[the_ad id=”10725″]
“A Rio senza paura”. Antonino Barillà è pronto. Il tiratore nato a Reggio Calabria il 28 novembre del 1987, medaglia d’argento al Mondiale di tiro a volo del 2014 a Granada, racconta nell’intervista esclusiva a Sportface.it come si sia avvicinato a questo sport, ripercorrendo le tappe della sua storia fino i risultati recenti e alla qualificazione per Rio. Eh sì, perché tra pochi giorni Barillà coronerà il sogno dell’Olimpiade: il calabrese parla del suo stato d’animo in vista dell’appuntamento clou della stagione: all’età di 28 anni, forte dei grandi risultati al Mondiale di Granada e a Baku, il ragazzo della Marina Militare è uno degli azzurri più attesi a Rio.
Come e grazie a chi ti sei avvicinato al tiro a volo?
“Circa 45 anni fa mio nonno fondò un campo da tiro amatoriale, quindi ho cominciato anche perché era una tradizione di famiglia. Piano piano ho provato a cimentarmi nelle gare nazionali e grazie alla mia famiglia e a mio padre che mi accompagnava quando non avevo il porto d’armi. Poi ho fatto tutta la gavetta con la Nazionale, fino alla carta olimpica conquistata nel 2014. Noi come squadra andremo lì senza aver paura ma rispettando tutti gli avversari, poi dei risultati parleremo alla fine delle gare”.
La passione per il tiro a volo è nata subito?
“Da piccolo ovviamente amavo il calcio, come quasi i tutti i bambini, sono tifoso della Reggina e anche della Juventus. Ma fondamentalmente ho sempre avuto la passione per il tiro. Il campo era a 100 metri da casa mia, quindi posso dire di essere nato a pane e fucilate. Per me l’avvicinamento a questo sport era quasi una cosa scontata. Da lì ho coltivato la mia passione giorno dopo giorno, anno dopo anno. Poter fare delle gare, mettermi in gioco, misurarmi con questa nuova realtà all’inizio per me è stato un gioco e una passione, ma con il tempo è diventato qualcosa di più”.
Hai ottenuto la carta olimpica molto presto, nel 2014, un tuo pensiero riguardo all’Olimpiade da lì fino ad oggi.
“Ci sono due visioni diverse. Da una parte, vincere la carta olimpica da outsider è stato bellissimo, perché mi ha dato più tranquillità. Vincere lì subito ti dà proprio tanta carica. Dall’altro, però, hai tanto tempo per dover dimostrare che vincere la carta non è stato un caso. È verissimo quando si dice che nello sport vincere è difficile, ma ripetersi lo è ancora di più. Perché è ancora più difficile rivincere con le aspettative di chi ti guarda da fuori. Però sono riuscito ad affrontare la cosa nel migliore dei modi: ho vinto l’anno dopo la Coppa del Mondo e la medaglia di bronzo ai Giochi Europei di Baku e poi ho ottenuto dei punteggi tra i più alti in Italia, quindi fortunatamente la preparazione e l’approccio mentale sono stati quelli giusti. Dopo la convocazione ufficiale è normale che il pensiero sia solo sull’Olimpiade e in tutto ciò che faccio, dagli allenamenti alle gare, il pensiero va lì. La cosa più importante è che nei primi due colpi il fucile non dovrà tremare, perché se pensi: Oh mio Dio, sono all’Olimpiade, secondo me, si perde già in partenza. Però ci sto lavorando su e spero di arrivare al meglio a Rio”.
Perché consiglieresti il tiro a volo a qualcuno?
“Erroneamente, spesso, si associa il tiro a volo all’arma, ma in realtà l’arma per noi è un attrezzo sportivo come può essere la racchetta per un tennista o la mazza per un golfista. Consiglierei questo sport perché ti mette delle responsabilità addosso, perché comunque – anche se per noi non è un’arma – quando vai in giro hai delle grosse responsabilità. Ma questo dal punto di vista umano ti aiuta a crescere. Paradossalmente, nel nostro sport non avvengono incidenti, perché anche se c’è un’arma da fuoco, sappiamo usarla bene”.
Ritornando al discorso della pressione, il fatto che la squadra sia competitiva e che in molti possiate ambire potenzialmente ad arrivare sul podio, potrebbe essere un vantaggio per alleggerire la pressione su un singolo?
“Anche se siamo in nove, siamo competitivi e faremo il tifo per ognuno di noi come Italia, il nostro sport si divide in discipline e quindi la pressione spesso si sente perché si riduce quasi sempre a due/tre atleti per disciplina”.