Amarcord

Mosca 1980: L’Olimpiade alla fine della Storia

Mosca 1980 - RIA Novosti archive, image #487025 / Sergey Guneev / CC-BY-SA 3.0

Nel luglio del 1980 ai suoi abitanti Mosca non sarà sembrata poi così diversa dal solito. Come ogni anno le ragazze potevano sfoggiare i vestiti estivi passeggiando sulla storica via Arbat, gli studenti affollavano le gigantesche sale della biblioteca Lenin, pensionati e turisti si godevano il verde dei giardini d’Alessandro mentre a pochi metri, dentro le mura del Cremlino la macchina amministrativa e politica all’epoca in mano al segretario generale Leonid Brežnev continuava solerte a reggere le fila della seconda (o prima a pari merito) potenza del globo, l’Unione Sovietica.

Anche se il mondo agli occhi moscoviti doveva sembrare più o meno lo stesso di sempre, monumentale e immobile come il mausoleo di Lenin in mezzo alla Piazza Rossa o le file interminabili davanti ai negozi, anche a Mosca nel 1980 iniziava il decennio fatale del secolo ventesimo, quello che lo avrebbe trasformato per l’ennesima volta, chiudendo un capitolo lungo quasi un secolo che aveva promesso un mondo diverso ma che si stava lentamente incartando su se stesso. Quel decennio avrebbe avuto i suoi effetti più travolgenti proprio sull’Unione Sovietica, portandola a scomparire, ma tutto questo ancora non lo immaginava praticamente nessuno.

L’unica vera novità apprezzabile nella Mosca del grigiore brežneviano era l’arrivo dei Giochi della XXII Olimpiade che la capitale sovietica avrebbe ospitato quell’anno. Lo stadio Lenin, oggi Lužniki, avrebbe dato spazio a una delle ultime roboanti manifestazioni di grandezza del gigante sovietico, anche se in pochi allora avrebbero pronosticato questo suo essere “finale”. A togliere parzialmente luce alla grandezza dell’evento ci fu il noto boicottaggio da parte di molti Paesi del blocco atlantico (e non solo), capitanati naturalmente dagli Stati Uniti dell’allora presidente Carter, mossi a quella dura decisione dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan dell’inverno precedente. I traumi di una guerra impossibile da vincere in un territorio difficile come quello afghano oggi sicuramente sono più dolorosi di qualsiasi evento sportivo, ma all’epoca le certezze del fallimento bellico erano tutte da venire e l’orgoglio di ospitare l’Olimpiade un sentimento ben più vivace.

Il boicottaggio non impedì ad alcuni atleti di specifiche federazioni, tra cui quella italiana, di partecipare ai Giochi sebbene sotto le insegne del CIO e non sotto quelle nazionali. Così fu che in un tripudio di medaglie a Paesi socialisti (i primi quattro Paesi nel medagliere alla fine dei Giochi erano URSS, Germania EST, Bulgaria e Cuba) a fare capolino e prendersi soddisfazioni ci furono anche atleti del mondo capitalista, seppure –ironicamente?- costretti a sfilare sotto le insegne dell’internazionalismo, concetto caro tanto al mondo olimpico quanto agli esegeti più o meno legittimi del pensiero di Karl Marx.

Le bandiere del Comitato Olimpico Internazionale diedero lustro innanzitutto ai colori azzurri con l’Italia primo Paese Nato nel medagliere, subito dopo il quartetto di cui sopra e prima dell’Ungheria, e tornò da Mosca con 15 medaglie nel forziere di cui 8 ori dei quali a loro volta, con una proporzione difficilmente immaginabile oggi, 3 arrivati dall’atletica leggera.

I Giochi della XXII Olimpiade furono innanzitutto il coronamento del sogno di Pietro Mennea. Il velocista pugliese diventato icona popolare, protagonista recentemente di una serie tv Rai e citato nella memoria collettiva come uno dei più grandi atleti italiani di sempre ma anche personaggio dagli interessi alquanto eclettici, era arrivato a Mosca da fresco detentore del record mondiale sui 200 m piani fatto segnare alle Universiadi di Città del Messico dell’anno precedente sui 19’’66. Sulle piste dello stadio Lenin fece valere il suo ruolo di favorito d’occasione vincendo la gara corsa in 20’’19, in parziale rimonta ai danni del britannico Allan Wells che aveva condotto la gara per un po’. La carriera successiva del corridore di Barletta non confermerà più la grande gioia di Mosca, facendo registrare “solo” un bronzo mondiale a Helsinki nel 1983 e un deludente settimo posto ai Giochi di Los Angeles dove si presentava da campione in carica.

Un’altra atleta che a Mosca portò glorie all’atletica italiana da detentrice di un record del mondo fu la veronese Sara Simeoni, saltatrice in alto che al meeting di Brescia del 1978 aveva posto l’asticella a 2,01 m. La sua grande attesa rivale ai Giochi era la tedesca dell’est Rosemarie Ackermann, campionessa olimpica in carica che aveva difatti eguagliato il record della Simeoni ai campionati europei del 1978 salvo annullare il tutto con un banale errore di distrazione che fece cadere l’asticella. La Ackermann tuttavia a Mosca non brillò e dovette fermarsi a un passo dal podio, quarta tra le partecipanti, ma prima nel novero della morente tribù dei saltatori ventralisti.

Il terzo oro dell’atletica italiana arrivò infine per mano e soprattutto gambe del piemontese Maurizio Damilano che nella complicata specialità della marcia ottenne la medaglia d’oro con tanto di record olimpico sulla distanza dei 20 km. Aveva tagliato il traguardo per terzo Damilano, preceduto al nastro dal messicano Daniel Bautista e dal russo Anatolji Solonin che però –per le severe regole della specialità- furono squalificati per andatura irregolare lasciando all’azzurro l’oro e la gloria olimpica.

Dalle piste alle piscine, i Giochi di Mosca del 1980 furono anche quelli del dominio delle nuotatrici della Germania Est che in quell’edizione dei Giochi si aggiudicarono 11 ori sui 13 messi in palio. La storia delle atlete dopate di Stato è ormai un fatto storico mischiato a leggenda e trasformato dalla vulgata in un adagio persino fastidioso di cui il linguaggio giornalistico fa man bassa. Quel che è certo, dati alla mano, è che la squadra idealmente capitanata da Barbara Krause, berlinese Est e membro dell’International Swimming Hall of Fame, dominò in lungo e in largo macinando numerosi record olimpici e mondiali.

Negli sport di squadra, in particolare calcio e pallacanestro, si perpetuò il dominio dei Paesi del blocco socialista con solo l’Italia della palla arancione a fare da terzo incomodo in due podi altrimenti ideologicamente impeccabili. Il campionato di calcio andò alla nazionale cecoslovacca che superò in finale per 1-0 la Germania Est con un goal al 77’ minuto dell’altrimenti dimenticato centravanti Jindrich Svoboda, ma la Cecoslovacchia il suo torneo l’aveva già vinto –come si dice in questi casi- eliminando in semifinale la solita talentuosa quanto inconcludente Jugoslavia che poi rimase persino fuori dal podio battuta crudelmente nella finalina per il bronzo dai padroni di casa dell’URSS. La patria di Tito ebbe la sua “rivalsa” però nella pallacanestro dove la squadra allenata da Ranko Žeravica dominò le due fasi a gironi e poi vinse la finale per l’oro contro l’Italia di Dino Meneghin per nove punti 86-77, l’URSS dovette accontentarsi quella volta del bronzo in una partita per la medaglia meno nobile vinta contro la Spagna 117-94.

Le storie sportive dei Giochi della XXII Olimpiade non si concludono certo in questo sommario e parziale ritratto, ma qualcosa eppure le supera in forza simbolica e racconto di un’edizione dei Giochi che è anche il racconto di un’era: la cerimonia di chiusura.

Così come tutto era iniziato allo stadio Lenin alla presenza del segretario Brežnev e altri grossi papaveri del Partito così tutto era destinato a finire e il ritorno in scena della mascotte, il gigantesco orso Miša, avrebbe dovuto sancire il saluto all’Olimpiade che viaggiava verso Los Angeles dove sarebbe approdata quattro anni dopo.

La cerimonia di chiusura dei Giochi di Mosca tuttavia ha poco della soddisfatta ostentazione che di solito si vede in queste circostanze, piuttosto trascina facilmente in un turbine di dolce malinconia. Il momento in cui Miša entra in campo e parte la canzone struggente di arrivederci a Mosca e ai Giochi –facilmente ritrovabile su youtube- accompagna lo stadio intero in un pianto collettivo. Gli spettatori dello stadio Lenin assistono alla fine dei Giochi con una tristezza inconsolabile, avvolti dal magone universale di qualcosa che finisce. E non si può davvero evitare di pensare al mondo che da lì a poco avrebbero lasciato. Un mondo fatto di privazioni, certo, e sorretto su un’economia dai risultati discutibili, ma che in qualche modo li aveva fino ad allora difesi dalle angherie di un altro mondo, fatto di vincitori e perdenti, prevaricazioni e ingiustizie. Nel 1980 manca ancora tempo agli scioperi in Polonia, ai nuovi tentativi di ribellione ungheresi, mancano undici anni di fuoco alla storia di quella parte di mondo che si sarebbe disgregato per pezzo, passando dai cantieri navali in Polonia, alla caccia all’uomo verso Ceausescu in Romania, all’abbattimento feroce del muro di Berlino, fino allo spegnimento silente del ruolo di Mosca e dell’Unione Sovietica. In quei colori moderati, in quegli abiti semplici e nell’inconsolabile tristezza per il saluto a Miša passa la malinconia per un mondo al tramonto, per la fine di quel sogno mai compiuto e spesso doloroso e infame che è stato il socialismo reale, un sogno spezzato che nelle sterminate pianure di Russia ha fatto più sconfitti che vincitori.

Do svidanija, Moskva, do svidanija

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