“Il jazz è libertà d’espressione e la stessa cosa vale per il basket, i cui fondamentali hanno la funzione delle note nella musica: da lì in avanti si improvvisa in ambedue i campi ed è una cosa bellissima”.
Parola del grande jazzista Wynton Marsalis citato dal giornalista di Sky Flavio Tranquillo nel suo nuovo saggio “Basketball R-Evolution” (edito da Baldini&Castoldi). Una partitura rivoluzionaria che mette insieme memoria, gioco, libertà e il racconto di cinque uomini che hanno cambiato il basket.
Tra i grandi innovatori accolti con scetticismo, insieme ai fratelli Wright e a Dick Fosbury, è doveroso citare il figlio di un venditore di mucche del Nebraska, Kenny Sailors, un palleggiatore “veloce come un serpente a sonagli” che ha cambiato la pallacanestro non meno di Larry Bird e Magic Johnson. A lui, infatti si deve l’invenzione del tiro moderno, in sospensione e con una mano.
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Dai pionieri del tiro in salto Sailors-Luisetti agli “Splash Brothers”, Klay Thompson e Steph Curry: in mezzo ci sono le mille sfumature tecniche, agonistiche, narrative di un Gioco che restituisce anche il romanzo criminale di Jack Molinas, il cui talento “naturale come il disegno tracciato dalla polvere sulle ali di una farfalla” (copyright Ernest Hemingway) fu sopraffatto dal suo spirito autodistruttivo che lo trasformò in una specie di Tony Soprano ante-litteram, re delle scommesse e delle partite truccate.
C’è chi ha buttato al vento un’esistenza e chi ha fatto dell’arbitraggio una autentica missione di vita. E’ il caso di Earl Strom, Yogi per gli amici, Pifferaio magico per gli altri, 2400 partite fischiate, vista laser e spirito focoso (le cronache raccontano anche di una sua presunta aggressione a una donna a bordo campo). Di lui è stato scritto: “Aveva capito che il basket professionistico è entertainment, non ricerca medica o ingegneria aerospaziale: per questo non ha mai preso il Gioco, o sé stesso, troppo sul serio”.
Chi ha preso sul serio il Gioco, invece, è stato coach Pete Newell, il genio della tattica (il cui magistero è stato fondamentale, tra gli altri, anche per il guru di San Antonio Gregg Popovich) che ha perfezionato il pressing e la “reverse action”. Un altro rivoluzionario al pari di Bob Douglas, il primo vero manager sportivo, demiurgo del Rinascimento di Harlem con i New York Rens, la squadra composta unicamente da giocatori di colore, simbolo di emancipazione, riscatto e lotta contro i pregiudizi quando il basket era un gioco per bianchi. “Con i Rens il basket diventò per i neri un’opzione di linguaggio come la musica e le arte figurative”, elementi costitutivi della “black culture”.
Movimenti di palla, spaziature, dai e vai. Quella squadra, che nel 1939 chiuse la stagione con un record di 112 vittorie e sette sconfitte, era un compendio “di tutti quei criteri che oggi fanno grande un attacco”, scrive Flavio Tranquillo. “Uno stile fatto di connessione tra i singoli senza levargli il diritto-dovere di improvvisare”. E qui si torna al parallelo basket-jazz. D’altronde se il verbo “to play” è lo stesso per chi suona e per chi gioca, un motivo ci sarà.