Amarcord

Montreal 1976, la storia della XXXI Olimpiade

Stadio Olimpico Montreal

Negli primi anni ’70 dominati dalla guerra fredda, la scelta della nazione ospitante dei ventunesimi giochi olimpici sembrava un gioco tra le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica. Ma, mentre le principali nazioni votarono Mosca o Los Angeles, gran parte degli stati più piccoli scelsero la via neutrale e, a sorpresa, la seconda città del Canada, Montreal, si aggiudicò l’organizzazione dell’Olimpiade del 1976.

In realtà però, fino a poche settimane dall’inizio dei giochi, l’inizio degli stessi fu in forte dubbio, a causa di una serie di incredibili ritardi nei lavori, che fecero lievitare i costi dell’organizzazione. Si pensi che il budget preventivato venne usato quasi completamente per la costruzione del solo stadio olimpico, e che per poter recuperare i costi, i cittadini canadesi dovettero pagare un’apposita tassa speciale sulle sigarette per i 30 anni successivi.

Sta di fatto che, in un modo o nell’altro, il 17 luglio 1976 l’Olimpiade prese il via, proprio in quello stadio, che con la sua torre inclinata ancora oggi è ritenuto un capolavoro di architettura organica moderna (completata poi con il tetto retrattile solo nel 1987).

Solo poche ore prima, però, ci fu il primo vero e proprio boicottaggio olimpico. 29 nazioni, tutte africane oltre a Iraq e Guyana, decisero infatti di ritirare i propri atleti in segno di protesta contro l’ammissione della Nuova Zelanda, che aveva mandato gli All Blacks a giocare in Sud Africa, nazione esclusa dal CIO a causa dell’apartheid. “O noi o loro” fu la presa di posizione delle nazioni, ma il CIO, non essendo il rugby sport olimpico, non prese posizione: le uniche nazioni africane presenti furono così la Costa d’Avorio e il Senegal, mentre la Nuova Zelanda chiuse l’edizione con due medaglie d’oro, nell’atletica leggera (1.500 metri) e nell’hockey su prato.

Dopo un’apertura molto istituzionale (fu dall’Olimpiade seguente che le cerimonie divennero veri e propri eventi spettacolari), presero il via i 198 eventi, per la prima volta trasmessi a colori dalla tv italiana, in via sperimentale. Se vogliamo indicare un’unica grande protagonista di quei giochi, ci sono pochi dubbi, fu Nadia Comăneci. Nadia arrivò in Canada in quel mese di luglio che aveva ancora 14 anni, ma di certo non era una sconosciuta: l’anno prima in Norvegia aveva vinto 4 ori e 1 argento nelle 5 gare degli europei di ginnastica artistica. Tutti gli occhi erano su di lei, ma già a quell’età dimostrò di saper reggere perfettamente alla pressione e riuscì in qualcosa che nessuno prima aveva mai fatto: ottenere un 10, il massimo dei voti, nella prova alle parallele asimmetriche. Perfino i segnapunti dell’epoca non erano attrezzati alla doppia cifra, tanto che il suo punteggio fu segnalato come 1. Ma, per dimostrare che non si trattasse di un errore, Nadia ripeté quel risultato altre 6 volte, portandosi a casa 3 ori e un bronzo individuale e l’argento a squadre. Non tutti però ricordano che insieme a Nadia, grandissima protagonista fu anche la sovietica Nelli Kim, che vinse gli altri due ori individuali e la gara a squadre, ottenendo per la prima volta dei 10 nel corpo libero e al volteggio (dove la Comăneci fu clamorosamente quarta). Le due ginnaste più forti di sempre una contro l’altra, in una serie di sfide epiche che furono senza dubbio il momento clou dei giochi: uno spettacolo. Che la ginnastica fu il fulcro di quell’olimpiade fu dimostrato anche da due uomini: il sovietico Nikolaj Andrianov, che in 8 gare vinse 4 ori, 2 argenti e 1 bronzo, e il giapponese Shun Fujimoto, che riuscì a portare a termine la sua prova agli anelli pur gravemente infortunato (con un ginocchio rotto cercò comunque di atterrare, rompendosi i legamenti e svenendo subito dopo, ma ottenendo un voto di 9,7), contribuendo così a regalare l’oro a squadre alla sua nazione.

L’atletica leggera fu invece dominata da Germania Est, Stati Uniti e Unione Sovietica, che portarono a casa più del 50% delle medaglie. Ma furono 3 atleti di piccole nazionali i grandi protagonisti: il cubano Alberto Juantorena, soprannominato “el caballo” per il suo modo di correre, fu il primo di sempre a vincere sia i 400 che gli 800 metri, il finlandese Lasse Virén bissò 5000 e 10000 come quattro anni prima a Monaco, ma fu duramente criticato dal CIO per aver mostrato il logo delle sue scarpe durante il giro d’onore (lui si giustificò dicendo di essersele tolte per il dolore ai piedi – erano proprio altri tempi), e il povero belga Ivo Van Damme, argento negli 800 e nei 1500, che morì poche settimane dopo in un incidente stradale. Montreal fu tra l’altro anche ricordata per il primo caso di doping nell’atletica leggera, con la polacca Danuta Rosani squalificata per uso di steroidi anabolizzanti.

Alla fine il medagliere fu dominato dal blocco dell’est, con l’Unione Sovietica davanti a tutti con 49 ori, seguita dalla Germania Est con 40 ori. E l’Italia? Molto più indietro: quella di Montreal fu la peggiore edizione di sempre dopo il 1912, con solo 2 ori, 7 argenti e 4 bronzi.

Il primo oro arrivò da Klaus Dibiasi, che per la terza volta di fila, dopo Città del Messico e Monaco, unico caso nella storia dei tuffi, vinse dalla piattaforma. Fu per lui un’edizione straordinaria, iniziata come portabandiera e conclusa con una gara praticamente perfetta: dopo il secondo posto nelle qualificazioni dietro a un giovanissimo Greg Louganis (che poi vincerà 4 ori nel 1984 e 1988), fu il primo a superare i 600 punti nella specialità, portandosi a casa l’oro. Dai tuffi arrivò anche un argento da Giorgio Cagnotto nel trampolino da 3 metri: anche lui riuscirà quattro anni dopo ad andare a medaglia per la terza olimpiade consecutiva, pur non riuscendo mai a vincere l’oro.

La seconda vittoria fu invece di Fabio Dal Zotto, che si aggiudicò il fioretto individuale, gara in cui l’Italia non arrivava all’oro dal 1936. Fabio aveva solo 19 anni, e venne portato a Montreal a sorpresa, dopo aver vinto i mondiali giovanili. Sulla pedana dimostrava ben altra età: aveva un fare spaccone e colpiva con uno stile completamente diverso da quello dei suoi colleghi più quotati, da vero precursore della scherma moderna. Iniziò il torneo con fatica, superando le qualificazioni grazie a sole 2 vittorie contro 3 sconfitte, ma arrivò al girone finale in crescendo, chiudendolo con 4 vittorie e 1 sconfitta. Fu necessario così lo spareggio per l’oro con il mitico Alexander Romankov, che nei 15 anni successivi avrebbe poi vinto 10 mondiali di specialità. Fabio fu una vera belva in finale, vinse facilmente 5-1 e si aggiudicò clamorosamente l’oro. Pochi giorni dopo, trascinò anche la nazionale all’argento nella prova a squadre. Negli anni successivi non riuscì più a ripetere quei risultati, ma in quella settimana sembrò veramente in stato di grazia. La scherma ci portò anche altri due argenti, con la squadra della sciabola maschile e con Maria Consolata Collino nel fioretto femminile.

Gli altri tre argenti arrivarono dalla nazionale di pallanuoto maschile (che perse solo dalla fortissima Ungheria di Tamás Faragó), da Sara Simeoni nell’alto femminile (per lei prima di tre medaglie olimpiche consecutive) e da Giuseppe Martinelli, oggi uno dei più vincenti direttori sportivi del ciclismo, nella prova su strada. I quattro bronzi invece furono vinti dai tiratori Roberto Ferraris (pistola da 25 metri), Ubaldesco Baldi (fossa), Giancarlo Ferrari (tiro con l’arco) e Felice Mariani (pesi leggeri nel judo).

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