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I cerchi olimpici e le svastiche si dividono il cielo di Berlino. Mancano tre giorni ai Giochi Olimpici che Adolf Hitler ha voluto per celebrare la razza ariana e il Terzo Reich. Per la prima volta, la torcia ha percorso l’Europa da Atene. Per la prima volta una regista, Leni Riefenstahl, trasformerà la visione in documentario-manifesto di modernità cinematografica e arte di regime.
È il 29 luglio 1936. Mancano tre giorni all’inizio dei Giochi e gli obiettivi di tutti i fotografi si concentrano tutti su un atleta di colore. È arrivato a Berlino da detentore del record del mondo nei 100, nei 200 e nel salto in lungo. I fotografi gli chiedono di improvvisare un salto. Jesse li accontenta, scatta sulla pedana e vola a 7,8 metri, una misura che gli varrebbe il podio.
È figlio di un contadino dell’Alabama, o Stato in cui si è registrato il quinto tasso di linciaggi più alto di tutti gli Stati Uniti fra il 1882 e il 1965. Nipote di uno schiavo, è cresciuto nelle piantagioni di cotone tra miseria e polmoniti. A nove anni si sposta a Cleveland, perché la zia convince la famiglia che lì c’è più lavoro e si può guadagnare meglio. È un segno del destino per il piccolo James Cleveland. Il primo giorno di scuola, il suo accento del Sud confonde la maestra: J.C. diventa Jesse. Jesse Owens. Il piccolo Jesse comincia a correre. E corre più veloce del vento.
A Cleveland, dopo la scuola va da Charles Riley, che insegna educazione fisica alla vicina Fairmount High School. Riley gli insegna a immaginare che la pista sia fatta di carboni ardenti, che i piedi devono appena toccare terra. È un velocista, Jesse, ma si allena anche sulle lunghe distanze: a scuola vince 75 gare su 79 e ottiene una borsa di studio per la Ohio State University, nel 1933.
Studia, lavora come ascensorista, ma in mensa spesso non lo servono, anche se è nella squadra di atletica. Jesse non protesta, non è un Jackie Robinson o un Joe Louis. Ha ereditato dal padre una certa aria di fatalismo. Resterà convinto del riformismo graduale, criticherà sempre le Pantere Nere e, in un primo momento, anche chi si è battuto con le armi della disobbedienza civile. Non protesta, gli interessa correre. Perché la pista è un equalizzatore fenomenale.
Alla Ohio State, la squadra di atletica è allenata da Larry Snyder che ha metodi molto in anticipo sui tempi: porta in pista il fonografo e i suoi dischi di jazz per migliorare il senso del ritmo. Snyder gli cambia la meccanica di corsa (teneva le braccia troppo alte e rigide) e Jesse vince sempre: 42 successi su 42 eventi al suo primo anno di college Nell’inverno del 1934 prova anche il salto con l’asta e, senza essersi quasi mai allenato, arriva a 3,4 metri. “Ha l’agilità di un saltatore in alto e corre i 100 metri in 9,4 secondi” sintetizza Snyder all”Associated Press. “È la macchina per l’atletica più perfetta che abbia mai visto”. E non ha ancora visto niente.
La mattina del 25 maggio 1935 si prepara per i Big Ten Championships, un prestigioso campionato inter-universitario. Qualche sera prima si è trattenuto con i compagni di stanza e si è fatto male al tallone cadendo per le scale. Jesse non riesce nemmeno a piegarsi e toccare le punte dei piedi. Ma al pomeriggio, dice agli amici, il dolore scompare. Stanno per cominciare i 45 minuti che cambieranno per sempre la storia dell’atletica.
Alle 3.15 vince i 100 in 9”4, ma per la metà dei cronometristi il suo è il primo 9”3 della storia, un tempo che ufficialmente si raggiungerà solo nel 1948 (allora, in caso di cronometraggi non unanimi, veniva fatto valere il tempo più lento). Alle 3.25, gli basta un tentativo per frantumare il record del mondo in salto in lungo: è il primo uomo a superare gli 8 metri (8.13). Il primato resisterà fino al 1960. Alle 3.34 corre le 220 yard, una gara tipica dei campionati americani, più lunga dei 200 metri classici, che si disputava su uno dei rettilinei lunghi, senza curva. Alle 3.34, Owens fissa il nuovo record del mondo, che gli viene accreditato anche per i 200 piani. E alle 4 diventa il primo uomo a correre quella distanza con gli ostacoli bassi, sotto i 23 secondi (22”6).
A Berlino, non sono solo i fotografi a cercare Owens. Prima delle gare arriva direttamente dalla Baviera Adi Dassler, che gli spalanca sotto gli occhi una valigia. Gli ha portato una selezione delle scarpe da corsa che produce con il fratello Rudolf e gli chiede di correre con quelle. Owens, di fatto, è uno dei primi testimonial Adidas.
Anche se non fa parte della sua natura, Owens con la sua sola presenza a Berlino è un simbolo di rivendicazione politica. Prima dei Giochi, Owens e alti sette atleti di colore presenti a Berlino ricevono una lettera pubblicata dall’Amsterdam News, il più antico quotidiano USA per la comunità nera. “Avete cancellato il mito della superiorità e dell’inferiorità razziale, siete diventati simboli di internazionalizzazione, che dovrebbe essere l’obiettivo primario della civiltà moderna. Ma la vostra sola presenza a Berlino, l’uso dei vostri grandi nomi per attrarre migliaia di turisti, non farà che nutrire il supporto economico e morale al regime hitleriano. Per questo, in nome dei 204 mila negri di Harlem e dei 12 milioni di negri d’America, in nome delle forze dell’Illuminismo minacciate da Hitler e dalla filosofia barbarica del nazional-socialismo vi chiediamo di rifiutare la partecipazione ai Giochi di Berlino”. Il rischio di boicottaggio ha poi convinto Avery Brundage, presidente del comitato olimpico Usa e futuro capo del CIO, a partire per la Germania, dove Hitler ha dato ordine di togliere ogni insegna anti-semita e di sospendere gli abusi contro gli ebrei fino al termine delle Olimpiadi. “Ho ricevuto positive assicurazioni per iscritto che non ci saranno discriminazioni contro gli ebrei” annuncia una volta tornato in patria.
Owens, però, pensa solo a correre, a quella pista che cancella le differenze, dove vale solo la legge del più veloce. “Vedevo la linea del traguardo” dirà, “e sapevo che quei 10 secondi rappresentavano il culmine di otto anni di lavoro. Un errore avrebbe potuto distruggere otto anni: allora perché preoccuparsi di Hitler?”.
Owens trionfa, nessun atleta da solo ha mai dominato così tanto l’eredità di un’Olimpiade. Il suo diventa un messaggio politico, di rivendicazione. Perché le notizie dei suoi trionfi, grazie all’Associated Press, che allora funziona come un aggregatore di notizie locali pubblicate poi su tutti i giornali abbonati al servizio, finiscono anche sulle pagine dei quotidiani del Sud segregazionista. Anche i bianchi convinti dell’inferiorità dei “negri” leggono di un “negro” che vince. E i neri, vessati, umiliati, discriminati, costretti a star seduti dietro sugli autobus, a bere da fontane diverse e andare in bagni diversi, si trovano di fronte alla realizzazione di una piccola grande rivoluzione.
Owens vince i 100 metri in 10”3, firma il record olimpico nei 200 in 20,7, davanti a Mack Robinson, il fratello maggiore di Jackie. Corre anche la staffetta 4×100, per cui non era stato scelto dopo i Trials. Nel quartetto, infatti, erano previsti Sam Stoller e Marty Glickman, due corridori ebrei. Ma Brundage chiede una seconda selezione, a Berlino, e i due, gli unici due dell’intera spedizione Usa a non aver gareggiato, vengono sostituiti da Owens e da un’altro atleta di colore, Metcalfe. Secondo Stoller e Glickman, Brundage ha voluto evitare di dare una seconda umiliazione a Hitler: veder trionfare due ebrei dopo aver già assistito ai successi di Owens. Brundage ha sempre negato ogni intenzione politica: Owens e Metcalfe hanno appena vinto oro e argento nei 100 metri, sono semplicemente velocisti migliori. Qualunque fossero le reali intenzioni del comitato Usa, in cui molti condividono apertamente la tesi di Hitler per cui i neri hanno ottenuto più medaglie nell’atletica “perché meno evoluti dei cittadini bianchi e dunque fisicamente più vicini agli animali”, la 4×100 Usa chiude in 39.8 e vince l’oro.
Ma la gara che più rimane come simbolo di Berlino ’36 è la finale di salto in lungo. Al quinto tentativo, è in testa Luz Long, che potrebbe apparire come il perfetto ariano ma ha convinzioni ben diverse. Ma Owens lo supera, 7.94, e si migliora ancora con l’8.06 all’ultimo salto. Il primo a congratularsi con Jesse è proprio Long. “Ha avuto un coraggio enorme” ha detto Owens, “tutto l’oro del mondo non vale l’amicizia che ho provato per lui in quel momento”.
Owens ha più volte raccontato come Long l’avesse aiutato prima dell’ultimo salto di qualificazione: dopo aver sbagliato i primi due, Long lo aiuta a trovare il giusto punto di battuta alla fine della rincorsa. Senza il consiglio del suo principale rivale, Jesse non sarebbe probabilmente arrivato in finale. Tuttavia Grantland Rice, uno dei più grandi giornalisti Usa di atletica quel giorno è allo stadio e tiene il binocolo puntato sulla pedana del salto in lungo. Rice non vede mai Owens parlare con Long. E lo stesso Owens, nel 1965, smentirà questa cinematografica versione a Tom Ecker, autore del libro Olympic Facts and Fables. Ma la nipote di Owens, Marlene Dortch, che pure ha appreso della storia solo dai libri, crede alla versione del nonno.
Comunque sia andata davvero, l’abbraccio finale fra i due rimane. Rimane il senso di un’amicizia profonda e una lettera, l’ultima che Long ha scritto a Owens prima di morire per il Terzo Reich al fronte, nel 1943. “Un giorno vai a trovare mio figlio, e digli come possono andare le cose fra gli uomini su questa Terra”.