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Che incredibile solco l’Atlantico. Seimila chilometri di acque profonde fanno della Storia un cubo a molte facce che si fa quasi fatica a decifrare. Al di qua delle colonne d’Ercole il decennio dei Trenta si mostrava in tutta la sua sinistra cupezza. Nell’annus domini 1932 l’Italia entrava nel settimo anno dell’era fascista, erano passati dieci anni dalla fondazione ufficiale dell’Unione Sovietica, otto dalla morte di Lenin, lo stalinismo era ai suoi livelli massimi di capillarità e durezza. Nel cuore del continente l’effimera Repubblica di Weimar si preparava a cadere, vittima di se stessa e di numerose cecità, aprendo la strada all’ascesa di Adolf Hitler.
Dall’altra parte del grande oceano, superata a volo di gabbiano la piccola Cuba in procinto di iniziare il suo periodo di confusionaria gestione per mano di Fulgencio Batista, gli Stati Uniti si presentavano acciaccati e pericolanti, ancora scottati dal maledetto ’29, ma in qualche modo pronti alla ripresa. Franklin Delano Roosevelt era stato eletto Presidente di fresco ai danni dell’uscente Hoover, a sua volta travolto dalla grande depressione. Un’America acciaccata sì, ma pronta a rialzarsi, nei panni eleganti seppur sgualciti di un uomo d’affari di Wall Street, era quella che verosimilmente si mostrava agli appena sbarcati nel porto di New York.
Ma un’altra America ancora, dentro un’altra Storia ancora, viveva sull’altra costa del Paese-continente. Confortata dalle onde del pacifico, lontana nello spirito e nei chilometri dalla baruffa di Wall Street, Los Angeles nel 1932 si preparava ad ospitare i Giochi della X Olimpiade.
La grande depressione non aveva certo tenuto fuori dai guai la gente della California, ma Los Angeles si impegnava al massimo per non darlo a vedere. Hollywood ad esempio entrava nel suo periodo migliore, Fred Astaire stava per dire un primo arrivederci a Broadway per iniziare la sua avventura nel cinema proprio alle pendici della collina più famosa del mondo e anche Louis Armstrong stava per approdare in cerca di fortuna tra i viali di LA. Tutto questo mentre una Bette Davis vicina all’apice della sua gloria dominava la scena della celluloide e i sogni bagnati di qualche poliziotto violento e bigotto della città (chiedete a James Ellroy se non ci credete).
L’Olimpiade insomma arrivava a Los Angeles mentre la città viveva una pausa dalle sorti del pianeta, ubriaca della sua crescita repentina, dei suoi divi del cinema e della musica oltre che del bourbon che circolava libero seppur clandestino, figlio malizioso del Proibizionismo. Quello della sacra torcia nel 1932 era un ritorno rischioso sul suolo americano dopo la non troppo felice edizione di Saint Louis 1904, ma le sorti di quest’edizione furono decisamente più positive sebbene l’effetto congiunto delle conseguenze della grande depressione in Europa e le consuete difficoltà di viaggio resero possibile la partecipazione a soli 1332 atleti, meno della metà di quelli che quattro anni prima avevano potuto gareggiare ad Amsterdam.
Al di là del contesto astutamente lasciato fuori dall’uscio, a Los Angeles arrivarono molti importanti risultati non solo sportivi. Per quanto le cronache riportino clamorosi episodi di giudici distratti, giri di troppo nelle gare di fondo e altri pastrocchi degni di un inizio secolo assai meno fanatico dell’oggi su questi temi, Los Angeles 1932 fu anche l’edizione che introdusse tecnologie per il tempo innovative come il cronometro preciso al centesimo e una prima forma di fotofinish.
Il calcio non fu presente a quell’edizione e chissà se la formazione azzurra più forte di sempre, quella di Vittorio Pozzo due volte campione del mondo, non si sia così privata di un altro tassello di storia e leggenda. A onor del vero i colori patri a Los Angeles furono più che degnamente ripagati con gli atleti del Regno secondi nel medagliere dopo gli Stati Uniti padroni di casa. 12 ori, 12 argenti e 12 bronzi che in qualche modo battezzarono discipline ancora oggi tradizionalmente care ai nostri colori in sede olimpica. Tre ori arrivarono dal ciclismo, quattro dalla ginnastica, due dalla scherma, uno dalla lotta e uno dal tiro.
Il campione della pistola da 25 metri fu Renzo Morigi, personaggio alquanto controverso, fascista convinto e poi repubblichino che sempre con la pistola si era distinto qualche anno prima, rispondendo al fuoco e uccidendo un bracciante romagnolo che aveva attentato alla vita di un gerarca del fascio locale.
Ben più genuinamente olimpica la storia di un altro romagnolo, il riminese Romeo Neri a cui la città ha dedicato il proprio stadio. Neri ai giochi della X Olimpiade portò a casa tre medaglie d’oro a completamento di un battesimo olimpico che ad Amsterdam gli aveva portato “solo” un argento nella specialità della sbarra. Si racconta per altro che dopo l’impressione suscitata negli osservatori americani, alcuni produttori della Metro Goldwyn Mayer l’avessero avvicinato per offrirgli il ruolo di Tarzan nell’omonimo film che poi sarebbe stato invece interpretato dal nuotatore John Weissmuller. Neri rifiutò, ansioso di tornare a Rimini dove il comune, in un impeto di stato sociale che oggi darebbe scandalo, gli aveva tenuto in caldo un posto tranquillo di impiegato dell’ufficio tecnico.
La storia simbolo di questi Giochi resta però con tutta probabilità quella di Takeichi Nishi, fantino giapponese che conquistò l’oro nel salto a ostacoli individuale e gli applausi del pubblico americano – già allora poco affezionato alla vasta immigrazione nipponica – esattamente nove anni prima che il bombardamento di Pearl Harbour desse inizio alla partecipazione attiva degli Stati Uniti al secondo conflitto mondiale e rendesse ogni singolo giapponese presente sul suolo americano un potenziale nemico e aprisse il sinistro periodo della quinta colonna. Nishi, che era stato iniziato all’equitazione in accademia militare, tornò a servire nell’esercito imperiale in qualità di ufficiale e così concluse la sua vita, ucciso in armi durante la strenua difesa dell’isola di Iwo Jima assediata dagli americani nel 1942 durante un’epica battaglia che recentemente ha ispirato anche un film girato da Clint Eastwood.
I segni di un mondo scricchiolante forse oggi sono più evidenti di quanto non lo fossero per i presenti, di certo molto meno di quanto lo sarebbero stati quattro anni dopo a Berlino quando ormai era troppo tardi per tutto. Ripensare oggi ai Giochi della X Olimpiade resta comunque un esercizio malinconico e a tratti quasi macabro, come a guardare da lontano un ballo che si protrae ipnotico mentre i motori della guerra rombano in lontananza. Un’immagine che solo la ferita, isterica, romantica e giuliva Los Angeles avrebbe potuto rendere così bene.