Infinito Alex Zanardi. L’ex pilota automobilistico, oggi campione nel paraciclismo, ha vinto la Maratona di Roma handbike. Dalle sue parole nell’intervista concessa a Sportface.it, in cui Alex racconta le sue ispirazioni e anche le ambizioni per l’Olimpiade di Rio de Janeiro, viene ancora fuori l’infinita passione che insieme alla tenacia lo ha reso l’atleta vincente che è oggi.
Da modello quale sei diventato per tutti quelli che hanno un qualsivoglia problema fisico e sono nel mondo dello sport, c’è un modo e, soprattutto, qual è il tuo modo di gestire la pressione, anche durante una gara?
“In realtà pensavo che la tua domanda fosse relativa all’esigenza di sentirsi un modello per qualcuno: io non mi sento questo, so di essere un ottimo riferimento per molte persone perché sono molto visibile e questo fa di me qualcosa che viene guardato. Dopodiché ognuno interpreta ciò che vede a modo proprio, molto spesso nel mio caso, vedendo anche molto di più, qualcosa che trascende dai miei meriti reali. La cosa logicamente mi lusinga ma non mi dà il diritto di sentirmi un modello per nessuno: ma, permettimi di dire, non ne avverto neanche il dovere. Io faccio la mia strada, e so di essere stato un riferimento per qualcuno che si è trovato a dover ricominciare nel corso della propria vita in modo imprevisto. Però, la reazione che accomuna chi si trova davanti a delle difficoltà, per fortuna, dopo un primo momento di smarrimento, è solitamente molto positiva, che aiuta le persone a ricominciare a vivere, facendolo in un modo spesso efficace, fosse anche solo per sfamare la propria famiglia e non solo per vincere gare. Nella mia vita fortunatamente sono riuscito a infilare dentro molte cose, prima da normodotato e poi da paraciclista e considero tutto questo un grande privilegio, perché oggi chiamarsi Zanardi vuol dire poter tentare in qualcosa in cui alcuni non possono perché non ne hanno l’opportunità. Senz’altro sono state la tenacia e l’impegno a garantirmi i risultati che ho ottenuto. Sapere che ti sei preparato al meglio delle tue capacità quindi è un modo per gestire la pressione. Perché, che sia una vittoria o meno, quando posso ci provo sempre con grande tenacia”.
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Per tua esperienza personale, quanto è importante la motivazione, per riuscire a venire a capo delle difficoltà?
“Bisogna prendere in considerazione due aspetti: grandi o piccole che siano le difficoltà restano tali. Tuttavia sono un chiaro segnale del fatto che siamo vivi. Sapere questo è comunque importante. Il secondo problema e come fare a migliorare le proprie condizioni. Ognuno ha un suo modo di fare, un suo punto di partenza per risolvere i problemi. Ma se credi di poterlo risolvere dalla sera alla mattina, e di compiere qualcosa di grandioso, sei chiaramente un illuso. Se invece pensi ‘qualcuno ci è riuscito, forse posso provarci anche io’ e prendi ogni singolo giorno come un’opportunità per fare qualcosina, passo dopo passo anche i grandi sogni possono diventare obiettivi raggiungibili. Tutto questo parte sempre da un tentativo, che magari ti consente di portare a casa un piccolo risultato, da cui deriva anche tanta fiducia. Così ogni giorno hai un nuovo punto di partenza e, piccolo o grande che sia, compi sempre dei progressi. Quando capisci questi due concetti fondamentali non potrai fare tutto ma di sicuro potrai fare moltissimo”.
E tu come ti senti fisicamente e mentalmente riguardo all’imminente Olimpiade di Rio?
“E’ logico che quando tutto avrà inizio anche io avvertirò un po’ di tensione, percepirò senz’altro il valore della posta in palio. Però sono esperienze che ho già fatto, in fondo ho capito che non c’è nulla di magico anche nel riuscire ad ottenere un gran risultato in una manifestazione come l’Olimpiade, o anche a bordo di un Indycar in America con migliaia di persone a guardarti in tribuna. Può soltanto giocartela al meglio delle tue possibilità, e se non ti sei preparato bene non c’è nulla di magico che tu possa fare in quel momento. Quando ero ragazzo la pensavo diversamente: pensavo di poter vincere con una Lotus, per quello che era la Lotus quando la guidavo io, infatti ho fatto tanti incidenti. Perché comunque devi essere dotato di fantasia, audace e capace di improvvisare una mossa, che comunque sia fattibile tecnicamente. Se provi perché pensi semplicemente che ti possa andare bene è molto probabile che tu finisca contro un muro o contro le sospensioni a pezzi”.
Prima di una gara, come molti altri, ha qualche gesto o rituale che ripeti abitualmente?
“Non sono schiavo della scaramanzia, però ad esempio salgo sulla mia handbike sempre dallo stesso lato, ripeto le piccole procedure, come controllare il cambio o altre cose. Ma qualora, per qualche motivo non seguissi questi piccoli gesti, non mi condiziona di certo psicologicamente tanto da pensare di non poter vincere. Però quando posso osservare dei piccoli rituali lo faccio anche io”.
Sulla handbike ovviamente sei da solo, ma quanto incide, alla vigilia di una spedizione così importante, che il team che formate tu e il resto della nazionale sia compatto?
“Tantissimo. Banalmente la condivisione aiuta non poco a lenire il dispiacere e il disagio, ma è anche moltiplicatore della gioia. Sapere che c’è qualcuno che ti guarda e ti sprona ti responsabilizza. Questo può mettere addosso alle volte anche un po’ di pressione aggiuntiva, ma poi quando arriva la gioia è bellissimo essere lì con un gruppo che sai che ha contribuito a correggere la tua strada. Io, per esempio, sono arrivato in nazionale non sapendo niente di ciclismo, quasi tutte le cose che so me le hanno passate i miei compagni e il mio Ct, Mario Valentini. Quindi anche se il gruppo non cambia tecnicamente la tua prestazione, è comunque a suo modo importante”.
Le tue principali ispirazioni quali sono?
“Quando ero ragazzo il mio idolo era Gilles Villeneuve e poi è stato Ayrton Senna, che ho avuto l’onore di conoscere ancora prima che diventasse chi era stato. Ma indubbiamente anche mio padre. Quando ero ragazzino non era così, magari prima quando mi spiegava qualcosa, annuivo semplicemente. Ora però, quando ho in mano un attrezzo e sono a lavoro guardo la mia mano e mi vengono i brividi. Mi capita di fare le cose esattamente come lui me le aveva spiegate la prima volta. Così mi rendo conto di quante cose, che mio padre mi ha trasmesso, mi sono rimaste dentro, il che è davvero molto bello. Poi ovviamente ogni giorno ci sono cose o persone che possono ispirarmi. Basta essere attenti. In effetti, un dono che penso di avere è quello di osservare attentamente chi mi è vicine, d’altronde non si finisce mai di imparare”.
Un tuo commento riguardo alle recenti vicende riguardanti il doping?
“Partendo dal presupposto che sono categoricamente contro ogni forma più assoluta di illecito sportivo, in cui il doping è in cima alla lista, quello che dovremmo cercare di fare davvero è capire come poter combattere il doping. Il progresso della scienza è un’arma a doppio taglio: nonostante sia possibile monitorare e fare delle analisi più precise, è la stessa scienza che permette di nascondere meglio le tracce che le sostanze dopanti lasciano nel corpo di un atleta. Quello da fare, secondo me, è quindi un sano lavoro di educazione. Perché se un ragazzo di 20 anni che viene a conoscenza di questa possibilità e quello che lo consiglia è un manager dai capelli bianchi, che invece di sprigionare saggezza dice al ragazzo ‘tanto lo fanno tutti, devi farlo anche tu’ il problema è davvero grave. Quello che è successo recentemente parla del fatto che sono le grandi organizzazioni a gestire atleti dopati, che sono quindi colluse con questo sistema. Poi ovviamente anche gli atleti pagano ed è giusto che sia così, perché anche loro sbagliano. Per mia fortuna ho sempre fatto uno sport in cui doparsi risultava ininfluente, casomai bisognava dopare il motore della macchina. Poi in un età come la mia, dove è normale avere più saggezza di quanta non ne abbia un giovane 20enne sono quanto di più distante ci possa essere da questa forma di risultato truccato. Anzi, io mi diverto di più ad allenarmi che a gareggiare, perché quando la gara è finita, hai tutto alle spalle, è finito tutto. Rio è solo un traguardo. La cosa bella è essere qui a lavorare tutti i giorni con i miei compagni, a progettare, a settembre andremo a Rio ma c’è ancora molto lavoro da fare”.
Dopo Rio che cosa pensi di fare?
“Guarda, non so ancora cosa farò da grande, d’altronde sono giovanissimo [risata]. In realtà non mi è mai piaciuto pianificare troppo in avanti. Però posso dire che mi piacerebbe fare l’Ironman di nuovo, ma questa volta preparandomi a modo per quell’evento e dedicandoci più allenamenti. Vorrei anche riprendere in mano il volante di un automobile anche se è una cosa che ho già fatto. Ma sono nell’età in cui conta godersi tutto e non escludo di poter trovare anche nuove sfide che possano affascinarmi”.
Molte volte i giovani italiani che si apprestano al mondo dello sport nonostante possano contare su un buon team ed un ottimo talento non riescono ad esprimere tutto il loro potenziale. Hai qualche monito da dare a loro?
“Tra le tante cose che ho fatto c’è anche la conduzione del programma ‘Sfide’. Dei vari ritratti che facciamo la cosa che adoro di più è che parlo di ingredienti diversi ma miscelati esattamente nello stesso modo. Maradona è diventato quel che è non perché voleva diventare famoso, ma perché era innamorato del concetto di colpire un pallone, giocava anche da solo, perché stava bene a far quello. Quando hai questa passione ci metti quantità perché quello che fai non ti basta mai. Ma ci metti anche qualità, perché se hai passione, fare una cosa bene non ti accontenta, ma deve essere perfetta. La stessa cosa vale per il grande Pietro Mennea, che si allenava di nascosto dal suo allenatore. Più lui gli diceva di smettere più continuava, perché stava bene a fare quello. Se quello che guida un giovane agli inizi è l’idea di diventare ricco e famoso, allora cambia, perché solo con l’ambizione non ci riuscirai mai. Se invece vuoi giocare, continuare a lavorare, e praticare quello sport perché ne sei innamorato, allora puoi continuare. Da qui, ti può poi capitare di avere successo e di diventare anche famoso”.
Tornando al programma “Sfide”, con quale sfida e impresa, anche del passato, si può identificare oggi Zanardi?
“Zanardi in realtà è un copione [risata]. Anche guardando atleti di altri sport ho sempre cercato di trarne qualcosa e farlo mio. Ho ad esempio cercato di prendere l’imprevedibilità di Mansel, di cui ho sempre avuto una grande stima. Ogni volta in cui vedi un atleta fare qualcosa di meraviglioso cerchi di trarne gli aspetti positivi. Mi viene in mente Carolina Kostner, dopo il ritorno è magnifico vederla pattinare con la luce negli occhi, specialmente se poi, ottiene delle altre vittorie, che ti fanno sentire orgoglioso di essere italiano. Per cui non posso rispondere, non posso identificarmi con nessun atleta, perché sono io che ho cercato di portare dentro di me caratteristiche di più atleti”.