Pochi sport possono vantare una storia e un successo immarcescibile come la lotta. Sin dalle primissime edizioni dei Giochi Olimpici, nell’VIII secolo a.C., i combattimenti erano parte fondamentale del programma di gare. Nei quasi trenta secoli successivi, lo spettacolo di due uomini impegnati a superarsi a suon di pugni, calci e prese ha mantenuto immutato il suo fascino, riempiendo arene, anfiteatri, palazzetti e stadi. Ogni cultura, tuttavia, ha declinato la disciplina in miriadi di modi diversi, virando molto spesso verso lo spettacolo e la teatralità.
Al giorno d’oggi, il mondo Occidentale divide il proprio entusiasmo tra gli attori/atleti del wrestling e i più “autentici”, ma non per questo meno mediatici, lottatori di arti marziali miste. Il mondo asiatico invece ha esportato, come disciplina principe dell’immaginario collettivo, il sumo giapponese, nonché diverse arti marziali, spettacolarizzate in decine di film d’azione.
Ben pochi tuttavia conoscono il successo e la portata culturale della più famosa forma di combattimento africano – anch’essa al contempo agonistica e spettacolare –, ovvero la lotta senegalese. Stadi pieni, maratone televisive, copertine di magazine, folle di fan adoranti: immaginate in pratica di tradurre tutto il campionario pop dell’italico calcio in lingua wolof.
Il laamb, usando la corretta terminologia locale, è un’antica tradizione centrafricana e originariamente era utilizzata sia come rito iniziatico che come esercizio preparatorio per i guerrieri. Ma col passare del tempo è stata anche una forma di corteggiamento, una dimostrazione di forza e virilità e finalmente una competizione, prima tra i diversi villaggi ed oggi tra i migliori prodotti delle diverse scuole che fioriscono a Dakar e dintorni, guidate dalle vecchie glorie che – a cavallo tra gli anni ’90 e ’00 – hanno contribuito a rendere questo sport così diffuso. Nomi come Tyson, Yekini e Balla Gaye 1 nell’Africa centrale provocano lo stesso effetto e lo stesso spirito di emulazione dei “nostri” Maradona, Ronaldo, Messi.
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Le regole della lotta senegalese sono presto dette: all’interno di un cerchio di sabbia, i due contendenti hanno tre round da 15 minuti per spingere l’avversario fuori dal campo, oppure farlo cadere sui quattro appoggi, sulla testa o sul sedere. Vale tutto, spinte, prese, pugni e calci. Gli incontri vivono tipicamente di una prima fase di studio (fino a qualche minuto, nei match più tesi ed equilibrati), per poi bruciare in pochi secondi l’azione decisiva che infiamma gli spalti. In questo, ricorda molto il sumo.
La stagione agonistica non ha un calendario prestabilito: esistono appuntamenti fissi – come quello “sacro” di Capodanno, quando lo stadio Senghor di Dakar registra il tutto esaurito ogni volta – e poi le riunioni, organizzate dai “Don King senegalesi”, manager scafati e in grado di garantire cachet tra i 100 e i 250mila euro ai fuoriclasse. Negli ultimi anni, si sono svolte gare anche a Parigi Bercy, dove la comunità senegalese è numerosa e vivace: la possibilità di allenarsi, assistere o partecipare ad incontri aiuta a sentirsi meno lontani da casa e mantenere vive le tradizioni.
Ma lo spettacolo vero di questi eventi è in realtà il contorno: gli spettacoli musicali che intrattengono il pubblico, la preparazione quasi mistica degli atleti e dei loro guru, le danze e le coreografie a bordo campo riprese da fotografi e cameramen.
Perché il laamb oggi è una bizzarra fusione di tradizione e modernità: cerimonie tribali in diretta tv; riti voodoo pre-gara dopo mesi di allenamento professionale in palestra; lottatori che indossano costumi e amuleti, ma poi girano in suv e ascoltano hip hop. Ed è soprattutto l’ennesima declinazione del panem et circenses romano: uno spettacolo in grado di far dimenticare per qualche ora i problemi economici alle classi più disagiate, di far scendere in strada caroselli festanti invece che cortei e manifestazioni, di regalare un sogno effimero ai giovani che cercano una strada facile verso i soldi e la fama.
Lo storico match del 2010 Yekini vs Tyson