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E’ stato uno strano lunedì quello della scorsa settimana, un lunedì tra un mix di malumori, incomprensioni e scadenze pressanti, un lunedì di quelli che ti fa maledire la fine del weekend, un lunedì vero e proprio insomma. Ecco perché quella sera accovacciata sul mio divano e con il mio amato mac fra le mani, cercavo qualcosa che mi facesse un po’ distogliere l’attenzione dai mille pensieri che mi frullavano nel cervello, che mi desse una scossa. Cercavo senza sapere dove posare realmente gli occhi fin quando sono stati gli occhi stessi a trovare luce. “Maxischermo in piazza San Carlo a Torino con piattaforma riservata a giornalisti e addetti stampa”, avevo letto sul web. Un brivido lungo la schiena, avevo già capito, la mia mente aveva già fatto un salto lungo circa 150 km, il mio cuore non aveva neanche saltato, era già là. Dovevo provarci e riuscirci. Sono partite circa 30 mail dal mio computer quella sera, trenta mail che hanno quasi tutte trovato risposta: “Ci mandi i suoi dati e le faremo sapere”, manco avessi presentato una canzone per il festival di Sanremo.
Poco meno di 48 ore dopo, la risposta attesa da tutta una vita: “Il suo accredito è stato accettato, ci vediamo sabato, buon lavoro”. Mezz’ora di salti incontrollati ed una svariata serie di note vocali alla collega che avrebbe vissuto con te quella medesima esperienza.
“Daniele vado a Torino sabato, chiedimi quello che vuoi”, la conferma più piccata ad un pezzo della famiglia Sportface. Già lo so, starete pensando questa è pazza, e in fondo normale non lo sono mai stata, ma io amo la mia follia, la sola, insieme a questa perseveranza e a questa smisurata passione, che mi permetta di raggiungere ciò che ho sempre sognato o molto più banalmente di fare ciò che amo di più, in spicci, di essere felice.
I convenevoli ve li tralascio: l’attesa, la cura maniacale nel preparare lo zaino e gli attrezzi del mestiere, l’ansia a diecimila, l’euforia di poter essere in mezzo ad un popolo di 30 mila persone che condividono i tuoi stessi colori e di poterlo fare da un posto privilegiato, quello di giornalista, l’adrenalina di poter scrivere della tua squadra del cuore che per l’ennesima volta si gioca il “tutto in una notte”, l’orgoglio di esserci, i pezzi del puzzle che d’improvviso s’incastrano ed un sorriso quasi spavaldo di fronte a quel lunedì nero che sembra d’un tratto così lontano. E poi il viaggio, la bandiera che sventola, i cori su cori e su cori. Ribadisco: lo so che sono pazza e che non mi capirete, ma non sono qui per questo. Io non voglio essere capita per ciò che faccio o ciò che provo quotidianamente, vorrei essere capita per ciò che ho sentito in quella lunga notte.
Perché tra un flash, una battuta, uno scambio d’opinioni, gli scongiuri verso un cielo grigio, una diretta facebook, perché tra un gol di Cristiano Ronaldo ed un gol di Mario Mandzukic erano circa le 21.45 quando quell’ultimo scorcio di stagione ha preso avvio. La Juve non gira, il centrocampo è lento e si è abbassato troppo, la difesa pare meno solida del solito, Higuain è così fuori dal gioco e poi c’è il talento cristallino di uno su cui ho scommesso non appena l’ho visto calciare un rigore con la maglia rosa del Palermo, ha 23 anni, si chiama Paulo Dybala e questa sera pare imprigionato nelle sue stesse paure. Casemiro e Ronaldo fanno il resto ma proprio quando cerchi conforto nei tuoi fratelli bianconeri, quando il tuo sguardo si scontra con il silenzio assordante di un’intera piazza che non riesce a spiegarsi il perché ancora una volta, sul più bello, tutto sfumi, ecco che quel silenzio si tramuta in un rumore che sa tanto di spari, ecco che il cuore ti si ferma e che la mente vola non a 150 km di distanza ma là dove non pensi possa esistere vita.
Una frazione di secondo, una folla impazzita che sta correndo proprio nella tua direzione, lo sforzarsi di trovare una lucidità che non fa capolino nel tuo cervello ma che, grazie a Dio, non soffoca quell’istinto di sopravvivenza a cui ti aggrappi come se fosse l’ultimo brandello di vita. Lo zaino in spalla e la mano della tua collega che hai afferrato e trascinato il più lontano possibile: non c’era tempo per le domande, c’era da correre. Circa 400 metri di corsa disperata evitando di calpestare la gente a terra e provando a non scontrarti con nulla, quelle mani che si disuniscono per un attimo, ma gli occhi che non si perdono e le dita nuovamente intrecciate. Il riparo sicuro è quello di un bar in cui ti fermi e ti ritrovi accerchiata di persone che hanno sangue ovunque, che urlano e piangono e non sanno il perché. “Una bomba, hanno sparato, arrivano” ed il terrore a quel punto trova spazio in un bagno in cui gli affanni di un respiro trasalito rimbombano a più non posso. E adesso cosa facciamo? Potevo lasciare che la paura di morire avesse la meglio sulla voglia di vivere? Noi, fratelli sconosciuti, ci siamo abbracciati, abbiamo condiviso il terrore e, quando abbiamo ripreso a respirare, l’umanità.
Ho visto gente che si consolava senza sapere cosa dire e chi avesse davanti, ho visto ragazzi infermieri in borghese bianconera, prendersi cura del prossimo ferito, ho visto gente che predicava calma, bambini accolti da mamme improvvisate ma oneste, soccorsi pronti e polizia attenta, cellulari prestati perché sopportare anche che le proprie famiglie piangessero sarebbe stato troppo. Ho rivisto quello scenario di una piazza devastata, perché c’era da recuperare la borsa della tua amica che lì dentro aveva anche le chiavi della macchina e che, nuovamente grazie a Dio, dopo poco era come un miraggio fra le tue mani, e ho capito che la guerra era passata di lì. C’era d abbandonare Torino, la città dei tuoi sogni, e c’era quello sgomento nel cuore che non si dava pace e che ti impediva anche di capire quanto i miracoli esistessero, quanto tu stessa fossi un miracolo.
Il ritorno a casa e la notte insonne pensavo facessero il resto, mi sbagliavo. Il resto lo hanno fatto gli occhi e le mani di mio padre e mia madre, dei miei fratelli, che sono stati la mia ancora di salvezza in quel mare in burrasca. Non potevo permettere a nessuno di non farmeli vedere più, di non riassaporare più i loro profumi, di non alimentarmi dei loro sorrisi. Io non so a cosa hanno pensato quelle trentamila persone, io so che ho pensato a loro ed è così che mi sono salvata. Ma ancora non era finita e forse questa storia non avrà una fine. Quando ho rivisto le immagini il giorno dopo, quando le parole hanno trovato una collocazione di senso compiuto, quando i milioni di messaggi che i social ed il mio cellulare mi hanno recapitato ribadendomi che fossi più viva di quanto in realtà credessi, ho trovato anche tutte quelle lacrime che fino a quel momento non avevo ancora versato. Ed eccole le domande che arrivano puntuali come una sentenza. E non sono né i perché, né da dove è nato tutto ciò, niente del genere, le domande che mi hanno martellato il cervello erano che fine avessero fatto tutti i disabili che avevo attorno, gli stessi che avevo difeso poco prima non appena la gente si mettesse nella loro traiettoria impedendogli di vedere la partita, che fine avesse fatto quella signora tanto simpatica con cui avevo condiviso le ansie da Champions dal pomeriggio, che fine avesse fatto quel giornalista tanto carino dagli occhi azzurro cielo, e ancora di più dove fosse quella bimba che si era seduta accanto a me pochi istanti prima del triplice fischio, che mi aveva chiesto in che porta dovessimo segnare e che al gol di Mandzukic mi aveva stretta così forte come se mi conoscesse da sempre o come se volesse donarmi un pezzetto del suo piccolo grande cuore. Ho pregato per loro, spero che Dio mi abbia ascoltato anche questa volta.
Adesso arriva il bello. Sognavo di scrivere il mio primo articolo sulla mia Juventus in modo totalmente diverso, sognavo di commentare di un Gigi con la coppa al cielo, sognavo di raccogliere le emozioni di quel popolo così tanto simile a me. E sognavo anche di piangere mentre digitavo ogni singola lettera su questa tastiera. Sognavo di avere il cuore a mille, proprio come adesso. Ecco perché so che un giorno sarò di nuovo lì, perché che sono folle l’ho già detto? Non mi lascerò vincere dalla paura. Ci vorrà tempo? Ci vuole sempre tempo. Non ho mai visto sogni realizzarsi con il solo schioccare delle dita. E a tutti questi sogni se n’è aggiunto uno: mi piacerebbe guardare negli occhi quel talento cristallino con il numero ventuno sulle spalle e mi piacerebbe che ci scambiassimo un po’ di paure. Così diverse e in fondo così uguali. Lui e la paura di accarezzare un pallone in quel di Cardiff, io e la paura di non poter più sentire sussultare il mio cuore come quel 13 maggio 2012 quando cambiai la mia foto di copertina su facebook lasciando che lo sguardo dell’uomo più uomo e campione più campione che conosca si commuovesse dinanzi al tributo più meraviglioso mai visto. Ecco, vorrei anche questo dalla mia vita. Perché se c’è una cosa che ho imparato da questa tremenda vicenda è che l’amore vince sempre. E allora che vi siate aggrappati a chissà quale pensiero in quegli istanti, all’amore per i vostri figli o per i vostri compagni, per i vostri amici, per le vostre madri, per voi stessi o a Dio, non fa differenza: non lasciatevi vincere dalla paura, lasciatevi vincere dall’amore.
Testimonianza Francesco
“Ero andato a Torino con le più rosee aspettative, ovviamente da tifoso quello di poter veder vincere la Champions dalla mia squadra del cuore e di poter festeggiare in grande con amici ed un popolo bianconero, ed invece è successo quello che nessuno si aspettava. Guardando il maxi schermo mi trovavo sulla destra con due amici, quando ad un certo punto ho sentito uno strano rumore che non sapevo bene identificare, ho visto la gente correre e ho seguito la massa, sono caduto e mi sono rialzato subito, avevo perso i miei amici ma per fortuna ci siamo sentiti dopo un po’ e poi li ho ritrovati in albergo. Purtroppo è successa una cosa bruttissima dettata dal niente, o meglio dettata dalla paura che ormai la gente ha dentro di sé”. “Il giorno dopo ho rivisto le immagini – prosegue Francesco – ma devo dire che rispetto ad altri ho superato abbastanza bene la cosa e sicuramente riprenderò a fare la mia vita normale senza avere paura”.
Saresti disposto a ritornare lì? “Sì certo, non mi faccio condizionare da queste cose”.
Testimonianza Niccolò
“Io e i miei due amici eravamo verso la destra della piazza perché nel pomeriggio in realtà ci eravamo sistemati in zona più centrale, ma vedendo una persona poco raccomandabile con delle scritte arabe, abbiamo pensato di spostarci per non essere ancora più tranquilli; ci tengo a precisare che non sono razzista assolutamente, ma oggi come oggi ormai le pensi tutte. Ad ogni modo intorno al 65’ della partita abbiamo sentito questo rumore continuo ma non simile ad un petardo, molto più plausibile a mio avviso l’ipotesi della transenna, ed abbiamo iniziato la folle corsa fin quando siamo rimasti bloccati sotto il porticato. Una volta liberatici, nonostante non riuscivamo a trovare un nostro amico, ci siamo incamminati e abbiamo cercato di ritrovare lucidità, io ho fatto molta fatica all’inizio, ma il punto è che mentre la gente gridava frasi tipo “Attentato, stanno sparando…” hanno tutti ripreso a correre e così anche noi fin quando la situazione non si è placata definitivamente”.
Poi continua: “Nel panico ho chiamato i miei che ovviamente si sono spaventati ma che non sapevano nulla, la tv non aveva detto niente al riguardo, e ho detto loro di stare bene perché a parte qualche taglio sulle gambe e lo spavento, tutto sommato stavo bene, per fortuna. Nel viaggio di ritorno non abbiamo parlato d’altro, la partita era passata decisamente in secondo piano, pensa che del 4° l’ho scoperto solo il giorno dopo, non ho più voluto rivedere nemmeno le immagini”.
Saresti disposto a tornare lì? “Noi siamo un gruppo che segue spesso la Juve, anche allo Stadio, sì sarei disposto ma con più sicurezza: già il livello di terrore è elevato ma almeno le cose basilari, come i venditori abusivi le bottiglie di vetro, bisogna vietarle assolutamente”.