale per il nostro sport, quando il programma prevede ben sei finali olimpiche con pugili italiani in lotta per la medaglia d’oro. Poi c’è anche una settima finale, quella che vale l’oro dei mediomassimi che finisce al collo di un bel tipo, un 18enne di Louisville, Kentucky, che sconfigge in finale il polacco Pietrzykowski. L’Italia celebra quella sera l’Olimpiade pugilistica più bella della sua storia, splendente di ben sette medaglie. Il bronzo di Giulio Saraudi (medio-massimi). Gli argenti di Primo Zamparini (gallo), Sandro Lopopolo (leggeri) e appunto Carmelo Bossi (medio-leggeri), sconfitto dall’imbattibile McClure. L’oro di Francesco Musso (piuma) e l’oro di Francesco De Piccoli (massimi), un altro dei personaggi di Roma 1960, travolto da una tale popolarità da essere citato anche in un dialogo del Sorpasso di Dino Risi, quando Vittorio Gassman si azzuffa con due tizi in una locanda del litorale toscano: “Sto beccamorto! Ma chi se credeva, De Piccoli?”.

“In cima a una collina sfolgorava, come una reggia fatata, il Palazzo dello Sport” (La Stampa, 6 settembre 1960). I biglietti, andati a ruba, costano 6mila lire. Accorrono in ventimila e non c’è dubbio che il momento più alto anche a livello tecnico sia la finale dei welter tra Nino Benvenuti e il sovietico Yury Radonyak, rigoroso e un po’ legnoso, semi-sconosciuto come tutti i sovietici anche se sul suo conto girano voci pazzesche di forza e violenza massiccia, avendo eliminato il campione europeo welter polacco Drogosz. La provenienza geografica, agli occhi di Benvenuti, non lo rende un avversario come tutti gli altri: “La misi anche sul piano personale. Lo so, non si fa, non bisognerebbe mai lasciarsi prendere dal risentimento, anche se a 22 anni hai qualche alibi in più. Lo dico perché la mia esperienza diretta con la mentalità comunista – sì, comunista, perché era questo il termine – aveva lasciato in me ancora tracce profonde. Non potevo dimenticare. Mi succedeva se incontravo uno jugoslavo. Mi esaltavo quando affrontavo un russo. Sul ring avevo l’occasione di affrontare e sconfiggere i miei fantasmi, le mie paure, di vendicare le prepotenze subite, i torti, le ferite non ancora rimarginate. È vero. Quel giorno, sul ring, avevo mille motivi per vincere e l’ho fatto”.

Il primo round è equilibrato, sembra che nessuno voglia prendersi rischi, ma poco prima del gong Benvenuti sbilancia Radonyak con un sinistro d’incontro e il russo finisce a terra, subito contato dall’arbitro nel tripudio generale. Nella seconda ripresa la battaglia si accende, ma è ancora Benvenuti a comandare: spesso di rimessa, con precisione, sempre con quel sinistro infallibile e spietato. Gli attacchi di Radonyak sono sempre più confusi e disordinati e invitano a nozze Benvenuti, che si fa più sicuro ogni secondo che passa e trova ancora lo spazio per affondare qualche diretto. Suona la campana, i giudici pronunciano il verdetto: è 4-1 Benvenuti, è oro Italia, sono ancora braccia in alto. La medaglia d’oro gli verrà consegnata in una custodia che conterrà una dedica a penna firmata da Jesse Owens. Anche se quello che forse inorgoglirà Giovanni “Nino” Benvenuti sarà il Val Barker Trophy, l’abituale riconoscimento riservato al miglior pugile dell’edizione: primo dei due italiani a potersene fregiare (l’altro, vent’anni dopo, sarà Patrizio Oliva), preferito dagli esperti al campione olimpico dei mediomassimi, un certo Cassius Clay da Louisville, Kentucky.

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