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“Mi porti in valigia con te?”, “Mammamia quanto ti invidio”, “Mandami foto e video da lì, mi raccomando”. In effetti l’avventura si presentava come qualcosa di straordinario. Venticinque anni di vita, di cui otto di carriera giornalistica, e il primo pass olimpico. I direttori di Sportface mi hanno scelto come inviato all’Olimpiade di Tokyo, spostata dal 2020 al 2021 causa pandemia. Uno di quei casi, e a me ne sono successi tanti, in cui il Covid lo “ringrazi” per la possibilità che indirettamente ti ha fatto arrivare, anziché concentrarti sui suoi molteplici aspetti drammatici.
DAY 0 – Quindi, dopo mesi di trepidante attesa in cui il pensiero del Giappone era vivo in tutto ciò che facevo dalla mattina alla mattina dopo, sabato 17 luglio è il giorno della partenza. La valigia, come mio solito, è pesante e ingombrante, ma la speranza è che, oltre ai vestiti, i controlli dell’aeroporto di Roma-Fiumicino lascino passare anche l’emozione della “prima volta” che porto con me.
Al terminal 3 si respira (con mascherina) già aria olimpica. Quasi tutti con tute e zaini della Nazionale, e poi ci siamo noi, che le maglie griffate per lavorare le abbiamo ordinatamente disposte nel trolley sapendo che prima del terzo giorno in terra nipponica, primo di gare, non avremo motivo di indossarle. Compriamo la Settimana Enigmistica (e una matita al comodo prezzo di 3.50€), salutiamo gente, conosciamo gente, controlliamo che la app Ocha, indispensabile per entrare in Giappone, si sia sbloccata, ma niente da fare. File su file, controlli su controlli e poi, finalmente, dopo 3 ore è il momento di salire a bordo.
L’aereo non è male, o almeno così la penso fino al momento in cui il simpatico signore seduto davanti a me decide di sdraiarsi, entrandomi di prepotenza sulle ginocchia e rischiando di spezzare il Mac a cui stavo ingenuamente lavorando sperando di poter montare quattro video nel corso del lungo viaggio. Provo ad adeguarmi, sdraiandomi anch’io vedendo libero il posto alle mie spalle, e accendendo lo schermo del sedile, che propone giochi e film, tra i quali quelli italiani che piacciono a me. Dopo aver visto 2 ore di Stefano Accorsi ed Edoardo Leo nell’insolito ruolo di coppia omosessuale, provo a dormire nonostante il mal di schiena, il russare aggressivo di un signore non lontano da me e l’oggettiva scomodità della situazione.
Sul volo ci sono gli atleti e le squadre che avete letto in quei giorni, per fortuna tutti con la mascherina e nel settore dell’aereo avanti e dietro il mio. Simpatico il siparietto a distanza con una delle stelle dell’Italbasket: lui in piedi a chiacchierare con un compagno (impossibile per quei giganti stare su quelle poltrone per più di 2 ore consecutive), io e il mio direttore nei bagni uno di fronte all’altro. Dopo circa 40 secondi netti, usciamo entrambi nello stesso istante. “E la madonna! Sincronizzati!” se la ride da lontano il cestista. E ce la ridiamo noi tornando a sedere.
Resistendo al classico freddo polare da volo, mangiando ravioli al pomodoro e facendo fatica a comprendere come un gioco che “richiede molta riflessione” sia “in grado di calmarti” come recita lo schermo del sedile, le 12 interminabili ore di viaggio finiscono e intorno a mezzogiorno ora locale siamo a Tokyo.
Avete presente Takeshi’s Castle? La situazione allo sbarco è più o meno quella: mille prove da superare con la consapevolezza che arrivare al traguardo sia pressoché impossibile. Dimenticando l’esistenza dei bagagli da ritirare (“chissà quando ci arriveremo”) iniziamo l’iter per entrare a tutti gli effetti in Giappone. Ad ogni step ci chiedono più o meno gli stessi documenti, tra referti dei due tamponi molecolari fatti nelle 96 ore precedenti alla partenza, passaporto, accredito olimpico e via dicendo. A un certo punto io, ingenuamente, mostro anche il Green Pass che certifica che il 9 giugno 2021 mi sono vaccinato (Johnson&Johnson), ma non interessa loro.
Dopo 2 ore, giungiamo alla sala adibita per i test Covid. “Una formalità” penso. A differenza dell’Italia, qui si fa il test salivare, che consiste nello sputare circa 3 volte in una provetta fino a raggiungere la soglia indicata da una linea rossa. Eseguo, consegno e mi incammino verso i controlli successivi. Dietro di me inizio a vedere atleti di altri Paesi, tra i quali la due volte vincitrice di Wimbledon, la ceca Petra Kvitova, anch’essa dallo sguardo rassegnato per la pesantezza della situazione.
A questo punto il protocollo prevede di sedersi in una grande sala d’attesa aspettando l’esito del test salivare. Sarà la mia ultima tappa. I numeri di matricola scorrono, ma il mio viene saltato. Non solo il mio, ma alla fine, dopo circa 2 ore, rimaniamo più o meno in 7 in sala. Chiedo spiegazioni, mi viene risposto per tre volte “I’m sorry, you have to wait”. Figurati se sono positivo. Vaccinato, negativo a due tamponi molecolari prima di partire, in piena salute (al di là degli acciacchi fisici dovuti a 12 ore di volo). Figurati.
Stordito e contrariato, chiedo di poter andare in bagno. Vado, e una volta uscito dalla toilette mi viene incontro un signore mai visto prima. Mi mostra un foglio. È il referto del test: “Sir, you have tested positive”. Non capisco. Inizio a chiedere di poter ripetere il test. Deve esserci un errore, sarò il classico falso positivo. Mi fanno sedere in attesa del medico dell’aeroporto. Il medico arriva e mi accompagna nell’ala sanitaria della struttura. Qui ci confrontiamo, ma la dottoressa non vuole sentire ragioni. Non posso sottopormi ad un altro test perché la mia saliva è stata analizzata 3 volte, una delle quali con test PCR. A grandi linee, questa è la spiegazione. Mi fanno compilare l’ennesimo modulo della giornata e chiamano la navetta che mi porterà nel cosiddetto hotel dei positivi. Il prossimo test? Tra 6 giorni. Mi crolla il mondo addosso.
È il momento più brutto, l’attimo in cui prendi violentemente coscienza che il sogno più bello si sia rapidamente trasformato in un incubo che non augureresti neanche al peggior nemico. “La mia Olimpiade è finita prima di cominciare” mi ripeto, tra la disperazione e la paura dell’isolamento, esperienza che sin qui, in un anno e mezzo di pandemia, ero riuscito miracolosamente ad evitare nonostante i tanti viaggi di lavoro.
Arriva la navetta e per la prima volta mi trovo nella condizione dell’“appestato”: le persone mi guardano male, mi vogliono lontano. Persino nel caricare i bagagli in macchina (fortunatamente la mia valigia mi è stata subito consegnata una volta appurata la positività), gli inservienti mi negano alcuni passaggi. Sono identificato come soggetto pericoloso, non posso avvicinarmi a nessuno. Durante i 45 minuti di viaggio dall’aeroporto all’hotel, chiamo mamma e papà (quest’ultimo medico) per spiegargli il dramma. E chiamo i miei direttori, mortificato per i disagi creati. Sono asintomatico, fa male per l’occasione che sto perdendo. La prima Olimpiade, la prima trasferta fuori dall’Europa, la prima di tante cose.
Arrivo in hotel e, sempre trattato da untore, compilo moduli e guardo un tutorial su come dovermi comportare in camera, dalla quale non posso uscire fino al tampone del sesto giorno. Provo a sollevarmi: “Devo starci a lungo, mi daranno una camera grande e accogliente”. Allego la camera.
Scioccato, respiro profondamente e accendo il computer. Devo avvertire i miei amici e le persone con cui sono stato a contatto negli ultimi giorni. In Italia è ora di pranzo, mentre qui mi portano una cena tanto imbarazzante quanto emblematica di ciò che mi sarebbe spettato di lì in poi. Tutti quelli a cui scrivo mi fanno sentire la loro vicinanza e il loro rispetto, non era scontato. Hanno paura che li abbia contagiati nonostante i tamponi negativi di 2 e 3 giorni fa, ma più di tutto si dimostrano dispiaciuti per la mia situazione, consci di quanto io attendessi l’Olimpiade con entusiasmo. Mangio poco, scrivo tanto, le cose non si mettono bene. Mi sta venendo la febbre.
Ho la tachipirina, che da Roma papà mi suggerisce di prendere prima di affrontare la nottata, la prima nottata. È un incubo. La finestra si apre non più di 8 centimetri, l’aria condizionata spara soffi molto simili ai venti siberiani (non che sia mai stato in Siberia, ma immagino quel che si dice sia vero) e la febbre non scende. Nel girarmi e rigirarmi sulle lenzuola penso, penso tanto. Penso a quanto sia stato st***o a dire per mesi ai miei amici “Non chiamatemi per calcetto e calciotto, non voglio prendere il virus prima di Tokyo” e poi l’ho preso. Penso anche ai direttori. Ale Nizegorodcew, un secondo papà per me, che era carico per quest’ultima avventura prima di diventare papà a settembre (magari proprio il 10, giorno del mio compleanno). Daniele Palizzotto, per tutti Paliz, che sta per partire da Roma e papà già lo è, e ci ha messo 10 secondi a dimostrarmelo al telefono, preoccupato per la mia salute e non per tutti i casini che la situazione ha creato e creerà. Sono triste, depresso, non dormo, sto male.
DAY 1 – La mattina la sveglia dell’hotel suona alle 7.30: bisogna misurare febbre e saturazione, segnare i dati a penna su una griglia e compilare un form online con le stesse misurazioni. Nel frattempo sulla sedia davanti la porta della camera hanno lasciato la colazione (vi risparmio foto). Mangio, prendo un’altra tachipirina e, ambientatomi per inerzia all’insopportabile temperatura della stanza, in preda alla stanchezza più totale crollo nel sonno dalle 10 alle 15.
Una volta in piedi, con la febbre parzialmente scesa, inizia a tutti gli effetti la quarantena. Cosa faccio per almeno 6 giorni? Di allenarmi fisicamente non ho le forze, e anche a provarci gli spazi sono troppo ridotti. Sarà un problema trovare il modo di camminare un po’, ma ci penseremo quando le energie saranno tornate. La tv è in giapponese, ma anche a casa non l’ho mai guardata. Di disfare le valigie non se ne parla: non c’è un armadio, ho 3 stampelle a disposizione e per le valigie stesse non esiste una sistemazione idonea. Alle 16 c’è una video call tra i giornalisti e l’ambasciata italiana di Tokyo, vediamo. Dopo i monologhi delle autorità, un collega di Sky fa una domanda su di me. La voce si è sparsa, soprattutto tra gli inviati a Tokyo, ma sinora nessuno ha reso pubblica la vicenda. L’ambasciatore risponde spiegando la mia situazione e definendomi “lievemente sintomatico” e dopo pochi minuti la bomba esplode: sono su tutte le tv, i giornali, i siti web, i social network. Nessuno fa il mio nome (alcuni avrebbero voluto) ma il “giornalista italiano positivo a Tokyo” si prende tutte le prime pagine nostrane.
La notizia rimbalza e un’ondata di affetto si scatena sul mio iPhone. Mi scrivono tanti amici per darmi forza, mi propongono videochiamate per farmi passare il tempo, mi consigliano film da vedere e libri da leggere online. C’è chi prova ad immedesimarsi in me, chi mi chiede se “quello sui giornali” sia davvero io e chi ha curiosità sulla quarantena. In un momento così delicato, ricevere messaggi di un certo tipo fa piacere e ti fa accorgere di poter contare anche su chi non consideravi affatto un amico.
Prendo coraggio e inizio a rendere produttivo l’isolamento. Scrivo questo diario, che in origine sarebbe dovuto essere un più comune diario di bordo dall’Olimpiade, e provo a concentrarmi sulle realtà di cui gestisco quotidianamente la comunicazione in patria. Così mi trovo a seguire il terzo set di Federica Di Sarra contro Irina Bara a Gdynia, prima volta per l’azzurra nel tabellone principale di un torneo WTA, riporto i vincitori dei campionati regionali a squadre del Lazio e pubblico i campioni degli ultimi tornei di padel organizzati in Italia. Ma la febbre risale, tocca mettersi a letto, riprendere la tachipirina e provare a dormire.
DAY 2 – La dolcezza delle persone non è sufficiente a farmi trascorrere una notte dignitosa, tanto che alle 7.30 il termometro dice 38.7. Dalla hall, vedendo la temperatura segnata online, mi chiamano preoccupati, ma tachipirina e colazione (quanto mi manca quella italiana solo il buon Dio lo sa) fanno il loro dovere e la febbre sparisce. Sento l’ambasciata, sempre presente nel momento del bisogno dall’annuncio della positività, che mi rassicura ed entra in contatto con l’hotel. In camera (o meglio, sempre sulla sedia fuori la camera) mi hanno portato una medicina di dubbia identità. “Medicine for fever” c’è scritto prima di qualcosa di non interpretabile in giapponese. Dall’ambasciata mi dicono sia paracetamolo: quando finirà la tachipirina (tra molto poco), mi affiderò a quello. Intanto scrivo queste righe, che quando lo schermo del computer non mi dà fastidio sono il miglior sfogo possibile per non rallentare eccessivamente lo scorrere dei secondi di questa improvvisa vita da ostaggio.
Facendo il triste gioco del cercare la metà piena del bicchiere, penso agli unici più sfortunati di me, l’unica categoria che vive davvero l’assenza ai Giochi come un dramma più o meno irreparabile: gli atleti. Tra positivi last minute e infortunati, la lista è lunga, in Italia e nel mondo. Ed egoisticamente (sorry, Mat) prendo bene il forfait di Matteo Berrettini, che immagino disperato pensando alle grosse chance che avrebbe avuto di conquistare una medaglia: mi sarebbe dispiaciuto restare chiuso in questa cella a pochi chilometri da lui, senza la possibilità di scambiare almeno due chiacchiere a Casa Italia.
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Preso da un attacco di patriottismo, decido di dedicare la serata (e che serate amici) alla visione di “Sogno Azzurro – La Strada per Wembley”. Tutti parlano bene del docu-film mandato in onda dalla RAI dopo il trionfo della Nazionale di Roberto Mancini all’Europeo, ma non ho ancora avuto modo di apprezzarlo. E ad apprezzarlo ci metto più o meno 3 minuti: strepitosa la scelta di far rivivere gli ultimi due rigori della finale tra Italia e Inghilterra dalla “non-prospettiva” di Gianluca Vialli, che non avendo il coraggio di guardare i tiri dal dischetto si isola alle spalle del gruppone azzurro. Sembrerà una frase fatta, ma le imprese della Nazionale e il modo in cui i giocatori hanno vissuto il torneo mi dà forza. Non eravamo i favoriti per il titolo, ma di prepotenza e determinazione abbiamo steso tutti raggiungendo l’obiettivo. Non esistono missioni impossibili, ma di certo smettere di lottare nelle difficoltà non può essere la soluzione. Andiamo a dormire va.
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Il film che racconta la vittoriosa cavalcata degli #Azzurri a #EURO2020
Stasera alle 20.30 su #Rai1 e #RaiPlay @RaiUno @RaiPlay #Nazionale #VivoAzzurro pic.twitter.com/H9gKgkXXOr
— Nazionale Italiana ⭐️⭐️⭐️⭐️ (@Azzurri) July 15, 2021
DAY 3 – È il giorno dell’inizio dell’Olimpiade, ma io, che una volta ero un atleta, non avrei le forze neanche per assistere da spettatore a una gara di sollevamento pesi sorseggiando una chiara media. Non c’è modo di far passare la febbre, così, dopo un check telefonico con l’ambasciata e uno con la hall dell’albergo, mi vedo costretto a buttar giù le tre compresse di paracetamolo fornitemi dall’hotel stesso. Da Roma il mio migliore amico, che nella chat di Instagram mi manda decine di post per strapparmi un sorriso, mi scrive: “Perché sei sveglio alle 8.30 se l’unica cosa che puoi fare è dormire?”. Gli ricordo la sveglia delle 7.30 del famigerato albergo dei positivi, e oggi, a differenza dei giorni passati, posso essere un minimo produttivo dalle 9. Dall’Italia Matteo Di Gangi, coordinatore di Sportface, oltre a starmi vicino h24 chiedendomi come vada, mi vuole coinvolgere nel lavoro redazionale che i ragazzi in Italia svolgono in piena notte, lui compreso. Per farmi sentire vivo e per farmi affrontare in un modo dignitoso l’Olimpiade che sognavo di cavalcare da protagonista fuori dai terreni di gioco.
Il match di softball femminile tra Giappone e Australia apre i Giochi. Impossibilitato nel seguirlo in streaming, do fiducia alla televisione locale della mia camera, che mai avevo avuto il coraggio di accendere prima se non per leggere la password del wi-fi. Scopro lo sport “cugino” del baseball e scopro la numero 16 nipponica, tale Yamato Fujita, che spara un home run devastante e spalanca le porte del successo alle padrone di casa, nettamente superiori alle confuse avversarie. I colleghi dell’emittente del Paese ospitante sorridono compiaciuti nel postpartita, ma non chiedetemi di più: l’obiettivo dichiarato è porre fine a questo incubo di quarantena, non imparare il giapponese.
Quando le cose non girano, però, non girano. Il primo appuntamento degno di nota (anche se in questa situazione, ve lo assicuro, è tutto degno di nota) è la sfida tra Italia e Stati Uniti, sempre di softball femminile, che segna l’inizio dell’avventura olimpica per il tricolore. Mi “apparecchio” tra computer e telefono per assistere all’incontro in modo più attivo possibile, mancano pochi minuti. Niente, non posso guardarlo. Streaming assenti e, piuttosto che le azzurre, la tv del Sol Levante trasmette un curioso match di baseball tra squadre locali. Andrò di live scritto, che tristezza.
Mentre decido che nel corso della giornata spenderò un jolly temporale sistemandomi la barba, la suoneria dell’iPhone mi ricorda che stanno arrivando le ore più belle della giornata, quelle in cui mi sento meno solo. In Italia sorge il sole e, piano piano, famiglia e amici si svegliano e rispondono ai miei ultimi messaggi inviati durante la notte occidentale. Altri mi chiedono aggiornamenti di loro iniziativa. Sarò ripetitivo, ma non mi aspettavo tanto affetto.
Tra messaggi, videochiamate e check di temperatura e saturazione, iniziano i match di calcio femminile. Uno è in tv, Gran Bretagna-Cile. E c’è subito del grottesco. Intorno al 55’ una giocatrice britannica calcia da fuori, il portiere sudamericano para e, sulla ribattuta, il centravanti UK tenta il tap-in ma viene intralciata da un’avversaria. L’arbitra va a rivedere l’episodio al VAR, ma non si limita ad analizzare il contatto tra atlete come accade in Italia. L’arbitra guarda la possibile posizione di fuorigioco dell’attaccante al momento della conclusione della compagna. La regia entra con lo zoom, e il braccio del difensore del Cile tiene tutti in gioco. La direttrice di gara si volta verso il campo, mima il solito gesto del VAR e assegna offside. Incredibile. Che poi il fuorigioco non era un’infrazione oggettiva che non compete all’arbitro? Nel dubbio, Direttor Nize guarda la partita nel suo hotel e mi scrive la sua impeccabile analisi: “La Gran Bretagna femminile è uguale all’Inghilterra maschile. Sponda di Kane e Sterling si butta nello spazio”. It’s coming home.
.@ellsbells89 @stephhoughton2 #TeamGB pic.twitter.com/fYhO23ltvK
— Team GB (@TeamGB) July 21, 2021
Uno degli aspetti peggiori dell’isolamento in hotel è l’impossibilità di far pulire la stanza. Dalla parte “sana” della stampa, mi giunge voce che in realtà anche a chi non ha alcun problema di salute le pulizie vengano effettuate circa due volte a settimana: non proprio ciò a cui siamo abituati in Italia, soprattutto per un rompipalle preciso e puntiglioso come il sottoscritto. Da me, comunque, non entrerebbero neanche in cambio di un bonifico a 3 zeri. Sul letto c’è una pila di asciugamani puliti da poter utilizzare in cambio di quelli in bagno. Polvere in camera non ne vedo, infatti starnutisco molto poco rispetto alle performance a cui so dar spazio quando mi impegno. Allora, la necessità di liberarmi di un po’ di rifiuti mi porta a sistemare un po’ la mia cella. Sciacquo la vasca, cambio due asciugamani, metto in ordine qualche aggeggio qua e là. Poi metto nello zaino oggetti tirati fuori istintivamente appena arrivato che in realtà userei solo nella vita normale che facevo prima di questo incubo, butto un paio di medicine scadute, riavvolgo un caricabatterie. Stop. La camera è 3 metri x 3. Non prendiamoci in giro. Cinque minuti per fare tutto ed è finita. Non se ne esce. In tutti i sensi.
DAY 4 – Oggi, per certi versi, è il giorno più brutto. Magari l’ho già scritto in uno dei 5 fogli di Word precedenti, ma penso capirete e comprenderete. Ho provato per la prima volta ad addormentarmi senza l’ausilio del paracetamolo: missione compiuta, ma stamattina ho nuovamente 37.5 e una sensazione di malanno fisico e mentale forse mai provata sin qui. Dall’ambasciata mi chiama il console Marco Lattanzi per il check quotidiano, in cui non ci scambiamo grandi info, ma quantomeno rappresenta per me un’ancora. Ascoltare una voce amica e affidabile mi dà conforto. La medicina, alla quale mi vedo costretto a ricorrere, fa scendere la febbre come da copione, eppure? Eppure mi travolge una comprensibile ondata di depressione. Doveva essere l’avventura più bella, sto sdraiato trasversale sul letto a fissare il vuoto mentre la tv mostra gli highlights di Giappone-Australia di softball femminile in attesa dell’inizio di Giappone-Messico. E neanche mi sono ricordato di chiamare ieri mamma, che adesso dorme. In Italia è notte fonda. Quanto darei per stare a casa anziché in galera.
Contro ogni pronostico, intorno all’ora di pranzo iniziano ad arrivarmi svariati compiti tra articoli da fare, interviste da sbobinare, video da caricare e live da aggiornare. Sono stati sorteggiati i tabelloni di tennis, e se da una parte mi ci posso dedicare, dall’altra mi piange il cuore all’idea che il torneo comincerà e io che potrei essere uno dei pochissimi spettatori e sostenitori degli azzurri (è tutto a porte chiuse vi ricordo) sarò invece bloccato qui. Macino al computer, ricarico il telefono, con la coda dell’occhio guardo in tv le partite di calcio (è iniziato quello maschile) e mentre tutti i giornalisti italiani tranne me sono all’inaugurazione di Casa Italia con il presidente del CONI Giovanni Malagò, rimango interdetto davanti ad un calcio di rigore. Messico-Francia, minuto 69, parziale di 2-0 in favore degli americani. Sul dischetto André-Pierre Gignac, nato a Martigues il 5 dicembre 1985. Di fronte a lui Guillermo Ochoa, nato a Guadalajara il 13 luglio 1985. Fuoriquota, chiaro, ma una volta alle Olimpiadi non giocavano le nazionali under?
Mi prendo tre minuti per riposare gli occhi dagli schermi e mi sdraio sul letto (4 giorni a fare la spola tra sedia e letto, potrei proporla come disciplina olimpica per Parigi 2024) ad ascoltare le note audio ricevute nelle ultime ore da amici e colleghi. La più bella merita senza dubbio di essere citata. Me la manda un giornalista dall’Italia: “Avevo più o meno l’età tua quando mi coinvolsero nell’organizzazione dell’Olimpiade Invernale di Torino 2006. Per un grande appassionato di sport invernali come me, un sogno. Sarà stato per l’ansia, ma la settimana prima dei Giochi mi rendo conto di essere claustrofobico. Dovevo comunicarlo ai capi, che tra l’altro erano stranieri: stavo segnando la fine della mia Olimpiade. Sai come è andata, invece? Mi hanno ‘allargato’ il pass, permettendomi di andare ovunque anziché nei luoghi chiusi. Praticamente ho visto tutte le gare dalla panchina a bordo pista. Non mollare, a volte quando si chiude una porta si apre un portone”.
Poche ore più tardi, dopo una cena impresentabile di cui vi risparmio documentazione fotografica, l’upgrade dalle note audio alla videochiamata: altri 3 miei amici “storici” (uno dei quali in attesa di svolgere un esame universitario) vogliono vedere in che condizioni stia vegetando e vogliono assistere in diretta alla cerimonia della misurazione della febbre, che ieri gli ho mandato come video. La sentenza è 37.2: la accetto di buon grado, va bene tutto ciò che non è eccessivamente vicino a 38. Ovviamente la conversazione dilaga su più temi, ma prima di attaccare mi obbligano a leggere un estratto del diario di bordo che continuo ad infoltire e chissà per quanto tempo ancora continuerò ad infoltire. Mostrando loro la camera, mi rendo conto che sin qui non mi sono mai messo a guardare fuori dalla finestra. Guardo. Non c’è niente di interessante o di tipicamente asiatico. Solo un parcheggio, altri hotel, strade e palazzi. Ciao.
DAY 5 – Anche oggi gira tutto al contrario. È la giornata della cerimonia inaugurale dei Giochi, ma qui dentro si celebra con il rinvio del mio Covid test. Il primo appuntamento decisivo per il delineamento del mio destino viene spostato da domani a dopodomani, perché secondo lo staff sanitario dell’hotel ho ancora sintomi (il termometro dice 37). Quando, interdetto, chiedo a quanti gradi secondo loro vada considerata febbre, al telefono l’infermiera inizia a balbettare e prova a cambiare discorso ripetendo cose già dette. Se c’è una nozione che tutta questa storia mi ha insegnato, è che non ha senso provare a mettersi contro la burocrazia giapponese e chi la fa rispettare. Lungi da me definirlo un popolo limitato (chi ha detto limitato? Io non l’ho detto), ma diciamo che quanto a rigidità ci sono pochi popoli nel mondo che possono reggere il confronto. Non mi resta che consolarmi con uno straordinario toast per colazione.
La doccia, entusiasmante appuntamento fisso di metà mattinata, mi costringe come ogni giorno ad allagare più o meno tutto il bagno, il più piccolo in cui sia mai stato. E se non ci fosse il muro a dividere la toilette, probabilmente gli schizzi finirebbero fuori dalla finestra. È il giorno più caldo, ma l’aria condizionata non riesco davvero a regolarla, giuro. Seguo le gare di cannottaggio (Italia bene) e tiro con l’arco (Italia non così bene) e mi si formano le classiche goccioline di sudore post doccia, quelle che più le asciughi più si rigenerano. Piano piano mi torna il sonno, normale considerando che stando al telefono fino quasi alle 2 di notte ho dormito meno di 6 ore. Forse oggi potrei dormire, che le gare finiscono presto per permettere agli atleti e agli addetti ai lavori (a parte quelli in isolamento, ahimé) di prepararsi alla cerimonia serale. Detto fatto. Al mio risveglio noto che il direttore si è lanciato con uno dei nuovi contenuti che Twitter permette di pubblicare, i mini podcast. Parla della gara di ranking round di tiro con l’arco femminile. Sentiamo va.
Il commento del direttore @Alenize82 da #Tokyo2020 dopo il #rankinground femminile di #Arco.#Olympics #giochiolimpici #ItaliaTeam @FitarcoItalia pic.twitter.com/asBJ3aRdWV
— Sportface (@sportface2016) July 23, 2021
Con sorprendente rapidità, arriva il momento della cerimonia d’apertura dell’Olimpiade. La regia della tv giapponese parte con una malinconica panoramica delle tribune dello Stadio Olimpico di Tokyo, desolate ad eccezione dei piccoli settori occupati da autorità e giornalisti (sospiro di depressione, l’avete sentito?). Dopo le classiche esibizioni artistico-scenografiche, iniziano a sfilare le nazionali, e anche quest’anno è uno show. Le divise imbarazzanti e caratterizzanti di Paesi di cui almeno il 77% di noi non conosceva l’esistenza colorano l’emozione dipinta sul volto di ragazzi e ragazze, che se le mascherine provano a nascondere, gli occhi sparano inconfondibilmente. È tutto limitato, lo sappiamo, ma è tutto molto bello, compresa la schizofrenia di alcuni azzurri che sfilando si avvicinano alle telecamere sventolando sgraziatamente le bandierine tricolore. Sfilano in tanti, sfilano tutti. Forse prima di spegnere la luce me la faccio pure io una sfilatina, tra le variopinte sedie dei malati poste all’ingresso delle stanze del corridoio del nono piano.
“Inizia il delirio” scrive Mat Di Gangi dall’Italia. È il primo “vero” giorno di Giochi, con gare e incontri di sport che si intrecciano e tengono sveglio il popolo azzurro in patria. Qui chiaramente è mattina, e prima che si aprano le danze Alessandro mi dà la notizia peggiore di tutte: l’hanno messo in quarantena per 14 giorni. Era quello che temevo di più. Nonostante il primo via libera, grazie al quale avrebbe potuto lavorare (ma non lo ha fatto, auto isolandosi) in giro i primi 4 giorni sottoponendosi al tampone ogni mattina, il governo giapponese ha stabilito che lui, essendo l’unico mio contatto stretto in viaggio, sia potenzialmente pericoloso per la salute degli altri. Vaccinato (con doppia dose di Moderna a differenza del mio mono Johnson), senza alcun sintomo e negativissimo, come certificano i test di questi giorni. Ciò significa che quando uscirò, e in teoria non manca troppo considerando l’assenza di febbre e di altri sintomi, non potrò contare su di lui in giro per Tokyo. Malissimissimo.
Ma non finisce qui. “A seguito dell’accertata positività al Covid-19 di un giornalista italiano, riscontrata lo scorso 18 luglio, questa mattina il Governo giapponese, attraverso il Comitato Organizzatore dei Giochi Olimpici, ha informato il CONI di aver dichiarato ‘close contacts’ 13 persone (6 atleti e 7 officials). Gli atleti sono alcuni rappresentanti delle delegazioni del pugilato, dei tuffi e dello skateboard”. Il comunicato ufficiale del CONI mi ammazza emotivamente. Anche gli atleti sono stati limitati. Per fortuna limitati e non rinchiusi, perché la nota spiega anche che pugili, tuffatori e skater potranno continuare ad allenarsi e potranno gareggiare, rispettando alcune restrizioni. Sono a terra. L’unico modo per non pensarci è lavorare, e in quello oggi non c’è modo di fermarsi. Volley-canottaggio-tennis-taekwondo-judo-basket-ciclismo-boxe-ginnasticaartistica-nuoto e a gestire il resto da Tokyo ci pensa Ale, dal suo hotel. Ho finito l’acqua, la chiedo al telefono. Mi rispondono di andarla a prendere da solo davanti l’ascensore. Questo significa una sola cosa: posso camminare. Non cammino per più di 3 metri consecutivi da 6 giorni. 6 maledetti giorni. Voglio godermela la prima passeggiata della settimana, voglio farla in boxer e mascherina perché tanto non può uscire nessuno dal rispettivo sgabuzzino. In questo completino rivisitato da supereroe apro la porta della camera e affronto il rettilineo del corridoio. Non si sente un rumore. Forse oltre ai positivi c’è anche qualche cadavere serrato. Cammino, ma dopo 5 passi quasi mi gira la testa. Gambe, corpo e testa non sono più abituate a tanto movimento. Ma quando ricomincerò a vivere, fino a quando li sentirò i postumi del Covid?
Tornato, purtroppo, nella tana, riparte la giostra olimpica, e l’Italia va. Madonnina se va. Tra batterie superate e pass staccati per semifinali e finali, arriva la prima medaglia (argento di Gigi Samele nella sciabola) e poi, proprio tra quelle che racconto io su diverse piattaforme di Sportface, il primo oro. Vito Dell’Aquila trionfa nella categoria -58 kg del taekwondo, che fino al giorno in cui mi hanno comunicato di dover volare a Tokyo consideravo solo “l’altro sport di Zlatan Ibrahimovic”. Lo vedi negli occhi di Vito cosa significa un oro olimpico. Sono emozionato per lui. Ci sto tanto dentro che per qualche minuto mi eclisso e dimentico la roba che sto vivendo da una settimana. Siamo forti. D’oro.
Prima medaglia d’oro per l’#Italia ai #GiochiOlimpici di #Tokyo2020
Dopo un percorso entusiasmante Vito #DellAquila batte in finale Mohamed #Jendoubi e trionfa nel #taekwondo -58 kg #Olympics #ItaliaTeam@taekwondofita pic.twitter.com/SAy1iEhxm9
— Sportface (@sportface2016) July 24, 2021
DAY 6 – Voce giapponese, voce inglese. Mi sveglio così tutte le mattine alle 7.30. Dalla cassa della camera parte il “buongiorno” (raramente termine fu più fuori luogo) in cui una segreteria ti avverte che stanno preparando la tua colazione (rileggi ultima parentesi). Ti chiedono di restare chiuso in camera per non entrare a contatto con gli inservienti e ti raccomandano di misurare temperatura e saturazione corporea per compilare il form online e segnalare le tue condizioni allo staff sanitario dell’hotel. L’hotel dei positivi. I messaggi audio che sparano in tutte le stanze sono circa 5 al giorno, e oramai per me è come quando ritiri il resto e, mentre rimetti la prima, la voce del casello autostradale ti dice “Arrivederci”: come fai a non mandarla a quel paese?
Non è un giorno banale, però. È il giorno del mio primo test salivare per vedere se il Covid è ancora dentro di me o sono diventato negativo. Le persone hanno talmente paura di avvicinarsi a noi malati che il kit per il test me lo mandano in camera insieme alla busta della colazione: devo aprire la provetta, estrarre una cannuccia la cui utilità mi è oscura, sputarci la saliva sino a un tot indicato, richiudere e mettere tutto fuori dalla porta in attesa che passino a ritirarla. Analizzeranno e mi faranno sapere. Io un po’ ci spero: è una settimana che sono chiuso qui dentro, non ho più sintomi e l’aria aperta mi manca da morire. Poco male se fa caldissimo fuori, non esiste clima meno sopportabile della mia condizione di vita attuale. Non penso neanche tanto all’Olimpiade, ma proprio a poter tornare alla normalità.
L’Olimpiade però va avanti, e non c’è un attimo di pausa. Se non dovessi seguire le gare con la continuità e la concentrazione che giustamente mi chiedono, sarebbe veramente complicato passare le giornate con questa semi-naturalezza. Invece a volte mi sento persino stanco. In un modo o nell’altro questi Giochi li ricorderò, nonostante non li stia assolutamente vivendo come avrei dovuto, potuto e voluto. I Giochi dei nonni: a loro Vito Dell’Aquila e Mirko Zanni hanno dedicato la rispettiva medaglia, scomparsi da poco e molto legati all’attività sportiva dei giovani e forti nipoti. E penso un po’ al mio, che sempre per lo sport mi era tornato vivace in mente quando Napoli, l’Argentina, il calcio e il mondo tutto avevano dato l’addio a Diego Armando Maradona. Mio nonno era napoletano e da ragazzo faceva il portiere nelle giovanili della squadra partenopea. E infatti era portiere anche quando io e mio fratello calciavamo in porta i palloni simil Super Santos da piccoli. È colui che mi stimolava da bambino la passione per il giornalismo sportivo leggendomi le pagine del Corriere dello Sport le mattine d’estate, il mio primo sostenitore quando ero un giovane tennista, e probabilmente per citare i medagliati azzurri è tutt’ora il primo, da lassù, a sostenermi nei successi e nelle delusioni quotidiane.
Mentre nel pomeriggio sono assorto nei match degli atleti italiani, squilla il telefono della camera. “Yes?”, sono loro, mi devono dare il risultato. Chiedo. La risposta peggiore: sono ancora positivo. Attacco, espressione colorita e la vita mi riscende tutta insieme. Ma quando finirà sto brutto scherzo? Il primo collegamento mentale è con il cibo. Sto morendo dalla voglia di mangiare qualcosa di Europeo, anzi qualcosa di casa mia. L’idea di andare avanti con il riso e la roba che appartiene alla cultura di questo Paese, che magari a voi piace ma a me sta andando tutta di traverso (la cultura, e di conseguenza il cibo) mi uccide. A questo punto probabilmente uscirò tra 5 giorni, perché il protocollo giapponese dice che dopo 12 da positivo sei libero di uscire anche senza un test negativo, purché asintomatico. Ritengono che tu non sia più pericoloso dopo una dozzina di giorni di isolamento. Vabbè. Beato chi c’arriva al quinto giorno da oggi.
DAY 7 – Oggi avrò il secondo Covid test. È inevitabilmente il pensiero con cui mi sveglio la mattina, anche perché non ho controllato gli orari di inizio delle gare azzurre che mi spettano e una volta in piedi scopro di avere potenzialmente un’altra ora per dormire. Provo a stendermi ma più che altro vegeto sul letto con gli occhi chiusi. Una sistemata alla barba (con tutte le persone che potrei incontrare anche oggi, ci vuole), doccia e comincia la giornata olimpica.
Dal punto di vista degli spazi come potete immaginare non è cambiato nulla, ma sentendomi bene fisicamente posso ingegnarmi per fare qualche esercizio per la prima volta da inizio incubo. Tra il letto e la scrivania non entro, tra il letto e il muro non entro. Davanti la porta c’è la valigia, che mi farebbe schifo poggiare sul letto. Ne resta una. Mi sdraio pancia sotto sul letto, metto le mani per terra e vado di piegamenti. Non il massimo della comodità per “allenarsi”, ma che devo fare? Tra un aggiornamento e l’altro sulle gare, completo un circuitino anche di addominali e spalle, roba che nella vita reale sarebbe ai limiti del ridicolo, ma qui mi sento quasi soddisfatto mentalmente e fisicamente. Intanto ho fatto il test. Attendiamo.
L’Italia comincia a svegliarsi, ormai anche i pochi che non sapevano sanno. Mi arrivano messaggi di persone che non sento mai, da alcuni di cui non pensavo neanche di avere il numero. E poi gli amici di tutti i giorni continuano a chiedermi aggiornamenti, soprattutto chi sapeva dei nuovi test da fare. Ale mi chiede di registrare la mia metà di podcast, che l’Italia trotta e le medaglie quasi si sovrappongono. C’è tanto da dire anche se raccontarlo in questa prigione vale molto meno. Mio padre mi scrive “Come va?”, rispondo “Come deve andà?”.
Il temuto esito arriva prima di ieri, stavolta sono più rapidi ad analizzare la mia saliva: positivo. No chance. Diventa ufficiale che uscirò venerdì (30 luglio), il 12° giorno di isolamento. Senza fare ulteriori test, perché ai giapponesi non interessa se dopo 12 giorni sei ancora positivo. Ti liberano in ogni caso. Ma dubito fortemente che l’organizzazione dell’Olimpiade mi farebbe lavorare con gli altri, e poi Ale non mi vuole in camera con lui se non torno negativo (giustamente). Depressione. Ancora. Nella tristezza del momento chiedo due cose al telefono ai sanitari dell’hotel: se sia possibile fare comunque un test prima di uscire venerdì mattina e se sia possibile avere del sushi per cena. Impossibile. Niente test e niente cibo diverso, neanche una volta. Non gira mai.
Esordisce in vasca Federica Pellegrini, e con la stessa tenacia mostrata più volte in carriera ai massimi livelli dalla Divina io non mollo il sogno di mangiare qualcosa di diverso. Non ce la faccio più con “riso e x” di questo popolo che non è capace a mangiare, devo trovare una soluzione. Uber Eats. Bello, ma le scritte sono quasi tutte in giapponese. Mi ci impegno, perché qui anche solo scrivere correttamente un indirizzo non è affatto una missione semplice. Mi ci impegno e alla fine, con una buona dose di fortuna, riesco a far partire pagamento e invio. Ho scelto chiaramente KFC viste le alternative tipicamente giapponesi dei dintorni.
Quel che non sapevo, in tutto ciò, era che l’ordine mi avrebbe regalato 2 indimenticabili minuti di libertà. Sto facendo zapping tra nuoto e scherma quando squilla il telefono della camera. Sono i soliti fenomeni della hall, per la prima volta con una richiesta strana. “È arrivato Uber Eats” e fin qui tutto ok, “Scenda a prendere il cibo”. Credo di aver capito male. Chiedo conferma. È proprio così. Dopo una settimana posso vestirmi, mettere la mascherina, prendere la chiave, camminare e scendere nella hall. Il percorso dei sogni. Sono eccitato. Il tandem KFC-passeggiata è una delle prime gioie della clausura. Il coronamento della serata, poi, non è la medaglia d’argento nel fioretto di Daniele Garozzo, bensì la qualità (bassa ma in questo contesto altissima) del cibo da fast food che consumo con fanciullesco entusiasmo. Non ricordo l’ultima cena in cui avevo rischiato di strozzarmi per la felicità di mangiare quel che avevo davanti. Tanta roba. Infatti non ho fatto in tempo a fare nemmeno una foto.
DAY 8 – Ma quando lo pubblichiamo sto diario? Stanotte non riuscivo a prendere sonno per i miei noti problemi di respirazione (che nemmeno due interventi chirurgici al naso hanno risolto) e assenza di serenità mentale, e pensavo. Se abbiamo scelto il silenzio, lasciando pochissime tracce della presenza di Sportface a Tokyo (mi vengono in mente solo i podcast), è per lasciare il più possibile l’attenzione sugli atleti e non sulla nostra situazione. E poi quando le principali testate italiane hanno pubblicato la notizia del giornalista positivo sul volo, si è scatenata sui social una cosiddetta shitstorm (letteralmente una tempesta di merda) nei miei confronti. Il soggetto in questione, che come ben sapete è vaccinato dal 9 giugno, viene insultato per non aver fatto il vaccino (?) e aver messo in pericolo gli azzurri e le loro performance all’Olimpiade. Vengono sciorinati i più classici luoghi comuni sui giornalisti e il popolo battaglia come siamo abituati a vedere sul Covid e i vari, presunti complotti alle spalle del virus. Quindi niente, non so quando usciremo in comunicazione, non so più niente di questa vita.
I miei direttori, dal canto loro, studiano invece come gestire la mia situazione una volta fuori di qui. L’hotel dei positivi si è rifiutato di farmi un nuovo test prima di venerdì, giorno della mia uscita, ma non posso andare in giro da potenziale positivo e soprattutto non posso stare in camera doppia con Alessandro nell’albergo in origine prenotato in cui lui sta trascorrendo, da negativo, il suo isolamento in quanto mio contatto stretto in volo. Allora giustamente chiamano l’ambasciata e la soluzione, almeno in parte, è presto fatta: sarà la stessa ambasciata a spedirmi un test fai da te, che io metterò in una cassetta della posta e che sarà analizzato in una clinica. Il risultato dovrebbe arrivare entro un paio di giorni: cosa farò, da libero, in attesa di tale risultato?
L’Italia raggiunge la doppia cifre di medaglie nella prima giornata in gran parte senza sole, in cui la stampa dà grande spazio a Nepartak, il tifone diretto verso il Giappone che potrebbe addirittura causare la sospensione dei Giochi. Sarebbe il più romantico dei welcome back per me, che a quanto pare mi avvio verso il ritorno quantomeno all’aria aperta. Sono entrato nel loop di Uber Eats, e anche se a pranzo l’albergo sfodera un inatteso poke, decido di ordinare qualcosa a cena. Intanto perché in un isolamento serrato come questo, mangiare diventa una delle pochissime attività “extra” a cui potersi dedicare, e quindi bisogna farlo con un minimo di gusto. E poi perché avverto il bisogno di mangiare davvero: basta con queste mezze cose al riso bianco divise in scompartimenti. Faccio fatica sulla app, come detto molte scritte sono in giapponese, e non è chiara la qualità dei ristoranti disponibili. Vado sul sicuro, Burger King (qualità). La discesa al piano terra per ritirare il cibo è di nuovo entusiasmante, e a differenza di ieri mi soffermo qualche istante più ad osservare la hall. Quando sono entrato più di una settimana fa mi sembrava tutto adibito alla perfezione per creare un percorso netto a chi arriva positivo. Ora, da quest’altra parte della barricata, mi sembra tutto adibito alla perfezione per creare una bolla che contenga i positivi. Non è una bella sensazione. Meno male che domani è il penultimo giorno.
DAY 9 – Quando mi chiedono “Come stai?” non so più cosa dire. “La disperazione ha lasciato il posto alla desolazione” rispondo, pensando di esprimere nel modo migliore il mio status. Comincia l’ennesima giornata uguale, con le gare da seguire al computer, gli audio messaggi che arrivano ogni tanto dalla hall, il fastidio di un pranzo che sarà tendente allo schifo (della colazione non parliamo nemmeno che la situazione è degenerata), il tentativo di fare qualche esercizio, whatsapp con i miei amici quando si svegliano e la tentazione di ordinare la cena su Uber Eats.
Accade solo una cosa diversa dal solito: mi bussano in camera, è arrivato il Covid test fai da te che mi ha spedito l’ambasciata. 3 minuti più tardi, nel delirio di canottaggio e nuoto in cui gli azzurri volano, proprio l’ambasciata mi telefona. Vogliono spiegarmi come fare il test, anche se non ci troviamo su quando sia meglio farlo. Io due giorni fa ero positivo, vorrei farlo a ridosso della mia uscita dall’hotel dei positivi. Secondo loro, invece, conviene farlo il prima possibile per ricevere il risultato (via mail) più o meno quando uscirò. Intanto la missione va compiuta, e con tutti sti aggeggi, nonostante il tutorial telefonico, non mi sembra semplicissimo.
Una curiosità ce l’ho per quando lascerò questo posto maledetto: smetterò di avvertire lo strano odore che sento più o meno sempre dal primo istante in cui sono entrato? È una specie di sgradevole aroma di malaticcio che sta nell’aria. Uno dei fattori che più di tutti mi ricordano spesso in quale assurda condizione sia ad oltre 13.000 chilometri da casa. E oggi forse stabilisco il record di ore consecutive seduto sulla sedia. Non perdo più tempo a lamentarmi mentalmente e a pensare alla sfortuna e alla criticità della situazione: lavoro, guardo cose al telefono, leggo articoli e tutto ciò che capita. Nel pomeriggio rischio però di far scoppiare un caso diplomatico tra l’ambasciata e l’hotel dove purtroppo forzatamente alloggio. Sono riuscito a fare il Covid test (salivare), ma ora bisogna metterlo in una cassetta della posta per farlo portare nella clinica che dovrà analizzarlo. Chiedo alla hall di farmi uscire, ovviamente la risposta è no. L’ambasciata chiede all’hotel di farmi il favore di prendermi il test e farlo spedire, ma non si sa perché si rifiutano. “Sono tipi vendicativi i giapponesi” mi viene detto, “È stato violato il loro protocollo inviandoti il test, e ora non fanno nulla per renderti semplici le cose”. Capite dove sono finito? Alla fine domattina sarà qualcuno dell’ambasciata a venire qui sotto a prendere il test per fargli fare il percorso che deve. A me è passata la fantasia di ordinare la cena, e puntualmente di quella che mi portano è commestibile circa un quinto. Dimagrirò. Ancora.
DAY 10 – “Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo per me. Mi accorgo di non avere più risorse senza di te”. È l’ultimo giorno nell’hotel dei positivi, tra 24 ore me ne vado. La Nazionale femminile di volley vince un primo set tirato contro l’Argentina e all’Ariake Arena parte Azzurro di Adriano Celentano. Il peggio sembra passato. Ma più che il pomeriggio, è la mattina ad essere azzurra, e fa piacere che Alessandro abbia affidato a me canottaggio e nuoto, in cui facciamo la voce grossa. Prima il bronzo di Pietro Willy Ruta e Stefano Oppo nel doppio pesi leggeri maschile, poi il clamoroso oro di Valentina Rodini e Federica Cesarini nel doppio leggeri femminile, infine l’argento negli 800 metri stile libero di Gregorio Paltrinieri, reduce dalla mononucleosi. Altro che Covid.
Greg! #Paltrinieri d’argento negli 800 metri stile libero al termine di una gara a lungo dominata!
Medaglia numero 19 per l’#Italia a #Tokyo2020#ItaliaTeam #Olympics@FINOfficial_ pic.twitter.com/iQfOzW0yiC
— Sportface (@sportface2016) July 29, 2021
Il cervello mi è entrato in loop: tutto quel (poco) che faccio lo penso come “The Last”. The Last Lunch, The Last Circuitino e così via. Ma non pensiate che nel “così via” ci siano tante attività: è l’ultimo giorno, ma non per questo lo trascorro a bordo piscina con una geisha a sventolarmi la foglia di una tipica pianta giapponese (che voi senza dubbio conoscerete alla perfezione) e servirmi succo di yuzu. Anche perché in tutto questo ci sono ancora situazioni da risolvere legate alla mia libertà. Intanto Ale e Daniele si stanno occupando di trovarmi una camera singola nell’hotel in cui sarei dovuto stare con Ale in doppia (la doppia in cui sta trascorrendo il suo isolamento che finisce due giorni dopo il mio, nonostante lui non sia mai stato positivo e io potrei ancora esserlo, rendetevi conto), e ho ancora con me il Covid test fai da te che deve essere portato ad analizzare. A tal proposito, squilla il telefono della stanza: devo scendere a consegnare il test all’autista dell’ambasciata che lo porterà dove va portato. Come le volte precedenti, quando imbocco il corridoio verso l’ascensore ho un leggero mancamento: spero di riabituarmi rapidamente alla routine fisica, in queste condizioni faccio ridere i polli. Consegno il test e torno su a lavorare.
Fino ad ora (sono le 23.10) non ci siamo mai fermati. Dico “ci” perché l’esercito di Sportface al computer è una macchina da guerra che, per quanto so, a livello italiano ha pochissimi eguali. E pensare che avrei voluto preparare un po’ i bagagli in vista del trasferimento, ma in fondo in questa cella ho potuto aprire talmente poco che è quasi tutto già pronto. Per la prima volta Ale chiede a me di montare e pubblicare il podcast di riepilogo della seconda parte di giornata di gare, e quindi per la prima volta ascolto con attenzione per filo e per segno le mie e le sue parole registrate. Sapete, non sono mai stato uno che riascolta i propri prodotti, riguarda i propri servizi e rilegge (a parte le riletture pre-pubblicazione) i propri articoli, ma in questo caso devo ammettere che i podcast funzionano. Proviamo a percorrere il filo della cronaca emotiva, raccontando i fatti con l’obiettivo di far rivivere gli incontri a chi non li ha seguiti in tempo reale e a chi magari non sa neanche i risultati. Ale è un maestro, io sto cercando di imparare a sfruttare la mia voce, che qualche soddisfazione me l’ha data in questi anni, ma potrebbe esser migliore. Questa playlist è l’ennesima intuizione felice di Alessandro, che ha un istinto giornalistico fuori dal mondo. Il primo esempio che mi viene in mente è quel che ha partorito a inizio pandemia. Eravamo tutti a casa da due giorni, senza la minima idea che il lockdown sarebbe durato tutte quelle settimane. Ebbene, Alessandro non ha perso tempo e mi ha proposto, subito, ma proprio subito, di fare dirette social. Proviamo, vediamo come vengono, chi le segue, quante domande arrivano. Gli atleti stanno a casa come noi, non avranno problemi e avranno tempo a disposizione. Detto, fatto. I nostri live volavano, e piano piano le migliori tv e testate ci hanno seguito videochiamando gli sportivi d’Italia e non solo. Mi sto fomentando, e domattina esco pure. Starà girando la nostra Olimpiade?
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DAY 11 – “Ao. Com’è? Do stai?”. Tra i messaggi che trovo su whatsapp al mio risveglio, dopo la serata italiana, c’è quello di Matteo Berrettini. Sto bene Matthew, finalmente la libertà. Mi alzo e sono piuttosto eccitato, fino a ieri non lo ero. Su Instagram ho più messaggi del solito, che è successo? Il mio migliore amico, Edoardo, sempre lui, ha lanciato tra le stories “Free @matmosciatti” e diversi amici in camune lo hanno seguito. Sorrido, carucci. Non ce la faccio più a stare tra queste 4 mura, è il momento di andar via. La preparazione è lenta, mi godo il momento. Poche cose da sistemare, ma ad ognuna di esse do la sua importanza con precisione, come piace a me. Colazione indecente (spero l’ultima di questo livello in Giappone), doccia e ci siamo. Una cosa, però, voglio chiedere al popolo nipponico prima di uscire: perché i vostri water hanno più tasti di una slot machine?
Nell’ascensore verso la libertà c’è una ragazza priva di tratti orientali. Si chiama Andrea e lavora nel comitato olimpico peruviano. Iniziamo a chiacchierare dell’assurdità della nostra esperienza: lei, come me, sta uscendo, ma a differenza mia ci sono buone probabilità che fosse una falsa positiva. Sostanzialmente è risultata avere il Covid solo in aeroporto, poi la negatività, subito, nel primo e nel secondo test in albergo. Nella navetta che ci porta in aeroporto, dove dovremo finire le pratiche per stare in Giappone (stavolta davvero), parliamo ma sentiamo anche la necessità di guardare fuori. Tokyo dobbiamo conoscerla, non abbiamo un’idea concreta di che città sia, considerando che io fuori dall’Europa non sono mai stato e lei in Asia nemmeno. Arriviamo e riparte il tran-tran che si era interrotto, per entrambi, quando ci era stata comunicata la positività. In aeroporto è tutto lento e complicato: passiamo nel reparto sanitario che cela brutti ricordi, veniamo accompagnati nell’ufficio immigrazione e compiliamo documenti su documenti. A un certo punto un signore mi chiede il test negativo: non ce l’ho. Il panico per fortuna dura poco, e alla fine un’ora di iter vale il permesso di soggiorno. E adesso? Le strade di me e Andrea si dividono: lei ha un taxi per il media center, io al media center andrò con uno dei bus olimpici. Vado ad aspettarlo.
L’odore di malaticcio non c’è più, evidentemente era la prigione in cui alloggiavo. Arrivato a destinazione con tutti i bagagli con me accuso un po’ di stanchezza fisica: e chi ce la fa a camminare così dopo 12 giorni in clausura?! Eppure la situazione prende il verso giusto quando un signore non totalmente giapponese mi indica la strada per l’approvazione dell’accredito e mi suggerisce di chiedere di Yoko, signora che parla italiano. Yoko è straordinaria: ha vissuto 5 anni in Italia per lavoro tra Milano e Bologna. “Vengo spesso a Roma a trovare una amica” aggiunge, felice di parlare un po’ italiano dopo tanto tempo. Yoko mi aiuta negli step successivi, in cui ritiro zaino e gadget di Tokyo 2020, cambio gli euro in yen, prendo i voucher per i taxi (non so se mai li userò), supero un altro po’ di controlli e decido di mangiare. Nel ristorante consigliato, però, non accettano contanti: “Si può pagare solo con carta Visa perché è lo sponsor ufficiale della manifestazione”. Quindi MasterCard non mangia? Sono le 15 passate, mi posso solo accontentare del mini market al piano superiore. L’appuntamento con il primo pasto decoroso è rimandato, spero, a stasera. A questo punto vado ad aspettare il bus per l’hotel mio e di Alessandro, che sta cercando di coprire la mia assenza al computer lavorando per due su tutte le gare in corso da stamattina, ma non è una giornata in cui accadono cose enormi agli atleti azzurri. Il wi-fi della navetta si chiama Sushi2020, io guardo fuori e faccio tante foto che a un certo punto penso: “Mi sa che qua il giapponese sono io”. Ma la mia mente tanto precisa quanto limitata non accetterebbe di mettervi, ora, una sequenza di foto a spezzare la narrazione. Ne ho sempre messa una a fine paragrafi, farò lo stesso in questo caso.
Scendo dal bus su cui ho scritto le righe precedenti e per la prima volta cammino per le strade affollate di Tokyo. Concettualmente è simile a come si vede New York nei film: palazzoni, colori, insegne, rumori, persone. Il percorso per l’hotel è semplice seguendo le indicazioni che mi ha scritto Ale, e anche la non banale presenza per strada di diversi wi-fi gratuiti aiuta. Check-in, salgo e scopro una cosa: non era l’albergo dei positivi, è proprio usanza giapponese fare camere minuscole. Questa è più piccola di quella in cui sono stato fino ad oggi. Sono allibito. La speranza è che mi arrivi via mail la negatività del Covid test di cui ancora attendo l’esito in modo da poter andare in doppia con Ale. Ale che finalmente rivedo. Ci diamo l’appuntamento al distributore di bevande al secondo piano. Bella sensazione rivederlo, nonostante l’enorme dispiacere per avergli rovinato i Giochi. Ci salutiamo senza sfiorarci e facciamo il punto della situazione. Domani non potrò andare ai campi di gara perché bisogna prenotarsi il giorno prima entro le 16: andrò al media center a lavorare. Stasera prenderemo da mangiare al market di fronte l’hotel, visto che tutti i ristoranti, compreso quello con capo chef dal passato in Italia interno all’albergo, chiudono alle 20. Intanto ognuno in camera sua al computer. E che camera signori.
Le staffette azzurre di nuoto volano, l’Italvolley concede un set all’Iran per il semplice gusto di rinviare di una ventina di minuti la nostra cena, e alle 22.08 arriva il momento. Io e Ale nella hall, si va a comandare al market. La strada è più breve del previsto: il negozio è nella stessa struttura dell’albergo, 7 passi e siamo dentro. C’è ampia scelta, ma ovviamente tutta roba di frigo di cui la maggior parte strabordante di intrugli (per usare un termine tecnico) tra salse in eccesso e incontenibili malloppi di riso. Alessandro sa a memoria cosa contiene ogni fila del reparto, d’altronde per colpa mia mangia queste cose da quasi due settimane. Un quarto d’ora di riflessione e alla fine opto per un “piatto” di riso con uovo, carne (non so quale) e salsa (non so quale o quali), poi una specie di insalata e delle fettine di qualcosa di simile, almeno esteticamente, al roast beef. Poi un biscotto di gelato e per stare a posto con la coscienza una banana. In fila per la cassa, parlando con Ale, insulto qualcuno o qualcosa in italiano e una coppia di asiatici davanti a noi ride. Uno dei due spiega ad Alessandro il motivo per il quale comprende la nostra lingua: non lo so, stavo pagando e probabilmente non lo chiederò mai al direttore. Fatemi concentrare sul cibo, grazie. Salgo in camera e lo gusto: l’obiettivo è cancellare dalla mente e dal corpo quel che mi davano nell’hotel dei positivi. Prima di mettersi a nanna c’è tempo per una nuova riflessione, la seconda odierna legata ai water: perché in tutti gli alberghi (è così anche al villaggio olimpico secondo ciò che mi riferiscono) le tavolette sono riscaldate? A fine luglio? Misteri nipponici.
DAY 12 – La sveglia suona presto, prima delle 7: bisogna prendere la navetta delle 8.12 per il media center, e per la prima volta voglio godermi la colazione. Scendo e le aspettative che mi aveva messo Ale vengono totalmente ripagate: c’è salato, c’è dolce, c’è caffè che non fa neanche così schifo. Un signore mi guarda strano per quanto tempo impiego a scegliere cosa prendere, ma che bello così. Mi siedo da solo a contemplare il momento e probabilmente mentre mangio sorrido.
Doccia e si va. A quest’ora per strada c’è meno gente (vale anche qui il discorso che è sabato e non tutti lavorano?), i semafori sono solo verde e rosso, ma l’impressione è che se non fai il cretino nessuno rischia di metterti sotto con la macchina. Mi guardo intorno con tanta curiosità: non sono mai stato un turista, quando giocavo a tennis vedevo sempre i circoli e quasi mai le città, ma la diversità dall’Europa è tanto evidente che neanche il wi-fi per strada può costringere i miei occhi sul telefono. Salgo sulla navetta e iniziano i 40 minuti verso il media center. Facciamo così, ogni viaggio una foto della città.
Il media center è grande, ma ci metto poco a individuare la media room in cui giornalisti di tutto il mondo si ritrovano per condividere lunghe giornate di desk. Sono uno dei primi ad arrivare, ma qualcosa mi dice che non sono l’unico italiano. “Nooo! Gli auricolari! Put***a Eva put***a!” afferma con tono disperato un collega non lontano da me. Per citare la Banda della Magliana quando gran parte dei membri viene sbattuta nel carcere capitolino di Regina Coeli in Romanzo Criminale, “Aria de casa”. Dopo pochi minuti arriva Daniele, che non ho ancora mai visto in Giappone. Deve fare il Covid test, e tra una cosa e un’altra mi racconta la situazione di Casa Italia. Rispetto alle passate edizioni delle Olimpiadi, quest’anno di atleti non possono essere presenti nel quartier generale della stampa azzurra finché non terminano le gare. Gli sportivi non possono uscire dalla bolla sino al giorno precedente al ritorno in Italia: si fa quel che si può con video collegamenti quando gli atleti non possono fisicamente presentarsi. Questo quadro mi alleggerisce un po’. Sperando di essere negativo (ancora attendo l’esito del test fatto tramite l’ambasciata), prenoto un posto in tribuna stampa per gli eventi di domani di scherma e beach volley: l’obiettivo è che questa mia prima giornata sia anche una delle ultime al media center.
Visto che questo diario non nasce per raccontarvi la parte prettamente lavorativa della trasferta, è giusto citare l’official shop dei Giochi installato qui. Il negozio è piccolo, infatti un membro del servizio d’ordine di Tokyo 2020 ti ferma all’ingresso e ti permette di entrare solo quando esce un altro cliente. C’è il reparto gadget, il reparto delle cose più preziose e di valore e poi il più interessante, quello dell’abbigliamento. A chi compro cose? Qui dentro a mio fratello e a i miei, se mai riuscirò a fare mezza giornata il turista in città (il 9 agosto, giorno prima del ritorno in Italia e giorno dopo la fine dell’Olimpiade, per esempio) penserò agli amici. Fidanzata? Assente. Nella vita. Prendo una maglia con logo e cinque cerchi per me, una della nazionale giapponese di non so cosa Marco (stile tennistico quindi va bene) e due asciugamani per mamma e papà. Archiviata la pratica, ce n’è un’altra da risolvere: come devo seguire il protocollo tamponi “olimpici”? Questo è il mio effettivo Day 1? Chiedo nel reparto test ma niente, non sanno. Agli sportelli dell’accoglienza creo traffico: il mio caso sembra tanto complicato che ragazzi che si stavano occupando di altro mollano tutto e provano ad aiutarmi. Parlo, aspetto, guardo, e alla fine sì, il mio Day 1 è oggi quindi devo fare un Covid test subito, uno domani e uno dopodomani e poi uno ogni 4 giorni. Procedo: magari mi arriva prima l’esito di questo rispetto al test fatto 3 giorni fa.
La media room è la sede di tutte le mie ore di lavoro odierne. Nonostante un paio di cambi di posto, capito sempre, un po’ casualmente un po’ no, al desk dei giornalisti italiani. Non sono molti, la maggior parte si trova a Casa Italia, ma un paio di li conosco. Eppure non saluto e non parlo con nessuno: innanzitutto potrei essere ancora positivo, e poi riconosco una ragazza che avrebbe voluto intervistare il giornalista italiano con il Covid. Se iniziamo a parlare, la mia identità potrebbe essere svelata. D’altro canto lo sapevo: libertà, sì, ma non posso ancora concedermi davvero tutto. Quindi sto a testa bassa, faccio il mio al computer, mi alzo solo per comprare cibo e andare in bagno e non fiato quando l’Italia conquista medaglie. Al contrario, quando il Brasile vince il bronzo nel doppio femminile di tennis se ne accorge tutto il media center: un gruppo di giornalisti carioca alza un boato impressionante seguito da un applauso. Le due tenniste, Laura Pigossi e Luisa Stefani, sono sdraiate per terra in lacrime: anche loro sanno di aver sfruttato l’occasione della vita nell’Olimpiade maggiormente priva di grandi giocatori di tennis. Dopo la passeggiata del Settebello, mia nazionale italiana preferita dei Giochi, che doppia i padroni di casa del Giappone con un perentorio 16-8, faccio lo zaino e mi dirigo verso il bus per l’hotel. Nel viaggio la citazione che merita di chiudere la narrazione della giornata. La scrive Ale, nel pieno della sessione serale di atletica leggera: “Comunque l’unica cosa peggiore di fare 14 giorni di quarantena da negativo a un’Olimpiade è aspettare 5 anni per fare i 100 metri a Tokyo ed essere eliminato per falsa partenza”. Sipario.
DAY 13 – Ore di sonno, come direbbe Federico Buffa, “pòcche”, ma per certi versi i miei Giochi cominciano oggi. A colazione osservo per la prima volta una situazione di vita civile giapponese. A un tavolo c’è una famiglia: mamma, papà e 3 figli. Il più grande avrà 12 anni, gli altri meno. Per tutta la durata del pasto, nessuno dice una parola. Neanche una. E non credo che ciò dipenda dalla depressione legata al cibo che stanno mangiando (pur avendo a disposizione quel che vi ho mostrato nel racconto di ieri, scelgono le cose peggiori, la cultura è cultura). A tavola i giapponesi non parlano? Magari lo scopriremo nelle prossime puntate. Sistematina alla barba, doccia, accredito. L’accredito. Oggi, davvero, si sfoggia l’accredito. Assisterò alle mie prime gare olimpiche, gli incontri di fioretto maschile a squadre (scherma). Finalmente.
Vado al media center: devo fare il secondo Covid test olimpico anche se devo ancora ricevere l’esito di quello di ieri (che non arriva in caso di negatività) e di quello fatto via ambasciata sul finire della quarantena. I ragazzi dell’ufficio stampa del CONI, che incrocio in navetta, mi consegnano i biglietti per le sessioni di atletica dei prossimi giorni che Ale aveva prenotato, cambio un centinaio di euro in yen e faccio il test salivare. Esco dalla sala e lo spettacolo è impietoso: un membro del servizio d’ordine del media center si è levato le scarpe e sta facendo addominali su una panca nel bel mezzo del centro. Li fa con movenze sgraziate e diametralmente opposte allo stile degli atleti che partecipano all’evento per cui lavora. La foto non rende, vi garantisco che questa sale di diritto sul podio delle cose più brutte alle quali abbia assistito sin qui a Tokyo.
Navetta dal media center alla stazione dei bus, quello per la scherma parte dalla numero 26. “Tutti alla scherma vanno” scrivo ad Ale su whatsapp: mi attende poco più di un’ora di viaggio con giornalisti di ogni angolo della Terra. Si compete a Makuhari, che scopro essere proprio un’altra città rispetto a Tokyo. Fuori dal finestrino vedo panorami nuovi, scenari differenti e anche meno spettacolari rispetto a quelli della tratta hotel-media center che mi sto abituando a conoscere. Con grande stupore mi accorgo che in realtà il 90% della stampa sul bus ha scelto la lotta: tutti giù al Makuhari Messe Hall A, mentre la scherma si disputa al B. Anche qui bisogna superare i controlli di sicurezza, ma ne vale la pena: entrando nell’impianto provo emozioni mai avvertite in 25 anni, quasi 26, di vita. Le luci, musica, l’atmosfera: è l’Olimpiade. È tutto vero. Mi godo ogni istante, anche mentre lavoro e anche mentre racconto la sconfitta dell’Italia al termine di una battaglia serrata contro il Giappone. Le hostess della tribuna stampa esultano, ma un po’ mi sento vincitore anch’io. Adesso capisco cosa intendono gli sportivi quando parlano dei Giochi con gli occhi lucidi.
In diretta dal Makuhari Messe vi raccontiamo il fioretto a squadre maschile: nei quarti di finale l’#Italia sfida il #Giappone #ItaliaTeam #Olympics @matmosciatti11 pic.twitter.com/N3DABPqEiP
— Sportface (@sportface2016) August 1, 2021
Archiviate le varie pratiche al computer tra podcast, montaggi e aggiornamenti vari, mangio panini confezionati che mi fanno rimpiangere sensibilmente le prelibatezze degli autogrill e mi dirigo verso il bus che mi riporterà al media center, dove ho deciso che seguirò le tanto attese finali di atletica. Un pit-stop in bagno, però, mi fa perdere per pochi istanti la navetta. Alla fermata ci sono 2 giornalisti RAI: “Vuoi uno strappo? Stiamo aspettando una macchina”. Lo scenario del viaggio si ribalta completamente: sul bus sarei stato per conto mio, con i compatrioti viene invece fuori un’oretta di goliardia, agevolata sia dall’assenza di wi-fi che mi distoglie dal telefono sia dal ritmo estremamente blando con cui guida l’autista. “L’amico nostro ce sta a fa fa er giro turistico”, “Questo sta in ferie” ed altre espressioni colorite fanno da colonna sonora al tragitto, poi ognuno per la sua strada (il centro riservato alle televisioni non è lo stesso degli altri media).
Il tempo di seguire al media center il comodo successo dell’Italvolley maschile sul Venezuela (facendo ancora il vago con i colleghi italiani che mi considereranno un gran maleducato e persona tutt’altro che socievole) e mi rendo conto, grazie a un messaggio di Ale, che se non voglio perdere le finali di atletica devo correre in hotel. Impiego 8 minuti a capire come disincastrare l’adattatore per la presa elettrica giapponese che non voleva venir via, esco e perdo per 100 secondi il bus. Dovrò aspettare il prossimo, in elenco tra 58 minuti. Situazione simpatica, davvero. Nell’attesa vedo una ragazza seduta per terra che scrive al computer con enorme concentrazione. Telefono-computer-telefono-computer: controlla cose e scrive. Non posso non indagare. Si chiama Kara, è statunitense e sta scrivendo un diario. Il colore dei suoi capelli (biondi) e quello dei suoi occhi (azzurri) la candidano prepotentemente al ruolo di donna della mia vita, ma la conversazione non decolla e la sua navetta arriva 3 minuti dopo. Addio Kara, è stato emozionante.
Quando finalmente scendo dal bus e mi avvio a piedi (5 minuti) per l’hotel, vengo fermato da un ragazzo giapponese che fuma una sigaretta elettronica. Mi guarda estasiato, come fossi una star. Balbetta qualcosa in nipponico, gli chiedo di parlare inglese ma niente. Indica il suo telefono. Un signore, incuriosito dalla scena, si mette in mezzo e fa notare al ragazzo il mio accredito: “Journalist, he is a journalist”. Il giovane (avrà avuto 16 anni) capisce e mi libera con un filo di sdegno. Pensava fossi un atleta dell’Olimpiade e voleva un selfie. Spiace per lui: avrebbe potuto immortalare un istante della serata con un italiano poco prima che l’Italia salisse sul tetto del mondo dell’atletica. Gianmarco Tamberi medaglia d’oro nel salto in alto, Marcell Jacobs medaglia d’oro nei 100 metri. I 20 minuti più allucinanti della storia dello sport azzurro. Noi c’eravamo. Qui.
DAY 14 – Le mie 5 ore e mezza di sonno vengono allungate a sorpresa dal messaggio inviatomi da Alessandro a notte ben avviata (ovvero poco dopo la fine del mio lavoro al computer): partenza mia (per il volley femminile) e sua (per il tiro a segno) rinviate di un’ora e mezza grazie all’ordine dei tiri che vede il primo italiano intorno alle 11. Ci metto 4,7 secondi netti a riaddormentarmi. Al nuovo risveglio c’è un compito da svolgere oltre alla colazione e alla preparazione per uscire: devo trasferirmi nella camera doppia con Ale, quella che doveva essere il mio alloggio dal 18 luglio ma che non ho ancora visto neanche con il binocolo. Tra una cosa e un’altra perdiamo tempo e, considerando anche il terzo Covid test consecutivo da effettuare al media center (ormai diamo per scontato che io sia negativo data l’assenza di referti ricevuti), sono costretto a ricorrere per la prima volta al taxi per raggiungere l’Italvolley femminile che affronta gli Stati Uniti. Il tassista è simpatico e socievole: mi chiede da dove vengo, parliamo di Roma e di Tokyo, poi oso. L’istinto giornalistico mi porta a domandargli se fosse vera, dal suo punto di vista, la convinzione che i giapponesi non la volessero l’Olimpiade in tempo di pandemia. La sua risposta è piena di umanità: “Grazie ai Giochi Olimpici ho trovato lavoro, sono contento che ci sia anche la Paralimpiade così continuerò a lavorare e comunicare con persone nuove che vengono da tutto il mondo. Mi sto divertendo, sono contento”.
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L’Ariake Arena è enorme e insonorizzata: ci metto un quarto d’ora a farmi indicare la strada da percorrere per il padiglione del campo da pallavolo, e anche a pochi metri dall’ingresso non si sente quasi nulla. Dentro, al contrario, la musica altissima si alterna al suono delle schiacciate di Paola Egonu. Dal vivo non l’avevo mai vista: vi assicuro che quando impatta la palla lei, il rumore è totalmente differente rispetto a quello di tutte le altre, comprese le dinamiche statunitensi che giocano meglio delle azzurre e meritano la vittoria al tie-break decisivo. Note a margine: proprio un servizio della Egonu viene disturbato dalla distrazione di un addetto alla musica che fa partire per qualche istante “Metti un po’ di musica leggera perché ho vo”; non capirò mai perché le ragazze del volley ridano anche quando sono nettamente in svantaggio (forse così bisognerebbe vivere lo sport e la vita, brave loro) né perché esultino urlando come pazze anche dopo aver conquistato il punto, per esempio, del 14-23. In zona mista nel post partita Miriam Sylla si dimostra simpaticissima quanto diplomatica sul tema razzismo (aperto da un collega statunitense), e dopo un dimenticabile panino con non so quale marmellata è tempo di andare.
Non avrebbe senso passare al media center, meglio sfruttare il wi-fi delle navette andando in anticipo allo Shiokaze Park, sede del beach volley. Il viaggio dal media transport mall (sede di smistamento dei bus verso tutti i luoghi olimpici) è piuttosto breve, a differenza del percorso da fare una volta entrati nella struttura per raggiungere la zona riservata alla stampa e lo stadio vero e proprio. Nel tragitto incontro Sophie (credo si scriva così), che lavora per un broadcast americano e con orgoglio mi racconta di essere stata a Roma. Parliamo tanto da arrivare dal suo capo, che mi presenta, ma non è lì che devo lavorare io. Saluti e torno indietro alla ricerca della mia zona di competenza per montare il podcast e fare il punto della situazione al computer sulle altre gare di giornata. Senza Sophie, il mio cammino viene accompagnato dal verso delle cicale più forte che abbia mai sentito: cattive e martellanti. Poco dopo (per fortuna ero arrivato a destinazione al chiuso) si scatena il diluvio universale a zittirle. Conosco qualche collega italiano e la pioggia smette di cadere proprio 20 minuti prima di inizio partita: gli azzurri Nicolai e Lupo affrontano i polacchi Bryl e Fijalek, ottavo di finale di beach volley. Più che la cattiva partenza di Lupo (tirato su da un Nicolai monumentale), ciò che mi incuriosisce maggiormente è l’usanza degli addetti al campo di salutare con un inchino, prima e dopo aver “passato” la sabbia con i rastrelli, gli arbitri del match. Carucci. L’Italia è più forte, Lupo alza il livello e assieme al compagno agguanta meritatamente il successo: urla di gioia alle mie spalle Andrea Lucchetta, che per la conclusione della telecronaca RAI si alza in piedi. Siamo ai quarti. Applaudono in tribuna Federica Pellegrini (bella ragazza anche dal vivo) e il presidente del CONI Giovanni Malagò, che evidentemente si muove con una Bat-mobile (cit. Alessandro) visto che qualche minuto più tardi è già schierato a sostenere la leggiadra ginnasta Vanessa Ferrari (che vincerà l’argento). È la mia prima vittoria in tribuna stampa a Tokyo 2020, carina l’organizzazione a celebrarla facendomi poi viaggiare verso l’hotel sulle due navette più fredde della storia dei Giochi Olimpici. Medaglia d’oro ex aequo per loro.
Il racconto della giornata poteva serenamente finire qui, poi Ale ha proposto la cena fuori ed è nata improvvisamente la prima serata giapponese al ristorante. Un buon “pork qualcosa” per me. Allora ogni tanto sono capaci in cucina questi qua!
DAY 15 – Al media center un simpatico ritrovo Sportface, con i due direttori e il sottoscritto alle prese con Covid test, official shop olimpico (troppa fila, via) e video per l’esercito della redazione che sta già producendo a manetta sulle gare in corso nella notte italiana. La prima telefonata, però, la ricevo dall’ambasciata: il famoso test fatto nella camera della quarantena ormai 5 giorni fa ha dato esito “debolmente positivo”. Mi chiama la clinica che l’ha analizzato, ma rispondo che nei 3 test effettuati al media center le ultime 3 mattine sono risultato negativo. Con il dubbio che, nonostante il green pass, debba “superare” un PCR per poter salire sul volo per Roma il 10 agosto (tra una settimana), archivio momentaneamente la pratica e vado a lavorare al computer, dividendomi da Ale e Daniele che vanno a prendere i bus per le rispettive destinazioni. In effetti fa un po’ ridere questa cosa che dal mio arrivo a Tokyo non abbia ancora mai ricevuto concretamente via mail o in mano l’esito negativo di un test: appelliamoci alla regola, poi rivelatasi corretta, che “arriva solo se sei positivo”.
I giapponesi sono tipi precisi e ordinati, si sa, ma a volte nelle dinamiche olimpiche sembra mancare comunicazione tra le parti. Al media center molti dicono che, al di là del mini market testato il primo giorno di libertà, non esistano nella struttura ristoranti in cui si possa pagare in contanti. Alcuni controllano anche nel sistema online, ma niente. Faccio finta di credere loro, ma entrando e uscendo dall’impianto passiamo sempre tutti davanti ad un locale molto simile esteticamente ai McDonald’s europei. Provo. “Sorry, do you accept cash?” “Yes, Sir”. Olé. Soddisfatto, leggo rapidamente il menu in cassa. Ci sono parole chiave riconoscibili tipo tuna, pork, noodles, salad, rise e tante altre mai lette in vita mia. Scelgo una pietanza che credo contenga pork, noodles e salsa di soia e aspetto il mio turno. Nel frattempo vedo sfilare gli altri piatti selezionati dai giornalisti di tutto il mondo e mi rendo conto di aver sbagliato. Bello il loro cibo, non molto il mio. Poi però il gusto sorprende: il contrasto tra carne e salsa calde e noodles freddi fa la sua pork(a) figura. Ora però tocca tornare all’Ariake Arena: l’Italia affronta l’Argentina nei quarti di finale di volley maschile e prima del match voglio montare il podcast di metà giornata. Non bene il giornalista giapponese seduto davanti a me sulla navetta rapida verso il media transport mall: nel bel mezzo di una videochiamata, il ragazzo collegato con lui scoppia a piangere e non smette per circa 7 minuti consecutivi ad alta intensità. Dopodiché, aspettando il bus per l’arena, scorgo una riunione di addetti alla sicurezza pronti ad entrare in turno: va bene che gli asiatici sono tutti uguali, ma così state esagerando.
Finalmente arriva il referto dei 3 test ai quali mi sono sottoposto al media center: sono negativo. Il Covid mi ha salutato dopo 12 giorni. Esulto. Il ritorno all’Ariake Arena circa 30 ore dopo la prima volta, però, non parte benissimo: il bus non si ferma davanti la sede del volley ma nel parcheggio generale dell’enorme villaggio sportivo. Chiedo come raggiungere la pallavolo e mi indicano un ingresso. Stop ai controlli: “Serve il biglietto per questo evento, non basta l’accredito”. Già, perché come sappiamo per alcune gare bisogna munirsi in anticipo di ticket. Troppe le richieste in tribuna stampa, urge una selezione. Ma a quanto ci risulta non è questo il caso: per Italia-Argentina bastava prenotarsi entro le 16 del giorno precedente, ieri, e una mail conferma la mia prenotazione. Dibattito di un quarto d’ora, inizio a contattare gente su whatsapp, ma alla fine l’arcano si risolve: sono all’entrata della ginnastica. Sospiro di sollievo, nervosismo nei confronti di chi mi aveva indicato l’ingresso sbagliato, e via al volley, dove sono comunque in anticipo per chiudere la pratica podcast nella media work area.
Il mio impatto con l’arena è chiaramente differente rispetto a quello di ieri. “Meno emozione” penso. Poi partono 3 minuti di giochi di luci che precedono gli inni nazionali, e più o meno a “Dov’è la vittoria” sfioro il lacrimone di orgoglio e commozione. Credo di non aver mai vissuto prima l’Inno di Mameli in un contesto così, ma probabilmente non l’ho mai nemmeno ascoltato dal vivo prima del match di una nazionale. Mentre mi batte forte il cuore, alla mia destra un giornalista statunitense over 150 kg sgranocchia qualcosa: lì per lì lo detesto, poi piano piano inizia a tifare Italia con sempre più grinta e quasi lo abbraccio. Il collega extra large fa da contraltare al telecronista argentino che più o meno dal primo punto della partita urla a squarcia gola, senza rendersi conto (o magari lo fa apposta) che in assenza di pubblico anche i giocatori lo sentono benissimo. Durante i time-out, quando si alza la musica, una cameraman giapponese si gira verso la tribuna stampa e ci incita a ballare e cantare. Ma per chi tifa azzurri c’è poco da ridere. La partita è bellissima, Juantorena schiaccia l’impossibile sapendo che quella che gioca potrebbe essere l’ultima gara olimpica della sua carriera, Zaytsev gli dà una mano a fasi alterne ma Michieletto gioca l’ennesimo match sublime e sembriamo poter vincere. L’Argentina, però, è ordinata e dura a morire, e l’incontro finisce inevitabilmente al quinto. Andiamo avanti di 2, poi si scatena Lima, che per farla breve vince il tie-break da solo ed elimina l’Italia. I giocatori piangono, mentre dalla parte opposta della rete la festa è grande. Albiceleste in semifinale, onore ai nostri per quello che hanno messo sul terreno di gioco.
#Tokyo2020 #Volleyball #Volley@matmosciatti11 live dall’Ariake Arena di Tokyo
Sta per iniziare il quarto di finale maschile tra #Italia e #Argentina
0-0 #ItaliaTeam #Olympics pic.twitter.com/d3O5sL5odt
— Sportface (@sportface2016) August 3, 2021
Niente zona mista, niente interviste: devo correre all’Olympic Stadium, dove la sessione serale di atletica è cominciata e io già so che non ne seguirò altre dal vivo in questa edizione dei Giochi. Il taxi corre ma c’è traffico, guardo fuori dai finestrini e resto affascinato dalla Tokyo by night. Arrivo allo stadio e ovviamente l’ingresso riservato alla stampa è il più lontano dal parcheggio dei taxi. Eppure la lunga camminata vale il prezzo del biglietto (che non ho pagato, as you know). Quando entro e tra le teste dei giornalisti si fa largo il verde del prato, mi sento come quando da bambino per le prime volte andavo allo Stadio Olimpico di Roma. Non sai dove guardare perché è tutto bello, ogni angolo dell’ellisse senza angoli meriterebbe attenzione, ma non riesci a concentrarti su niente. I primi minuti resto così, senza lavorare (ancor più difficile considerando che le gare sono già iniziate) ma respirando l’atmosfera dell’evento unico. L’atletica all’Olimpiade amici, capito sì?! Sono felice del traguardo raggiunto, nel getto del peso l’azzurro Zane Weir fa il nuovo record personale, nel salto con l’asta lo svedese Armand Duplantis sfiora quello mondiale e io sono ancora più felice del traguardo raggiunto. È tardi, sono le 22 passate e devo ancora scrivere e montare video e podcast, ma con Ale a Casa Italia nessuno mi aspetta per cena. Che faccio? Mi faccio scaldare pasta con gamberetti congelata dall’angolo del food dello stadio e non abbandono, nonostante le gare siano finite. Torno in tribuna stampa, da solo mentre i colleghi dei quotidiani scrivono con una certa fretta, mangio e guardo lo spettacolo. L’Olympic è bellissimo, quel prato deve essere davvero soffice al netto degli attrezzi che hanno provato sino a poco fa a consumarlo. Vorrei che questa serata non finisse mai. Credo che ogni tanto faccia bene ad ognuno di noi, anzi sia quasi necessario per tutti noi, sentirsi bambini e riassaporare certe sensazioni. Ci ricorda chi eravamo e chi a volte dimentichiamo di essere.
DAY 16 – Sapevate che in Giappone non esiste il concetto di “piano terra”? Sull’ascensore il piano base, dove sono la reception e l’entrata/uscita, corrisponde al numero 1. Niente, mi faceva piacere iniziare la giornata con questa info. Anche oggi le gare a cui assisteremo sono pomeriggio e sera, quindi la mattina, per una volta, ce la prendiamo comoda (non eccessivamente, la colazione chiude alle 9.30). Parlando con Ale ci rendiamo conto che per Sportface da un certo punto di vista sia stato meglio averci bloccati al computer in camera tutta la prima parte di Olimpiade: è una manifestazione difficile da coprire mediaticamente, le sedi degli incontri sono distanti anche ore l’uno dall’altro, è impossibile seguire davvero tutto. Dispiace per Casa Italia: lì avremmo potuto girare molte interviste video esclusive con azzurri medagliati e non, ma in hotel, davanti allo streaming e al sito ufficiale dei Giochi, abbiamo dato una mano importante ai ragazzi in turno in Italia. E ora ci godiamo gli spettacoli dal vivo.
A pranzo osservo attonito le gambe scoperte di diversi colleghi stranieri: o dopo più di 2 settimane non hanno capito che in tutte le strutture chiuse di Tokyo 2020 c’è la temperatura di Reykjavik in autunno, oppure hanno una sensibilità fortemente diversa dalla nostra. Al tavolo vicino al nostro c’è un fotografo italiano: il web parla di terremoto nella notte giapponese, lui a differenza nostra l’ha avvertito. Due scosse di magnitudo 6.0, roba quasi all’ordine del giorno per la popolazione locale: lui alla seconda ha un po’ tremato, in tutti i sensi. Sinora su Instagram gli unici italiani ad aver pubblicato stories odierne siamo noi e mio fratello Marco, sbarcato da un paio di giorni in California, a San Jose, per proseguire il lavoro iniziato sull’erba con la tennista numero 50 del mondo Ajla Tomljanovic. L’australiana nata in Croazia, fidanzata di Matteo Berrettini, ha appena vinto il primo turno del torneo WTA 500 contro la talentuosa statunitense Amanda Anisimova: mentre voi dormite, in Giappone e Stati Uniti maciniamo.
Arrivo al Tatsumi Water Polo Centre con largo anticipo: tra circa 2 ore c’è Italia-Serbia, match dei quarti di finale di pallanuoto, ma non ho urgenze da sbrigare al computer e anziché alla zona riservata ai media mi dirigo direttamente in tribuna stampa. La cornice è suggestiva: l’acqua ferma e silenziosa, il pallone al centro della piscina, gli spalti vuoti. Siamo 3 giornalisti e i ragazzi giapponesi dell’organizzazione, che ci indicano il nostro settore. Colgo la calma del momento per seguire in streaming la disfatta della Nazionale di volley femminile contro la stessa Serbia (Ale è lì, niente miracolo da parte sua), leggo dell’impresa degli azzurri del ciclismo su pista che si impongono sulla Danimarca, firmano il nuovo record del mondo e vincono la medaglia d’oro ed è tempo di inni nazionali. Sin qui il Settebello “regge”, poi suona la sirena e non vediamo palla. Dominio serbo tra gol dalla distanza, leggerezze del portiere italico e occasioni sprecate in avanti. E pensare che sul secondo gol azzurro mi ero anche alzato in piedi affermando con una certa irruenza “Go!”. Termina l’incontro, registro un rapido podcast di commento per Twitter e via verso il media transport mall per trasferirmi al beach volley.
Ale è passato a cena a Casa Italia (beato lui), io non ho la minima idea di se e dove mangerò. Tornare allo Shiokaze Park mi fa piacere per diversi motivi: innanzitutto per il panorama che ti si presenta davanti nella passeggiata che porta al Centre Court e all’adiacente media office. E infatti essendo solo e in anticipo allungo la camminata e scendo a bordo fiume per scattare un po’ di foto al ponte di una notte giapponese oggettivamente suggestiva. Poi perché dopo 8 anni che lavoriamo insieme sarà la prima per me e Alessandro insieme in tribuna stampa. E poi perché a Paolo Nicolai e Daniele Lupo un po’ tutta Italia vuol bene. Prendo in prestito proprio una frase del primo dei due: “Non voglio essere eccessivamente autoreferenziale, ma credo che nel beach volley italiano ci sia un prima e un dopo Lupo e Nicolai”. Non importa che queste parole ce le abbia dette in zona mista dopo una sconfitta. Troppo forti i qatarioti Younousse Cherif (MVP per distacco) e Tijan Ahmed, azzurri out ai quarti di finale. Ma la storia non si discute, e aver seguito dal vivo le prodezze olimpiche dei migliori del nostro Paese è un vanto che non dimenticherò. Nonostante sia passata mezzanotte e non abbia ancora neanche lontanamente cenato.
DAY 17 – Sono andato a dormire alle 2.15, la sveglia suona alle 5.00. Gregorio Paltrinieri sarà in acqua dalle 6.30 per la marathon swimming (il nome rende bene l’idea, vero?), 10 km di nuoto di fondo in cui l’azzurro proverà a conquistare la sua seconda medaglia a Tokyo. Ale rimane giustamente a dormire, ci ricongiungeremo dopo in un posto che mi è rimasto nel cuore. La colazione dell’hotel è chiusa a quest’ora, il mini market sotto no: prendo quel che trovo e, mentre pago, il commesso mi chiede da dove vengo e poi, come tanti in questi giorni, mi fa i complimenti per l’oro di Marcell Jacobs nei 100 metri. È passato qualche giorno dal miracolo dell’italiano del Texas, ma la sensazione è che quella gara sia rimasta negli occhi e nel cuore di tutti. Quando risalgo in camera Alessandro si spaventa credendo che io sia una donna delle pulizie (comprensibile mancanza di lucidità), poi mi confessa di aver valutato, al suono della mia sveglia, di accendere il computer per guardare in diretta l’amichevole in corso tra Milan e Valencia (meno comprensibile mancanza di lucidità). Alla fine lui crolla senza computer e io vado.
L’Odaiba Marine Park presenta uno scenario molto diverso da quelli ammirati dal vivo sin qui. L’acqua fa da base all’innalzamento di una specie di tangenziale volante che svetta fiera su una città che sta entrando sempre più dentro di me. Il sole dell’azzurro di sopra si specchia sull’azzurro di sotto, e il verde e il blu scelti dall’organizzazione per le strutture costruite sulla costa, cioè dove siamo noi, creano un contrasto tanto dolce da potersi definire armonioso. La gara è talmente esaltante che non soffro il sonno: Paltrinieri parte male, poi è quinto, poi è quarto, poi è terzo, poi è secondo, poi è terzo, poi è quarto, poi è terzo, poi è secondo e alla fine chiude terzo. Bronzo. È la mia prima medaglia. Non avete idea quanto sia emozionato. Corro in zona mista ad intervistare Greg insieme agli altri giornalisti italiani presenti: gli amici giapponesi ci fanno il brutto scherzo di metterci al sole, accalcati e con la necessità di allungare il braccio oltre il massimo per registrare come si deve le dichiarazioni dell’eroe azzurro. Dopodiché registro il podcast post gara: mi viene da piangere, schiaccio stop. Vi auguro di assistere a una medaglia dal vivo. Non si può descrivere.
Si può piangere di emozione alle 8.30 del mattino dopo la sveglia alle 5.00?
Gregorio #Paltrinieri medaglia di bronzo nel #NuotoDiFondo
Gara monumentale dell’azzurro, per la seconda volta sul podio a #Tokyo2020
Il commento per @sportface2016 dall’Odaiba Marine Park pic.twitter.com/5VhughUK8n
— Matteo Mosciatti (@matmosciatti11) August 4, 2021
Se è vero che “Si torna sempre dove si è stati bene”, e a volte lo è, faccio ritorno all’Olympic Stadium, dove con Ale assisterò alla sessione mattutina di atletica. Perché sì, è ancora abbondantemente mattina anche se sto vivendo la vita già da 5 ore. Rispetto alla sera ci sono meno giornalisti (ma l’atmosfera, ve lo assicuro, è quasi ugualmente magica) e ciò ci permette di stabilirci senza difficoltà in seconda fila. A due passi dai corridori che passandoci davanti ci fanno quasi vento. C’è l’uomo più veloce del mondo, Marcell Jacobs, che guida l’Italia al nuovo record nazionale e alla qualificazione in finale nella staffetta 4×100: che spettacolo vederlo così. Il mio “amico” Zane Weir firma il nuovo record personale nella finale di getto del peso che vale un buon quinto posto, finale dominata da una bestia di nome Ryan Crouser che fa il nuovo record olimpico e sfiora il record mondiale. Che però è già suo. Guardare il mastodontico statunitense mi fa venire fame, quindi dopo l’estremo saluto allo stadio che mi resterà nel cuore e una copiosa sudata per fare foto con Alessandro sui cinque cerchi, una sudata ancor più copiosa è il prezzo da pagare per andare a prendere la metro (economicamente gratis grazie ad una carta fornita dall’organizzazione dei Giochi). In metro tutti si fanno ordinatamente gli affari propri al telefono, e ad eccezione del sottoscritto nessuno entra prima che tutti siano usciti. Funziona come pensate, sono metodici e organizzati. Ma come sottolinea Ale “Se gli cambi una cosa vanno in crisi e non sanno uscire dai loro schemi per risolverla”.
Primo pranzo in giro per il Giappone della trasferta: al direttore hanno parlato bene di Shibuya, zona di strada tornando in hotel a riposare un paio d’ore. Palazzoni, strade e metro che sorvolano i passanti e le altre strade e metro, tantissime persone e tantissimi ristoranti. A Tokyo su 10 negozi 7 vendono cibo. Alcuni molto simile, altri no. Scegliamo a caso e capitiamo in un ristorante coreano. C’è un cameriere che parla un filo di inglese, ma il menu scritto totalmente in coreano non ci permette di scegliere concretamente cosa mangiare, così nel gelo della consueta aria condizionata siberiana ci affidiamo ad una delle poche figure presenti sulla carta. Ci portano una sorta di vassoio a scomparti e ci consigliano di mischiare carne, riso, verdure e formaggio per generare una pietanza gustosa. Hanno ragione. Godiamo e torniamo alla metro per poi lavare qualche maglietta e dormire in hotel.
L’Italia vince medaglie su medaglie e noi ci dividiamo nuovamente: Ale va a Casa Italia, dove sono in arrivo atleti azzurri pronti a rilasciare interviste, mentre io prendo la strada del Nippon Budokan dove Viviana Bottaro disputerà la finale per il bronzo nel kata, specialità del karate. È la seconda volta in totale che prendo la metro in Giappone, la prima da solo. Vedendomi spaesato, una ragazza del posto mi chiede dove debba andare: la prima parte del mio percorso coincide con il suo, così mi propone di seguirla. Si chiama Nachuki, sta tornando a casa e quando le dico che vengo da Roma sgrana gli occhi ammirata come se le avessi detto di aver vinto 5 medaglie d’oro negli ultimi 10 giorni. Nachuki è gentile come le altre persone alle quali chiedo indicazioni, e alla fine con un po’ di difficoltà vedo in lontananza l’imponente Nippon Budokan. Il tramonto è di rara bellezza, siamo in tanti a fermarci a fotografarlo.
Il karate mi regala altre emozioni: è una specialità strana il kata, non c’è contatto tra le atlete che si esibiscono guardando i giudici come se avessero un’avversaria da stendere innanzi a loro. Eppure l’atmosfera olimpica, soprattutto nelle fasi finali di una gara, rende davvero tutto magico. Mentre scrivo queste righe è in corso la premiazione maschile, e un atleta sul gradino più basso del podio sta piangendo guardando la medaglia che gli hanno appena consegnato. Capite? Viviana Bottaro sconfigge la statunitense di origini asiatiche Sakura Kokumai (“mia” seconda medaglia) e in zona mista, dopo un emblematico “Che goduria!” ci racconta che anziché conquistare un bronzo all’Olimpiade avrebbe potuto perdere la capacità di camminare a causa di un incidente subito insieme al fidanzato un anno fa. Si commuove pensando al dramma sfiorato, sorride emozionata realizzando di aver coronato il sogno di una vita. Andando via incrocio Arran, giornalista scozzese conosciuta ieri al beach volley. È bionda, lo sapete, ma niente. Ciao.
DAY 18 – Mi capita di svegliarmi, notare dettagli già appurati da giorni e pensare: “L’ho scritto nel diario?”. Per esempio ai ristoranti (e a colazione in hotel) i giapponesi non usano e non ti mettono a disposizione i tovaglioli di carta o di stoffa, ma direttamente i fazzoletti o gli asciugamanini umidi, quelli che in Italia nei ristoranti di livello ti portano a fine pasto per lavarti le mani. Poi credo si sia capito, ma la conoscenza della lingua inglese è molto poco diffusa. La gente per strada non capisce nemmeno parole semplici tipo “sorry”, “tomorrow”, “transportation”. Assurdo, poi, che anche molte persone assunte per lavorare all’Olimpiade non capiscano nulla del linguaggio britannico. A febbraio sono stato 3 settimane alle Canarie, a Las Palmas, e sono rimasto stupido del fatto che parlassero solo spagnolo, ma qui andiamo oltre ogni immaginazione. Comunque siamo andati a dormire con la notizia del ritiro annunciato da Valentino Rossi e ci svegliamo con la notizia dell’addio di Lionel Messi al Barcellona. Che state combinando in Europa?
Le gare degli italiani a cui conviene andare iniziano pomeriggio, quindi scatta la prima mattinata turistica di Tokyo 2020. Ad Ale è stato consigliato Sensoji, ricco di templi caratteristici e di attrazioni per chi viene dall’estero. 13 fermate di metro e ci siamo. “In questa città non esiste un palazzo uguale all’altro” sottolinea il direttore, e in effetti gli edifici sono tantissimi, ma tra differenze di forma, altezza, struttura e colore ognuno ha le sue peculiarità. La galleria denominata Kannon Door segna l’ingresso nel quartiere turistico: ci sono bancarelle, negozi un po’ più sofisticati e ovviamente una quantità imbarazzante di locali per mangiare, compreso il primo McDonald’s incrociato nella trasferta. Nessuna esposizione o vetrina di souvenir ci ruba l’occhio, così continuando a tirare dritti arriviamo ai templi buddisti tra i quali svetta l’Asakusa Kannon Sensoji. Penso a Dragon Ball e alle rappresentazioni del Giappone viste negli anni in tv: non è difficile fotografare le abitudini dei nipponici, questo tempio (bello, nessun dubbio) mi sembra quasi di averlo già visto. Proseguendo la gita entriamo nel parchetto adiacente con un piccolo corso d’acqua: ora capisco come faceva Sampei a pescare così tante carpe, sono enormi e anche piuttosto brutte. Ci sono ragazze che indossano i lunghi e colorati vestiti tipici locali, chiedo loro una foto con me e le miss prendono la palla al balzo e in cambiano iniziano a scattare selfie con noi a raffica. Non c’è tantissimo da vedere e i ristoranti non ci ispirano, allora decidiamo di tornare nella “nostra” zona per mangiare e iniziare poi la giornata olimpica. Camminando sentiamo “Matteo!” ma non ci fermiamo, nonostante Pippo Consales, membro dell’ufficio stampa del CONI incontrato per caso, ci faccia notare che magari colei che aveva proferito il mio nome ce l’aveva proprio con me. E infatti pochi metri più avanti, collegandomi ad un wi-fi stradale, ricevo un messaggio: è Andrea, la giornalista peruviana incontrata uscendo dall’hotel dei positivi. Era stata lei a chiamarmi, ma ormai è tardi e non è il caso di tornare indietro: forse ci vedremo in serata nell’arena della lotta libera.
Pranziamo nello stesso ristorante dell’unica cena narrata, pit-stop in camera a prendere due cose (il giro turistico ci ha staccato per la prima volta in Giappone dal rispettivo computer) e mentre Ale si organizza per dirigersi con calma all’Olympic Stadium (sempre atletica), io prenoto un taxi per il Tokyo Stadium, dove nella finale di pentathlon moderno sono all’opera Alice Sotero ma soprattutto Elena Micheli, che abbiamo intervistato l’anno scorso e che da allora mi capita di sentire su Instagram. Male, malissimo il tassista. As you know, niente inglese per lui. Dico e gli faccio leggere “Tokyo Stadium”, non sa cosa fare. Mi chiede l’indirizzo dello stadio ma senza wi-fi non ho modo di farglielo leggere. Smanetta sul suo telefono senza successo e scende a chiamare in causa una ragazza che lavora nel mio hotel. Neanche lei risolve la complicatissima situazione, quindi scendo e torno nella hall dell’albergo per collegarmi a internet e trovare l’indirizzo dello stadio. Solo così si sblocca la situazione e il tassista si tranquillizza per partire. Quanto ci vuole? Mi dice un’ora. Ci mettiamo 35 minuti. Spero di non incontrarlo mai più.
Il Tokyo Stadium è meraviglioso e particolare: non avevo mai visto sul prato di uno stadio una piscina, una pedana per la scherma, un percorso per corsa e tiro a segno e un percorso a ostacoli per cavalli. Spirito olimpico al 100%, rimango a bocca aperta. C’è la scherma, poi sarà la volta dei cavalli e in chiusura la combinata che determinerà le medaglie. Quando sale in pedana Elena la incito dalla tribuna stampa, lei ovviamente tira dritta e affronta la prima avversaria: vince, alzo il pugno al cielo senza dire nulla, lei mi vede e mi saluta sorridendo. 10 secondi prima di affrontare la rivale successiva. Numero 1. Torna focus sulla gara ed elimina la seconda avversaria. Poi elimina la terza. Poi elimina la quarta. Poi elimina la quinta. Poi elimina la sesta. Poi perde il duello con la settima. Fantastica Elena. Un quarto d’ora più tardi la vedo condividere su Instagram le stories dei suoi tifosi che l’hanno taggata durante le sfide. Le scrivo e lei mi risponde: “Sono stata troppo felice di vederti in tribuna! Ora vorrei venire a salutarti ma non credo che me lo permettano”. Ti voglio bene chicca. Piove, devo cambiare postazione, quella nuova non porta fortuna: nel salto a ostacoli (equitazione) Elena cade due volte, rischia di farsi male e finisce in fondo alla classifica. Il maxischermo in curva mette in mostra le sue lacrime, così fa male.
Resta in corsa, silenziosa, Alice Sotero, che non si è mai staccata dal gruppetto di testa e parte dalla quarta posizione nella prova finale, in cui in sostanza bisogna correre e sparare il più velocemente e precisamente possibile verso il traguardo dei desideri. La gara è vibrante, l’azzurra a metà è addirittura seconda, ma nel tiro a segno la mano trema, il tempo scorre e le avversarie non perdonano. Alice perde, arriva quarta, il dolore più grande. Corro in zona mista e mi accorgo di essere l’unico giornalista italiano presente, al di là della RAI che come right holder dell’Olimpiade prende più o meno in ogni arena gli atleti a fine gara e li intervista in diretta o quasi. Prima vedo Elena, con cui ci eravamo dati appuntamento nonostante la delusione: l’intervista è difficile, vuole raccontarmi come si sente, cosa le passa e cosa le è passato per la testa, ma ogni 6 parole rischia di scoppiare a piangere. Un paio di volte sono tentato di chiuderla lì, ma mi hanno insegnato che dai momenti emotivamente più coinvolgenti possono nascere le parole migliori. E infatti piano piano la disperata futura campionessa (lo sarà, fidatevi) respira e tira fuori dichiarazioni molto interessanti. Poi è la volta di Alice, che però sta scappando. Corro, urlo il suo nome, Elena la ferma e le spiega chi sono. Prendo un cazziatone da un ragazzo che lavora allo stadio perché mi sono catapultato in un punto a cui non potrei accedere, ma raggiungo l’obiettivo e torno indietro ad aspettare in zona mista la quarta classificata. Alice è sotto un treno. Ci ha sperato, ci ha creduto e alla fine no, il sogno è svanito. Faccio domande, ma mentre parlo la vedo trattenere un fiume in piena. Le sue risposte sono singhiozzate, mi sento anche poco empatico a farla parlare in queste condizioni. Tento di strapparle un sorriso, di farle pensare al bello dell’avventura che ha vissuto da protagonista, ma non credo di esserci riuscito. È la sera delle medaglie d’oro di Antonella Palmisano (marcia 20 km), Luigi Busà (karate, kumite -75 kg) e della staffetta 4×100 (Patta, Jacobs, Desalu, Tortu), ma questo è il mio diario e la narrazione di questa giornata la chiudo scrivendo che sì, metto nel bagaglio anche le mie prime interviste esclusive in uno stadio post finale olimpica e sì, ascoltare in chiusura del solenne rito della premiazione della medaglia d’oro Kate French l’iconico God Save The Queen farebbe venire i brividi anche ad Iceman Kimi Raikkonen.
DAY 19 – Suona la sveglia: anche stanotte abbiamo dormito 5 ore e mezza. Entro su whatsapp e squilla pure quello, sono i miei amici nel bel mezzo di una reunion notturna in Italia. Sono fomentati, sanno che in mattinata andrò ad assistere a quello che per loro è l’evento più spettacolare dei Giochi, quello a cui più di tutti (a parte la finale dei 100 metri) piacerebbe loro andare: la finale di basket. Cercando un punto in cui posare il telefono mentre effettuo le classiche operazioni per rendere effettivo il risveglio in bagno, sfioro lo specchio: è bollente. Ecco perché fa così caldo qui dentro, non solo il water ma anche lo specchio è riscaldato. Ad agosto.
Un’ora di metro in cui rischiamo di sbagliare linea e siamo alla gigantesca Saitama Super Arena: c’è USA-Francia e per fortuna Ale conosce a memoria questa labirintica struttura, oggi più piena che mai. Arriviamo in anticipo ma sembra quasi un match a porte aperte: in tribuna stampa troviamo due posti per miracolo, altri settori dell’arena sono affollati da addetti ai lavori, atleti e membri dei team statunitensi e francesi. Come d’abitudine, non solo a causa della folle temperatura polare che ci costringe a coprirci come fossimo in inverno, all’ascolto dell’inno americano ma soprattutto di quello transalpino (per me il più bello del mondo), mi viene la pelle d’oca, e anche Ale lo intravedo colpito. Passa a salutarmi Julien, giornalista parigino con cui ho condiviso il taxi ieri sera, un bel personaggio che a più riprese mi ha fatto i complimenti per la trionfale Olimpiade dell’Italia, che ha superato il precedente record di 36 medaglie conquistate in una edizione dei Giochi. Poi è palla a due e comincia il Kevin Durant Show. Il cestista dei Brooklyn Nets gioca una partita spaventosa in cui spegne sul nascere ogni velleità di rimonta della Francia. Guardarlo con e senza palla è uno spettacolo, e su un paio di finte di corpo manda “al bar” anche me che sono comodamente seduto (ibernato ma comodo) a lavorare alla diretta scritta dell’incontro. Mi dispiace per Julien, ma gli USA vincono un oro meritato e oggettivamente corretto. Un hot dog di medio-bassa qualità e torniamo alla base. Uscendo noto che, da quando sono in libertà, ogni volta che ci incrociamo tra giornalisti non asiatici l’occhio ci cade sul pass: vogliamo sapere chi abbiamo davanti, se lo conosciamo. Noto anche la scarsa presenza di secchi dell’immondizia in giro per le città (a Saitama come a Tokyo), e infatti in hotel ci chiedono di lasciare le buste da buttare fuori dalla rispettiva porta della camera. E poi ci accorgiamo di essere su un veicolo che è sia treno sia metropolitana: entrati dalla parte del treno, veniamo invitati a spostarci due vagoni più in là. Non ho idea del destino del mezzo, se si dividerà o resterà legato, ma di certo in Italia una cosa così non esiste.
Buongiorno #Italia: alla Saitama Super Arena abbiamo assistito alla performance tendenzialmente spaventosa di Kevin #Durant che ha demolito la #Francia e ha consegnato la medaglia d’oro agli #USA
Comandano ancora loro nel #basketball#Tokyo2020 @sportface2016 pic.twitter.com/M05ZQdTvYI
— Matteo Mosciatti (@matmosciatti11) August 7, 2021
La tappa in hotel è fondamentale per recuperare energie (e sonno, pur essendo io da sempre contrario alla pennichella pomeridiana), ma la mia giornata olimpica è finita. Ale tornerà per l’ultima volta all’Olympic Stadium (ancora atletica), mentre io raggiungerò Daniele a un ricevimento organizzato dall’ambasciata italiana per i giornalisti inviati a Tokyo. Ho 5 camicie in valigia, finalmente posso metterne una. Arrivando trovo al cancello una collega che conosco di fama ma non ho mai visto, una di quelle che per anni ho ascoltato in tv. Ci presentiamo e lei mi chiede subito: “Come stai? Tutto bene ora?”. Ci metto qualche secondo a realizzare. Sa che l’ex positivo sono io. Chiacchieriamo piacevolmente, le racconto le pene della quarantena e attendiamo l’arrivo dei colleghi e l’apertura del cancello. Una volta cominciato l’evento, resto piacevolmente stupito di quanti, nonostante la mascherina, mi riconoscano e si facciano avanti per sapere le mie condizioni, il trattamento che mi hanno riservato nell’hotel dei positivi e soprattutto per riaccogliermi tra loro. Mi mancavano queste occasioni di convivialità e lavoro (più convivialità che lavoro), tra volti noti, volti amici e volti che magari lo diventeranno. Mi mancava il cibo italiano, mi mancavano gli sguardi che si cercano quando bisogna aprire le danze al buffet ma nessuno ha il coraggio di fare il primo passo. Le strette di mano ai membri dell’ambasciata che mi hanno supportato giorno dopo giorno durante l’isolamento è un po’ la chiusura del cerchio. Il peggio è passato.
DAY 20 – Per l’ultimo giorno di Olimpiade, Tokyo ci regala una splendida mattinata di pioggia torrenziale. Per andare alla finale di ginnastica ritmica (Ariake Gymnastics Centre), scegliamo il taxi, ma l’hotel non riesce a prenotarcelo. Andiamo a una sorta di parcheggio e un tassista ci fa salire per poi chiederci di scendere: non può/vuole arrivare all’Ariake. Bagnati, ne cerchiamo un altro e dopo circa 10 minuti veniamo accontentanti. Il nostro nuovo conducente non parla inglese ma ha un apparecchio elettronico che riproduce in inglese ciò che lui afferma in giapponese. Almeno ci facciamo due risate. I parcheggiatori dell’arena lo portano a lasciarci nel punto più lontano dall’ingresso e la pioggia è aumentata. Probabilmente inzupperemo la tribuna stampa, piena perché oggi di gare ce ne sono poche. Stasera è in programma la cerimonia di chiusura dei Giochi e sorprendendomi Ale mi svela che potremo andarci entrambi: ieri non ha salutato l’Olympic Stadium, ci torneremo insieme per l’ultima volta.
La ginnastica ritmica è bellissima. Queste atlete straordinarie svolgono prove definibili freestyle con attrezzi non semplici da governare. Devi saper fare tutto nello spazio e nel tempo giusto, altrimenti rovini l’esibizione del quintetto e vai a casa. È tutto così melodico che anche un ignorante in materia come il sottoscritto può notare un errore quando una atleta commette una sbavatura. E poi gli sport decisi dai voti di una giuria non sempre vanno per meritocrazia. La finale si disputa in due round, dopo il primo le Farfalle (soprannome delle azzurre) sono quarte. Tocca gufare forte. Bulgaria e Russia sono palesemente più forti, siamo in corsa per il bronzo ma serve una grande mano da parte della Bielorussia. L’Italia fa il suo con un esercizio quasi perfetto, tocca alle rivali. Il direttore si apparecchia per gufare, lo imito. Cominciano. Un errore. Proseguono. Due errori. Saltiamo sul seggiolino. Una delle azzurre si copre il viso con le mani, sa che l’obiettivo è a due passi. Dalla fine dell’esibizione bielorussa comincia un’attesa spasmodica. Noi giornalisti ci guardiamo e poi osserviamo il maxi schermo. La giuria sta votando. Ci guardiamo, maxischermo. Eccolo. Siamo sopra. Italia avanti. È medaglia. Medaglia Italia. Bronzo Farfalle. Abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene. Quarantesima medaglia azzurra all’Olimpiade, mai così tante prima. Chiudiamo i Giochi con 10 ori, 10 argenti e 20 bronzi. Dal giorno dopo la cerimonia d’apertura l’Italia ha conquistato almeno una medaglia tutti i giorni, storico record. Veder salire le Farfalle sul podio è la ciliegina sulla torta giapponese più buona di sempre. Anche se, come sottolinea Ale sul taxi di ritorno, il popolo nipponico è quasi del tutto privo di persone sovrappeso. Ed è pieno di anziani che lavorano, come se non esistesse la pensione. Basta riflessioni sociologiche, un po’ di relax e poi si vola alla cerimonia di chiusura di Tokyo 2020.
Partiamo in taxi da Casa Italia insieme a Simone Di Stefano, collega che non avevo ancora visto in Giappone ma che mi ha supportato non poco durante l’incubo quarantena. La serata è diversa dalle altre, ce ne rendiamo conto per il traffico intasato e soprattutto per lo stop forzato del taxi, che ci obbliga a scendere quando l’Olympic Stadium non è ancora così vicino. Le strade sono chiuse causa cerimonia, così ci incamminiamo chiedendo indicazioni ai vigili e condividendo dubbi e imprecazioni con giornalisti stranieri nella nostra stessa situazione. Ad allietare la lunga passeggiata non è di certo il caldo afoso, bensì il popolo nipponico, che con cartelli di ringraziamento scritti in tutte le lingue ci saluta in vista del nostro ritorno in patria.
Avvicinandoci al traguardo mi torna in mente un termine che dall’avvento della pandemia non sentiamo quasi più in riferimento alle partite di calcio: tafferugli. Ci sono persone comuni locali che spingono per superare il blocco della polizia ed entrare ad assistere all’evento, ma è chiaramente impossibile come in tutte le gare dal primo a quest’ultimo giorno. La gente protesta e discute animatamente con i poliziotti, ma per fortuna (anche per la nostra incolumità) l’avanzata non degenera e possiamo superare l’ostacolo senza troppe difficoltà. Appena entrati allo stadio notiamo 2 posti liberi non in terza, non in seconda, ma in prima fila. Via. Sono i seggiolini migliori per godersi la cerimonia, e prima ancora per mangiare una porzione a testa delle fettuccine surgelate che ho molto volentieri testato al mio “debutto” all’atletica. Rischiamo di strozzarci 2-3 volte a causa dei botti sfiorati da colleghi traditi da uno scalino nettamente più lungo degli altri: miracolo che nessuno sia finito in ospedale in tutto l’arco della serata. Comincia la festa, giochi di luci e poi sfilano gli atleti con la rispettiva bandiera: Marcell Jacobs svetta con il suo fisico statuario, e a differenza di molti riesce a sventolare il tricolore italico con una certa veemenza. Meno a proprio agio altri, soprattutto gli inservienti che sostituiscono gli atleti di nazionali già totalmente rientrate nel Paese di appartenenza: piuttosto che saltare qualche bandiera, gli organizzatori hanno deciso di farle tenere da giapponesi che hanno lavorato senza sosta da inizio Giochi. Dopodiché entrano tutti i partecipanti alle gare, che riempiono il prato e si scattano foto a ripetizione, mentre sul palco vanno in scena varie esibizioni di artisti e presunti tali. C’è la premiazione della maratona femminile e di quella maschile. Inno nazionale della vincitrice: Kenya. Inno nazionale del vincitore: Kenya. Gli altri inni che ci costringono ad alzarci in piedi sono quello, ovviamente, del Giappone, quello della Grecia (Paese che ospitò la prima edizione delle Olimpiadi), quello dei Giochi Olimpici e poi, dopo il classico discorso di chiusura del presidente del CIO Thomas Bach, quello della Francia, sede dell’Olimpiade di Parigi 2024. I giapponesi ci tengono a salutarci con stile rispettando la propria cultura, quindi sui maxi schermi dell’Olympic Stadium, terminati i fuochi d’artificio, quando tutti siamo pronti ad abbandonare l’impianto, compare la semplice scritta “Arigato”. Brave persone, in fondo, che hanno combattuto per organizzare un’Olimpiade di successo nonostante restrizioni, terrore del Covid e assenza di pubblico.
Volge al termine, dunque, la mia travagliata prima esperienza olimpica, nata nel peggiore dei modi e proseguita sicuramente, dopo tanti sforzi, meglio. Le giornate alle gare hanno in parte lenito il dolore per come si è aperta e sviluppata la prima parte di avventura, ma fa tanto male pensare a ciò che sarebbe potuto essere dall’inizio e che invece è stato solo sul finire. Grazie Sportface, grazie direttori, grazie Italia Team e nonostante tutto grazie Tokyo 2020: è stato un onore lavorare come inviato alla migliore Olimpiade della storia azzurra, ma la verità è che resterai a lungo una ferita aperta.
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