Amarcord

Helsinki 1952: tra Zatopek, Bud Spencer e la guerra fredda

Emil Zatopek

In Finlandia si corre. Si corre bene, si corre molto, si corre praticamente da sempre, e lo dimostra la presenza regolare di Helsinki nei calendari della stagione di atletica anno dopo anno, tra meeting e competizioni ufficiali, che siano esse di carattere continentale o mondiale.

In Finlandia si corre forse perché i suoi boschi infiniti riempiono i polmoni di salubrità e caricano le gambe della spinta che uomini determinati hanno di fronte a spazi percorribili di tale vastità. Più prosaicamente in Finlandia si corre perché da quando la capitale scandinava ospitò i Giochi della XV Olimpiade le strutture dell’atletica di Helsinki continuano a godere di ottima salute.

Proprio la qualità degli impianti fu fondamentale nel far convergere su Helsinki i voti del CIO e i risultati diedero quella volta ampiamente ragione agli organizzatori con un’edizione dei Giochi unanimemente ricordata come impeccabile sul piano della gestione.

E dire che di certo non erano anni facili con un mondo che a meno di dieci anni dalla fine del funesto conflitto mondiale doveva già prendere le misure al nuovo ordine geopolitico del pianeta con la guerra di Corea scoppiata due anni prima e il dualismo tra Stati Uniti e Unione Sovietica che entrava lentamente nel vivo. Helsinki fu addirittura una sorta di prova generale della guerra fredda con l’allestimento di villaggi olimpici separati per gli atleti del blocco atlantico da poco nato e quelli del patto di Varsavia ancora in nuce. L’Olimpiade fu anche teatro della complessa situazione tedesca con i brandelli del Reich ancora non costituitisi Stati ma che nei fatti si trovarono a gareggiare nei loro confini di territori occupati e militarizzati, portando così ad avere ai giochi due Germanie che non erano ancora quelle canoniche, ma solo l’embrione della poi Germania Ovest; la Germania Est non partecipò affatto. E inoltre fu la prima apparizione della Cina come repubblica popolare, la prima diserzione di Taipei come protesta alla presenza de “l’altra Cina”, la prima apparizione del difficoltoso Stato sorto in Palestina con intenti probabilmente nobili ma una genesi poco illuminata e a dir poco faticosa: Israele. A Helsinki sfilarono davvero le bandiere di un mondo totalmente nuovo.

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Ci sono corridori che sembrano volare, altri che sembrano danzare, altri pare stiano sfilando, altri ancora danno l’impressione di avanzare seduti sulle gambe. E ce ne sono che sembra solo stiano andando il più in fretta possibile dove qualcuno li ha appena chiamati. Emil non fa niente di tutto questo”. ‘Correre’, il bel libro dedicato da Jean Echenoz a quello che resta il più grande mezzofondista della storia dello sport, lo racconta così Emil Zatopek.

A Helsinki Zatopek vinse tutto. Lo davano per fuori forma, continuavano a ritenere impossibile quel suo modo di correre così insensatamente scoordinato, brutto, faticoso, sofferente, eppure come il calabrone del famoso adagio che vola nonostante sia scientificamente impossibile per lui volare, Zatopek correva e vinceva nonostante sembrasse impossibile. Andò via dalla Finlandia con un bottino d’oro che recava le effigi dei cinquemila metri, dei diecimila metri e della maratona, che in vita non aveva mai corso prima.

C’è da dire che il conto di Emil Zatopek con la Finlandia era aperto da tempo. Niente narrazioni da cannibali dello sport di oggi, nessun affronto da vendicare. In fondo lo Zatopek che ci hanno consegnato le cronache, di Helsinki e non solo, è un uomo mite, persino ingenuo a volte nel cadere nelle trappole dei giornalisti oltre che del partito socialista cecoslovacco che ne aveva fatto pedina della propria legittimazione internazionale. Il conto di Zatopek con la Finlandia era un conto di ammirazione, aperto a Oslo per la verità; ammirazione verso Viljo Heino, dimenticato fondista di Iitti – nel sud della Finlandia – che Zatopek aveva conosciuto come detentore del record del mondo sulla distanza dei diecimila metri proprio a Oslo durante i campionati europei di atletica del 1946. Heino era leggenda, meticolosa costruzione dell’atleta perfetto, silente profeta della corsa, solido come gli alberi delle sue foreste e altrettanto resistente. Ai Giochi della XV Olimpiade non partecipò, già lontano dal suo periodo d’oro, ma il suo erede cecoslovacco dallo stile sgraziato ci mise il giusto a conquistare l’amore di un popolo che ama chi corre.

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La giovane Repubblica italiana, quattro anni di vita e sei governi De Gasperi alle spalle, si presentò ai Giochi della XV Olimpiade relativamente male in arnese come solo un Paese uscito da vent’anni di fascismo, una sanguinosa guerra di liberazione e un travagliato cambio di ordinamento poteva essere. Restò il fatto che le tradizionali case delle medaglie azzurre –naturalmente la scherma e il ciclismo- portarono il Paese che attendeva il “boom” a un onorevolissimo quinto posto nel medagliere dell’Olimpiade finnica con un bottino in oro che contava ben otto medaglie.

Due di queste portarono la firma di Edoardo Mangiarotti, a Helsinki laureatosi campione olimpico nella specialità della spada sia in singolare che nella squadra di cui faceva parte anche il fratello Dario. Ai due ori aggiunse due argenti nel fioretto, ancora una volta nella gara individuale e in quella a squadre, componendo così il bottino che dopo Roma 1960 l’avrebbe portato a collezionare in carriera 13 medaglie olimpiche rendendolo ancora oggi l’atleta italiano più medagliato di sempre ai Giochi.

Anche un figlio della borghesia napoletana d’allora ebbe gloria a Helsinki sebbene non fosse arrivata per lui nessuna medaglia e sebbene i risultati più importanti in carriera costui li abbia poi ottenuti lontani dalle vasche. Carlo Pedersoli, da tesserato della S.S. Lazio Nuoto, nel 1952 si era già tolto più di qualche soddisfazione a livello sportivo. Possente centometrista e staffettista, fu il primo italiano a nuotare in meno di un minuto i cento metri stile libero. Proprio quella gara gli valse una convocazione per i Giochi della XV Olimpiade dove raggiunse “solo” le semifinali perdendo l’occasione di cimentarsi con i più grandi in assoluto. Pedersoli avrebbe partecipato anche ai Giochi successivi, quelli di Melbourne 1956, ottenendo il medesimo risultato. Da lì in poi avrebbe pian piano abbandonato la carriera sportiva per dedicarsi a quella nel cinema dove aveva già racimolato più di qualche particina. Era destinato a diventare Bud Spencer, protagonista di innumerevoli spaghetti-western e film più o meno riusciti in coppia con quel tale che oggi, vestito da prete, emoziona il pacato pubblico di RaiUno.

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La Repubblica Popolare d’Ungheria tre anni dopo quei Giochi sarebbe stata assieme artefice e vittima della grande repressione sovietica contro un tentativo di rivendicare diritti di democrazia e libertà che ancora oggi si ricorda con una vena di doloroso rispetto, ma quell’anno lì a Helsinki quello dei magiari fu un Paese protagonista assoluto sul piano sportivo con 42 medaglie conquistate e dietro solo ai giganteschi –per potenziale umano, tecnico ed economico- Stati Uniti e Unione Sovietica.

Delle innumerevoli medaglie di quell’Ungheria sorprendente piace, e forse è doveroso ricordare, quella ottenuta nello sport tradizionalmente meno olimpico agli occhi degli appassionati. Furono undici arrembanti maestri del pallone di cuoio capitanati da Sua Maestà Ferenc Puskas a portare a Budapest una delle 16 medaglie d’oro conquistate dall’Ungheria ai Giochi di Helsinki. Come gli oranje di Crujiff ventisei anni dopo, anche dell’Ungheria di Puskas si disse e si continua a dire che avrebbe meritato di alzare la Coppa Rimet, quella che nel calcio conta(va) davvero sopra ogni cosa. Si sa invece che, due anni dopo, a Berna quella gioia fu tolta ai grandi magiari dalla Germania dell’Ovest dopo una partita entrata nella storia delle beffe sportive e a glorificare la potenza di quell’undici talentuoso oltre i confini continentali restò il riconoscimento olimpico conquistato ai Giochi di Helsinki nel 1952. Una consolazione forse al ribasso, un titolo che apparentemente sa di poco, uno dei pochi casi in cui la gioia olimpica non è la vetta più alta. All’Ungheria del calcio nel 1952 è capitato questo, solo che non lo sapevano ancora.

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