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Bodybuilding, Andrea Presti e il Mister Olympia: “Noi come la Nfl. E la mentalità italiana sta cambiando”

Andrea Presti - Foto LA Design
Andrea Presti - Foto LA Design

Nel 1975 Ben Weider, co-fondatore della federazione internazionale del bodybuilding e del fitness, sfidò l’apartheid in Sudafrica pretendendo lo stesso trattamento per tutti gli atleti di una competizione a Pretoria. Nel 1969 suo fratello Joe, padre del Mister Olympia, la più grande manifestazione di culturismo, puntò su un 22enne che di lì a qualche anno si sarebbe imposto col nome eterno di Arnold Schwarzenegger. Sono solo due delle mille storie che ruotano in quell’universo di stereotipi che è il bodybuilding. Andrea Presti, primo italiano a partecipare a due edizioni consecutive del Mister Olympia, questi stereotipi si è messo in testa di spazzarli via con l’informazione e la divulgazione scientifica. Dirige un’attività di consulenza con un’equipe medica, è il protagonista di incontri con le scuole e soprattutto è il volto italiano del bodybuilding nel mondo. Un capitolo di storia l’aveva già scritto l’anno scorso quando dopo 28 anni era tornato a rappresentare l’Italia al Mister Olympia. La realizzazione del sogno di una vita può assopire le ambizioni o stimolarne di nuove. Ad Andrea Presti, ma forse più in generale ai bodybuilder, i sogni non bastano mai. A Las Vegas, nella rassegna in programma dal 15 al 18 dicembre 2022, il 34enne campione bresciano ne inseguirà altri dopo la qualificazione ottenuta al “Mister Big Evolution Pro” ad Estoril in Portogallo.

Il sogno di Andrea Presti dove inizia?

Ho iniziato a far judo da ragazzino, mio padre era un judoka molto forte. Ho fatto agonismo per dieci anni della mia vita, fino ai campionati universitari. Ho partecipato a diverse gare internazionali e sono stato atleta di interesse nazionale pur non essendo mai entrato nelle armi. Ho disputato anche il preolimpico, ero uno dei pochi civili.

Perché hai lasciato il tatami?

A 16 anni ho perso mio padre e con lui anche il mio maestro. Tutti i poli judoistici erano molto lontani, l’aspetto logistico rappresentava un problema. Ero un atleta molto fisico, ma molto poco tecnico. Con l’avanzare dell’età, mi sono reso conto di non essere un fenomeno. La testa di fatto è passata alla sala pesi…

Raccontaci la tua routine.

Durante l’anno la giornata si divide in sei-sette pasti giornalieri, con un allenamento lungo da due ore e mezza o tre ore. Ma nel giorno mi occupo anche del mio business, cioè un servizio di consulenza nel benessere e del fitness con un gruppo formato da medici, ortopedici, fisioterapisti, cardiologi, nutrizionisti e andrologi, oltre a focus su biologia molecolare e medicina estetica.

Come cambia il lavoro quando ci si avvicina alla gara?

Gli allenamenti diventano due o anche tre al giorno, uno nella prima mattinata, alle 4 o alle 5, uno nella tarda mattinata, l’altro nel tardo pomeriggio. I pasti giornalieri sono sempre gli stessi, ma le calorie si abbassano.

La prima differenza che balza all’occhio tra una palestra italiana e una americana?

Per quanto riguarda l’aspetto logistico la dimensione e la quantità delle attrezzature. Altro discorso se si parla di mentalità. Mentre negli Usa la gente ti fa i complimenti perché sei l’esponente più considerevole del tuo ambiente, in Italia spesso venivi visto come un estraneo. Ma fortunatamente negli ultimi due anni la mentalità sta cambiando. Si sta facendo una grande opera di divulgazione e si sta creando un clima americano nelle palestre italiane.

Esempi pratici?

Ho fatto un allenamento a porte aperte in provincia di Pavia e sono venute quasi 400 persone.

Qual è il rapporto tra voi europei e i colleghi americani?

C’è molta coesione, non c’è discriminazione dal punto di vista geografico. Siamo sempre noi, ci si conosce, a Las Vegas andrò tre settimane prima per ambientarmi, lavorerò insieme ad altri atleti e mi confronterò con loro. C’è clima di solidarietà dopo i sacrifici durante l’anno. Le rivalità sono sportive, si limitano al palco.

Quanto è cambiata la percezione del bodybuilding in Italia?

Per motivi anagrafici ho perso la golden era, i famosi anni ‘90 fino ai primi anni 2000. Poi c’è stato, anche negli Stati Uniti in proporzioni inferiori, un crollo di interesse. Ora sta tornando, sotto certi punti di vista non si è mai visto un seguito così grande. Le scuole ci invitano a parlare di bodybuilding nelle ore di educazione fisica. Non era mai successo prima.

Come vi rivolgete alle nuove generazioni?

Abbiamo il progetto per una fondazione per creare un circuito di palestre che dia una gratuità di abbonamenti a quei ragazzini sotto la soglia di povertà. Vogliamo buttare i ragazzi nelle palestre e toglierli dalle strade. E vogliamo farlo soprattutto nelle grandi città.

Torniamo a Mister Olympia. Come ti comporti la sera prima? Hai riti?

Ho un solo rito scaramantico: una playlist di fiducia che sento sin dai tempi che combattevo. Cinque canzoni storiche, una su tutte la cover di Sound Of Silence dei Disturbed. Non ho panico o ansie, sono una persona estremamente fredda.

Quali sono i criteri di valutazione nel dettaglio?

Prima di tutto l’estetica del fisico e le proporzioni, quindi punto di vita stretto e spalle larghe. Poi la definizione muscolare, cioè il minor quantitativo di massa grassa e di acqua extra cellulare. Poi il volume muscolare mentre il quarto parametro è il carisma e la prestazione sul palco.

E tu su quali punti?

La definizione estrema. Sono il più definito della competizione e in America me lo riconoscono. Poi la presenza di palco.

Lo stereotipo che più ti ha dato fastidio?

‘Tanti muscoli e poco cervello’.

Anche perché il tuo sport non è solo pesi. C’è anche grande lavoro teorico.

Sì. Nel mio gruppo ho portato una novità che è l’equipe medica. Chi aderisce al mio team ha a disposizione un biologo molecolare, un cardiologo, un medico internista, un andrologo, un chirurgo estetico. Abbiamo coperto tutti gli ambiti del benessere nel bodybuilding.

La strada per diventare tecnico quanto è tortuosa in Italia?

Purtroppo non c’è un percorso scolastico di riferimento già battuto. Chi vuole diventare un coach di bodybuilding non ha una specializzazione in qualche facoltà universitaria. Bisogna fare un percorso scolastico rivolto all’aspetto fisiologico-scientifico, per poi lavorare con le organizzazioni di bodybuilding che possono rilasciare un certificato legato al nostro ambito. Un po’ come nel calcio: ti iscrivi a scienze motorie, poi fai il corso della Figc.

L’ambizione olimpica dei bodybuilder è ancora attuale o è un discorso chiuso?

La maggior parte degli atleti non ci pensa più. Abbiamo creato un nostro circuito, un po’ come la Nfl che ha la sua visibilità ed è contenta così. Anche senza Olimpiadi.

C’è un atleta di un altro sport che stimi particolarmente?

Steph Curry. È una persona che nel mondo del basket non ha grandi caratteristiche fisiche ma ha saputo fare dei suoi punti deboli i suoi punti di forza.  È questo che mi affascina del mondo dello sport. Adoro Shaquille O’Neal, ma chi lo ferma uno di 2 metri e 16 sotto canestro?

E chi è il Curry del bodybuilding?

Dorian Yates. Non è nato con una genetica eccellente, ma ha vinto 6 Olympia battendo persone con una genetica più ‘talentuosa’.

Schwarzenegger attore. Franco Columbu, unico italiano a vincere l’Olympia, attore. A te piacerebbe la carriera cinematografica?

Sarebbe una cosa molto figa, mi piacerebbe molto. Anche se oggi faccio fatica ad immaginare un futuro del genere, perché il mio lavoro si sta evolvendo molto velocemente. Ma ripeto: sarebbe davvero bello (ride ndr).

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