Amarcord

Tennis, Wimbledon: Boris Becker, il 17enne che si permise di trionfare sui sacri prati

Boris Becker - Foto Ray Giubilo

Era il 7 luglio 1985 quando un teenager con l’aspetto da vichingo compieva un’impresa destinata a rimanere nei libri di storia dello Sport: quel ragazzo veniva da una cittadina della Germania dell’Ovest, aveva 17 anni e 227 giorni, e quel giorno conquistò la cattedrale profana più sacra che lo sport conosca, quella dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club, dove si disputa il torneo di tennis per antonomasia, Wimbledon. Stiamo parlando di Boris Becker, ancora oggi il tennista più giovane ad aver trionfato sull’erba dei Championships: un record di quelli duri a morire, che sembra diventare sempre più resistente con l’avanzare del tempo e dell’evoluzione di questo sport. Con quella cavalcata Becker divenne un vero e proprio eroe in patria, anche perché nessun teutonico era mai riuscito nell’impresa di vincere su quei campi leggendari. Come se tutto questo non fosse già abbastanza pionieristico, aggiunse alla lista dei record quello di essere il primo giocatore a conquistare il titolo da non-testa di serie. Tutti primati che conferirono immediatamente al successo una valenza da pietra miliare del tennis, ma è stata l’evoluzione di questo magnifico sport a consacrarlo definitivamente come tale. Non è un caso che il primo dei sei trionfi Slam dell’attuale coach di Djokovic venga chiamato continuamente in causa per sottolineare il graduale ma enorme mutamento che il tennis ha attraversato dagli anni ’90 in poi: oggi, per credere ad un vincitore Slam così giovane dovremmo ricorrere quanto meno a massicce dosi di fantasia, troppo avanzato è diventato questo sport perché un adolescente nel pieno dello sviluppo possa avere le carte in regola per competere con atleti al culmine della loro maturità, fisica e mentale. Seppur siano sempre rintracciabili talenti che a quell’età diano già l’impressione di essere potenziali campioni, superare da teenager il muro che divide il professionismo dei tornei minori da quello dei top 100 risulta sempre più complicato, figuriamoci vincere un Major. Il tramonto delle carriere sportive è sempre più tardivo e i veterani, campioni o no che siano, non ne vogliono sentire di lasciare spazio ai giovani. Solo per dare un’ idea, attualmente il più giovane top-100, Taylor Fritz, ha 18 anni e non ha ancora vinto una partita a livello Slam. E pensare che quella stessa, travolgente, comparsa tra le stelle di Becker rappresenta, oltre che un’ icona di un tennis che non c’è più, anche uno dei primi inequivocabili simboli del cambiamento che si stava mettendo in moto e che ha formato poi il tennis attuale: il ragazzo di Leimen alzò bruscamente l’asticella della potenza applicata alla racchetta, potenza che, dall’alto del suo metro e 89 per 85 kg di peso, impersonificava più di chiunque, condensandola in un mix tra esplosività ed eleganza dei colpi che pareva quasi innaturale.

“Bum Bum” Becker era il simbolo dello strapotere fisico che si impadroniva delle dinamiche dello sport tradizionalmente più tecnico. Quando il biondo Boris arrivò sui campi di Church Road, in quel 1985, i riflettori erano in parte già puntati su di lui, aveva concluso il primo anno nel circuito (’84) al 66° posto del ranking dopo aver raggiunto i quarti di finale sull’erba degli Australian Open, e si era concesso, proprio all’alba di quell’estate, il lusso di trionfare nel prestigioso torneo del Queen’s, confermando una propensione innata ai campi verdi. Il suo servizio era una saetta, con cui era ordinario, straordinariamente per l’epoca, abbattere il muro dei 200 km/h, e che, abbinata allo spiccato talento per un gioco di volo esplosivo e ricco di gesti acrobatici, lo faceva sembrare nato per dominare sui campi rapidi: un giocatore di puro attacco in grado anche di fulminare da fondo campo con un dritto poderoso. Nonostante questo, solo pochi illuminati potevano pensare a una sua vittoria quando a dare battaglia c’erano John McEnroe e Jimmy Connors. Il favoritissimo della vigilia non poteva che essere proprio il numero uno del mondo “SuperMac”, trionfatore nelle due precedenti edizioni dei Championships. Nessuno, però, aveva fatto i conti con un 27enne sudafricano di nome Kevin Curren, ottava testa di serie, che ebbe l’ardire di estromettere brutalmente dal torneo entrambe le star USA oltre che Stefan Edberg prima di loro, in un filotto memorabile di “3 set a 0” che rese Wimbledon senza padroni e del tutto incerto. L’ Incertezza caratterizzò, tuttavia, anche il percorso di Becker, che si ritrovò in equilibrio su di un filo sottilissimo svariate volte; fosse stato per lui, forse, a quel successo storico non ci sarebbe neanche arrivato vicino: durante il match di ottavi, in svantaggio di 2 set a 1 e con una caviglia slogata, stava per andare, rassegnato, a rete per stringere la mano all’avversario statunitense Tim Mayotte; per fortuna, però, il suo angolo lo fece desistere da quell’avventato proposito urlandogli di chiamare un medical time-out; Boris ascoltò i suoi mentori, Gunther Bosch e Ion Tiriac, e riuscì a ribaltare le sorti di quel match. Nel turno precedente se l’era già vista brutta, costretto a giocare due game di risposta da “dentro o fuori” contro lo svedese Joakim Nystrom, ma ancora in grado di risorgere e chiudere in volata sul 9-7. Superò, poi, l’ostacolo francese Henri Leconte in quattro set e, in una semifinale articolata su due giorni, Anders Jarryd, quinta testa di serie cui recuperò uno svantaggio di un set e un break. Si torna a quel 7 luglio, dunque: l’ultima sfida vede Becker opposto a Kevin Curren, che tiene aperta una striscia di 44 turni di battuta vinti consecutivamente e ha tutte le intenzioni di mettere in bacheca il suo primo titolo Slam, dopo che a Melbourne, pochi mesi prima, si è fatto sfuggire l’occasione all’ultimo atto, complice Mats Wilander. Deve essere stata proprio l’incoscienza tipica dell’età, ma a cominciare in scioltezza la contesa non fu l’esperto sudafricano, ma lo sbarbato tedesco: la striscia positiva di Curren viene sorprendentemente interrotta nel game di apertura e Becker conquista agevolmente il primo parziale. Il secondo arriva al tie-break, e a spuntarla è il tennista di Durban naturalizzato americano. Anche il terzo parziale vede l’epilogo del gioco decisivo, ma questa volta parla tedesco. Si arriva dunque al quarto set, la stanchezza si fa sentire, Becker ne ha di più e riesce nuovamente a togliere il servizio, portandosi a un solo, pesantissimo, game di battuta dalla storia. Nonostante la freddezza inverosimile dimostrata fino a quel momento, in quei frangenti il braccio non poté che tremare, ma giusto quel tanto che basta a rendere ancora più elettrizzante il successo: un doppio fallo al primo 15, seguito però da due provvidenziali prime palle che, insieme a un errore del rivale nel passante, mandano il tedesco al match point. Boris guarda il cielo per invocare un’altra prima, “perché non so cosa potrei combinare con una seconda”. Era proprio il suo torneo, la traiettoria esterna del servizio killer entrò e Curren poté solo tenere lo sguardo fisso a terra mentre il ragazzino alzava le braccia al cielo, incredulo. Dopo aver sognato ad occhi aperti, una triste notizia riportò Boris coi piedi per terra: l’amato nonno si era spento due settimane prima, e i genitori gliel’avevano tenuto nascosto per non condizionarlo…l’ennesimo tassello di quel complesso e preciso meccanismo ad incastro voluto dal caso, che spesso si rivela necessario per materializzare i grandi successi di questo sport.

“Per la mia carriera di tennista è stato probabilmente troppo presto perché quando scendevo in campo tutto era paragonato a Wimbledon ‘85”, confessa oggi il 48enne. “Così, non ho avuto tempo per sperimentare, per migliorare il rovescio, la mobilità. Forse, se non avessi vinto già allora, ora avrei qualche Slam in più in bacheca”. Forse si, ma, nonostante quattro anni dopo il suo record di precocità a livello Slam sia caduto per mano di Michael Chang – campione a Parigi a 17 anni e 110 giorni – l’aura di magia che quel Wimbledon ’85 continua ad avere nella memoria degli appassionati non “cadrà” mai, e vale, forse, più di ogni statistica.

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