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I Giochi Olimpici di Rio 2016 sono stati i quinti della sua carriera. I ricordi della finale, la prima volta al poligono con il padre, l’obiettivo Tokyo 2020 e un futuro in Federazione. C’è tutto Marco De Nicolo in questa intervista ai microfoni di Sportface.it. “Nei poligoni deve farsi solo sport, è una battaglia che porterò avanti”.
Torniamo subito indietro di un anno, alla finale dei Giochi Olimpici di Rio. Che ricordi hai di quella giornata?
“Ricordo anzitutto la soddisfazione per essere arrivato fin lì a giocarmi le mie possibilità. L’unica cosa che non mi aspettavo, dopo una gara andata così bene, sono stati i colpi di prova dove mi sono sentito un po’ smarrito. E’ stata una buona finale, dove ho dato veramente tutto ciò che avevo. Era il mio obiettivo ed il fatto di esserci riuscito mi ha dato estrema soddisfazione. Rispetto a come erano andate le qualifiche del mattino forse si poteva fare qualcosa di più, però personalmente non ho alcun rammarico”.
Fra tutti gli sport hai scelto il tiro a segno. C’è una ragione particolare?
“Sono figlio d’arte (suo padre, Angelo De Nicolo, è stato più volte campione italiano ndr). Ti dico questo perché sono convinto a tutti gli effetti che non sia stata una scelta, un po’ come quando ti innamori. E’ andata così, ho capito subito che era la cosa giusta da fare. Seguivo mio padre al poligono quando ero piccolo, anche se in realtà non avevo scelto subito di provare. Quando un mio caro amico decise di provare allora provai anch’io e da allora non ho più mollato la carabina. Tutto il resto è venuto da sé. L’arruolamento con le Fiamme Gialle, ad esempio, era nato solamente per svolgere il servizio militare, e solo in un secondo momento il concetto di gruppo sportivo è entrato a far parte della mia vita. Pian piano mi sono reso conto che sarei diventato un professionista. La passione è quella di allora, è rimasta intatta”.
Il tiro a segno è una disciplina lontana dalle copertine, con una cassa di risonanza minore rispetto a molte altre. Come viene vissuta questa situazione nell’ambiente?
“Quello che può sembrare uno svantaggio, in realtà non lo è. Non avere i riflettori puntati ti fa godere della parte sana dello sport, non solo del tiro a segno. Spesso mi accorgo di come le qualità e le virtù di altre discipline vengano davvero inquinate dalla pressione mediatica e dalla sete di denaro di molti opportunisti che gravitano intorno ai campioni. Questa cosa non mi piace. Nella mia carriera ho passato momenti più o meno belli e il fatto di non ritrovarsi su ogni copertina o in ogni telegiornale mi ha aiutato a metabolizzare meglio le delusioni. Ragazzi appena maggiorenni, con l’unica colpa di essere buoni talenti, vengono un giorno paragonati ai grandissimi per poi essere accantonati alla prima giornata storta. Così diventa difficile crescere e impossibile maturare, come sportivi e come uomini. Si perde l’essenza più pura. Al di là delle vittorie e delle sconfitte, sono le emozioni della gara, la voglia di competere con gli altri e con sé stessi, l’ambizione di superare i limiti, i veri mattoni sui quali dovrebbe fondarsi l’autostima degli atleti. Il resto, a mio avviso, ha poco a che vedere con lo sport”.
A fine marzo ha deciso di ritirarsi un grande campione come Niccolò Campriani. Pensi che un atleta come lui sia riuscito a fare da traino al movimento negli ultimi anni?
“Se questo non accade con un personaggio come Niccolò, non so davvero quando possa accadere. Lo spero davvero, in particolar modo perché non ha lasciato in eredità solo grandi vittorie ma la giusta attitudine al percorso. In questi giorni ho letto del suo nuovo progetto che riguarda i gruppi sportivi universitari per arrivare a creare un modello simile a quello degli Stati Uniti. Le medaglie sono il minimo rispetto a quello che sta cercando di fare ora. Conosco Niccolò da quando aveva sedici anni, posso dire davvero di averlo visto crescere. Con lui ho diviso la camera in giro per il mondo per molti anni, seguendo da vicino ogni suo risultato, ogni sua gioia e delusione. Mi auguro che venga dato sempre più spazio a lui e a persone come lui, i veri valori aggiunti in questo mondo”.
Come giudichi la situazione in questo momento?
“Sono giorni molto delicati, soprattutto dopo che l’UITS (Unione Italiana Tiro a Segno ndr) è stata commissariata). Io per quattro anni ho fatto anche il consigliere, vivendo l’esperienza dall’altra parte della barricata, e mi sono reso di come il nostro sport, che già sta subendo profondi cambiamenti a livello internazionale, rischi seriamente di essere dominato dal sistema. Non è solo un nostro problema. Anche nel judo, ad esempio, so che stanno stravolgendo molte cose in nome dello spettacolo, rischiando di trasformare la natura stessa dello sport solo per ragioni mediatiche. Purtroppo è molto semplice: se non sei “televisivo” non funzioni, se non funzioni non fai parte del carrozzone Olimpico, se non fai parte del carrozzone Olimpico il budget si riduce a zero e andare avanti diventa difficile. Il fatto che il tiro a segno abbia una duplice funzione, di sport sia agonistico che istituzionale (in quanto nei poligoni si fa maneggio armi), è decisamente negativo. A me piacerebbe che nei poligoni si facesse solo sport e mi batterò, se dovessi continuare la carriera politica in Federazione, per preservare la natura intrinseca del nostro sport. Se il tiro a segno, che non è “sparare”, viene presentato nel modo giusto allora risulta attraente e fruibile per i giovani. Se lo si fa in maniera errata, si rischia fortemente di non avere il ricambio giusto in futuro”.
Credi che la Federazione faccia abbastanza per il movimento o andrebbero apportati dei correttivi?
“Il mio mantra da atleta è che si può sempre fare meglio. Detto questo, penso che negli ultimi dieci anni, soprattutto grazie al lavoro di Valentina Turisini (Direttore Sportivo della Nazionale ndr), il vero grande motore di tutto, la nostra disciplina abbia avuto una crescita esponenziale. Nell’ambiente hanno lavorato e lavorano persone capaci, che portano avanti le loro idee con grande passione. Pochi mesi fa è partito il progetto Toniolo e abbiamo quattro giovani iscritti in questa sorta di liceo sportivo, che al termine dell’attività scolastica verranno seguiti dallo staff della UITS nei loro allenamenti. E’ una rivoluzione epocale che prevede un netto abbassamento dell’età di approccio al professionismo, ma come sempre dobbiamo attendere i risultati prima di giudicarne la riuscita. Finalmente studio e sport insieme, come già accade in molte parti del mondo”.
Si può dire lo stesso a livello internazionale?
“Temo di no. In Italia si arriva spesso con una trentina d’anni di ritardo rispetto alle altre federazioni. La prima cosa che mi viene in mente è la dimensione giovanile. Anni fa ero a Dortmund con la Nazionale, per i Campionati Collegiali, e ho trovato al poligono una scuola norvegese che dopo aver fatto studiare i ragazzi li portava lì ad allenarsi. Ai miei tempi rischiavo il linciaggio se chiedevo a scuola una giustificazione per fare una gara. Ci stiamo muovendo nella direzione giusta ma c’è davvero molta strada da fare. L’acqua è torbida ma abbiamo degli ottimi timonieri”.
Cosa consigli ai giovani che stanno muovendo i primi passi in questa disciplina?
“Di non perdere mai la passione, per nessuna ragione. Le difficoltà ci saranno sempre ma non si deve mai dimenticare perché si è deciso di farlo la prima volta. Quando resta viva la fiamma dentro è possibile davvero superare ogni ostacolo, anche quello che sembra impossibile. Nello sport e non solo”.
Obiettivi per il futuro?
“In questa fase della mia vita ragiono passo dopo passo. Il prossimo obiettivo sono i Mondiali di settembre 2018 in Corea del Sud, validi già per i Giochi di Tokyo 2020. Il 2017 lo considero un anno sabbatico in cui ho lavorato molto con la Federazione e ho seguito qualche giovane interessante ma mi sento ancora atleta a tempo pieno. Ho voglia di rimettermi in gioco al 100% e provare a migliorare in Giappone il risultato di Tokyo”.
Grazie e in bocca al lupo per tutto.
“Grazie a voi”.