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«Cruyff ha dipinto la cappella Sistina. Rijkaard, Van Gaal e io non abbiamo fatto altro che aggiungere qualche pennellata». Le parole di Pep Guardiola, il regista del suo vecchio “Dream Team”, riconoscono il magistero di Johan Cruyff nell’ideazione di quello che è il più grande spettacolo di arte calcistica contemporanea.
Se il Barcellona è oggi un’avanguardia culturale e sportiva celebrata anche dalla settima arte (“Barça dreams”, nelle sale il 29 e il 30 marzo) diversi meriti sono di quell’olandese che in campo a Trapattoni sembrava «uno sciatore per il suo modo di correre e condurre la palla» e in Catalogna è diventato il demiurgo del calcio totale 2.0. Velocità, geometria, eclettismo, semplicità.
Tutte le strade partono dall’Ajax di mister Buckingham e dalla grande Olanda di Rinus Michels, l’uomo che ha ridefinito i canoni filosofici del Gioco in senso universale («Tutti devono saper giocare in qualsiasi posizione del campo…»), e portano in Catalogna.
Subito dopo la prima Coppa dei campioni dell’Ajax, anno di grazia 1971, Michels si trasferisce a Barcellona, seguito due anni dopo da Cruyff. È la traccia seminale di una rivoluzione che avrà per epicentro “La Masia”, una residenza settecentesca che su suggerimento del tecnico olandese all’allora presidente Nuñez, si è trasformata nel posto delle fragole della meglio gioventù del Barça.
«Gli altri, i palloni d’oro li comprano, noi, li costruiamo», l’intuizione visionaria di quello che per Allegri «ha cambiato il calcio sia da giocatore che da tecnico» trova una rappresentazione plastica nella Coppa Campioni vinta da Guardiola con 8 giocatori su 11 provenienti dal settore giovanile blaugrana e nella cerimonia del Pallone d’Oro 2010 con tre finalisti (Messi, Iniesta e Xavi) prodotti del vivaio culè.
Di cosa parliamo quando parliamo del Cruyff allenatore? Parliamo dell’elaborazione di un gioco che dava molta importanza al pallone e poco agli spazi e di sofisticazioni tattiche alle volte incomprensibili (Gary Lineker schierato all’ala), della notte di Wembley, 20 maggio 1992, con la conquista della prima coppa dei Campioni della storia blaugrana contro la Sampdoria e della scoppola ad Atene, due anni dopo, contro il Milan, l’alfa e l’omega del suo Dream Team.
La testimonianza fluida della centralità del calcio totale e la ubris che punisce chi si compiace di pensarsi già campione prima della battaglia. Si intreccia al Milan la storia di Cruyff, già rossonero per 45 minuti in un lontano Mundialito, che inizia la sua avventura sulla panchina catalana nello stesso anno dello scudetto di Sacchi. Come il profeta di Fusignano, anche l’olandese ha cambiato il calcio senza mai derogare alle sue idee. «Il miglior Barcellona di Cruyff trasformava un corner in un passaggio all’indietro al proprio portiere. Lo battevano corto e a forza di passaggi indietro arrivavano fino a Zubizarreta per poi ricominciare. In un’epoca che sembrava consacrare la serietà quella squadra si divertiva giocando…», ha scritto l’ex calciatore, allenatore e dirigente madridista Jorge Valdano nel suo libro “Il sogno di Futebolandia”.
Una volta lasciata la panchina del Barça, quello che per Fabio Capello «è stato il miglior calciatore europeo della storia», è diventato il grillo parlante del mondo Barcellona, ha ricoperto il ruolo di consigliere dell’ex presidente Laporta fino a diventare una spina nel fianco nei confronti della gestione Rosell-Bartomeu e di Neymar («Un ragazzo di 21 anni, vittima dei soldi, del suo agente e del club, non può guadagnare più di chi ha vinto tutto»). Amato e odiato come capita solo ai grandi, la lectio magistralis di Cruyff è nel richiamo al valore formativo del calcio di strada e al calcio come espressione artistica in cui «la creatività non fa mai a pugni con la disciplina».