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Uberto De Morpurgo: vorrei imitarti tra cent’anni

Uberto de Morpurgo

Un’insegna davanti a una curva a gomito nei pressi di Villa Ada, a pochi passi dal parcheggio del Tennis Club Parioli, è il massimo che la toponomastica italiana ha saputo riservare all’unico nostro atleta capace di conquistare una medaglia olimpica nel tennis. Sabato 27 luglio, quando la squadra italiana con Jannik Sinner in testa darà l’assalto al podio olimpico in almeno una delle cinque specialità del tennis, sarà trascorso un secolo e una settimana dalla piccola impresa di Uberto de Morpurgo, medaglia di bronzo nel singolare maschile ai Giochi di Parigi 1924.

Tante differenze, piccole e grandi. A cominciare dalla sede: se nel 2024 si gareggerà nell’abituale cornice outdoor del Roland Garros, cent’anni prima i tornei di tennis andarono in scena allo Stadio di Colombes, impianto mitico per il calcio italiano (lì vinceremo il nostro secondo Mondiale nel 1938) e per lo sport mondiale, che in quei giorni viveva le vicende raccontate oltre mezzo secolo dopo in “Momenti di gloria”, ambientato durante le gare di atletica di Parigi 1924. Uno stadio di culto anche per il cinema, perché è lì che è ambientata – almeno nella finzione – la partita di calcio tra nazisti e prigionieri alleati che chiude “Fuga per la vittoria” di John Huston (anche se in realtà le scene furono girate a Budapest). E nel 1924 a Colombes si gioca anche a tennis, in una città che in quella domenica pomeriggio è il centro del mondo, dal momento che al Velodromo del Parco dei Principi è anche previsto l’arrivo dell’ultima tappa del Tour de France. Edizione storica per il nostro sport, perché quella è la prima Grande Boucle vinta da un ciclista italiano, il trevigiano Ottavio Bottecchia che quel Tour l’ha dominato, indossando la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa.

Discendente di una famiglia nobile, De Morpurgo è un apolide per geografia e sentimento. È nato a Trieste nel 1896, ma nel 1896 Trieste è ancora austriaca, il principale sbocco sul mare dell’impero asburgico. Sua madre è inglese, il passaporto è cecoslovacco, e del resto lui si chiama Hubert; ed è così che si qualifica in perfetto francese (“Je suis tchecoslovaque!”) al giovane collega Giorgio De Stefani quando s’incontrano per la prima volta nel 1923, in un torneo in Svizzera. Trieste è stata ufficialmente annessa all’Italia da tre anni, per effetto del Trattato di Rapallo ratificato nel 1920, ma De Morpurgo non sembra bruciare di patriottismo per i suoi nuovi colori. In quei mesi il CONI vive mesi assai turbolenti per la forzata uscita di scena del suo presidente Aldo Finzi, coinvolto in circostanze mai chiarite nel delitto Matteotti: a caricarsi sulle spalle il peso dell’intero Comitato Olimpico, compresa la spedizione parigina, è il conte Alberto Bonacossa, che si reca personalmente nella residenza parigina di De Morpurgo (un lussuoso hotel sugli Champs-Elysées) per convincerlo a giocare a tennis con le insegne tricolori. Ci riesce, ed è un gran colpo: perché De Morpurgo è un signor tennista, magari senza il talento dei mosquetaires francesi o dei migliori americani, ma tignoso, determinato, ben allenato nonostante talvolta preferisca il salotto al campo da gioco. Al primo turno lascia un solo game al modesto lussemburghese Camille Wolff; supera per 3 set a zero anche lo svizzero Debran e il greco Zerlendis, prima di incappare agli ottavi nelle prime difficoltà del suo torneo, con il belga Jean Marie Octave Washer che lo costringe a un faticosissimo quinto set, vinto 8-6. Tutto facile ai quarti contro il giapponese Harada, ma è adesso che il tabellone s’impenna, popolato com’è di due “moschettieri” su quattro (Jean Borotra e Henri Cochet) più il suo avversario di semifinale, lo statunitense Vinnie Richards, all’epoca il numero 2 al mondo, uno che a 15 anni aveva già vinto (in doppio) il primo titolo Slam e proprio nel doppio scriverà pagine importanti della storia di questo sport. De Morpurgo si arrende con onore in quattro set e si prepara, da ospite e sfavorito, alla finale per il bronzo contro Borotra, uscito sconfitto nel derby con Cochet: carattere estroverso, un berretto blu divenuto iconico un secolo prima che vada di moda l’aggettivo “iconico”, Borotra è naturalmente il beniamino del pubblico, con cui ama fermarsi a chiacchierare tra un punto e l’altro.

Domenica 27 luglio, ultimo giorno di Giochi, lo stadio di Colombes è pieno. Diciamo la verità, soprattutto per assistere alla finale tra Cochet e Richards, per la quale s’è mobilitata anche Vittoria Eugenia di Battemberg, la Regina di Spagna. Ma il match che fa da aperitivo è di quelli che fanno la storia: De Morpurgo parte assai male contro “the Bounding Basque”, il basco saltellante, stando al nickname che gli inglesi hanno dato a Borotra, trionfatore a Wimbledon appena tre settimane prima. Perde il primo set 6-1, vince il secondo con analogo punteggio, si aggiudica il terzo set 8-6, viene raggiunto sul due pari con il successivo 6-4 Borotra e trionfa in volata con un 7-5. “L’Italia, pressoché ultima venuta in questo sport, quasi impreparata”, scriverà l’indomani la Gazzetta dello Sport, “è riuscita a qualificarsi al terzo posto per merito di De Morpurgo che in magnifica giornata e ammiratissimo è riuscito a battere sia pure di misura quell’asso del bel giuoco che è il Borotra”.

Il barone De Morpurgo diventerà una colonna del tennis italiano nel decennio successivo, scandito dalle sue 79 partecipazioni in Coppa Davis e da altri risultati di rilievo come i primi quarti raggiunti da un giocatore italiano a Wimbledon, nel 1928. Sarà capitano della Nazionale, portando per due volte l’Italia alla vittoria della Zona Europea di Coppa Davis. Morirà a Ginevra il 26 febbraio 1961: “Non aveva stile”, si leggerà nel necrologio della Gazzetta dello Sport, “ma possedeva – nello sport e nella vita – una volontà di ferro che gli consentiva di dominare moralmente i suoi avversari”. Molti aneddoti che lo riguardano si trovano nelle memorie di Giorgio De Stefani, custodite oggi nel museo del CIO a Losanna. Al di là di quello slargo accanto al Tennis Club Parioli, il suo nome è stato sostanzialmente dimenticato, senza neanche la celebrazione di un campo o di una saletta in zona Foro Italico. Eppure il suo bronzo parigino di cent’anni fa rappresenta l’unico tentativo riuscito di oltrepassare le colonne d’Ercole dei quarti di finale olimpici, vera maledizione del nostro tennis. Prima e dopo quei Giochi, ci siamo fermati ai quarti 13 volte su 14, dal doppio maschile composto da Mino Balbi di Robecco e Cesare Colombo (Anversa 1920) alla sconfitta in due set di Camila Giorgi contro Elina Svitolina a Tokyo 2021. Non ha giovato alla causa la sospensione del tennis dal programma olimpico per 64 anni, dal 1924 al 1988, che ci ha impedito di giocarcela per esempio a Roma 1960 con Nicola Pietrangeli, oppure a Montréal 1976, l’anno d’oro del nostro tennis, con Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli. Ma ora lo status di prima grandezza raggiunto da Sinner deve farci pensare in grande, senza dimenticare i vari Lorenzo Sonego, Lorenzo Musetti, Martina Trevisan, che sui campi del Bois de Boulogne si sono sempre comportati alla grande.

PIAZZAMENTI AI QUARTI

Balbi di Robecco-Colombo (doppio maschile 1920)

Gagliardi-Ferelli (doppio femminile 1924)

Paolo Cané (singolare maschile 1988)

Raffaella Reggi (singolare femminile 1988)

Renzo Furlan (singolare maschile 1996)

Tathiana Garbin (singolare femminile 2004)

Pennetta-Schiavone (doppio femminile 2008)

Errani-Vinci (doppio femminile 2012)

Vinci-Bracciali (doppio misto 2012)

Fognini-Seppi (doppio maschile 2016)

Errani-Vinci (doppio femminile 2016)

Vinci-Fognini (doppio misto 2016)

Camila Giorgi (singolare femminile 2021)

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