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Tennis, il mito dei lucky losers: quando una sconfitta vale più di cento vittorie

Horacio Zeballos - Foto Ray Giubilo

Qualche giorno fa, in un campo secondario del Crandon Park Tennis Center, Horacio Zeballos abbandonava il torneo di Miami, sconfitto al turno decisivo delle qualificazioni dal giapponese Nishioka. Un inizio di stagione anonimo, qualche semifinale a livello Challenger, una sola apparizione nel circuito Atp, le finanze che languivano in attesa di un exploit che contribuisse a rimpinguarle.

Questo sembrava il suo ineluttabile destino, a poche ore dall’inizio dell’attesissimo match tra Federer e Del Potro. Peccato che le gemelline di Roger, dopo esser state causa indiretta del crack del suo menisco (lo svizzero ha dichiarato di esserselo rotto preparando il bagnetto per le figlie), non ancora soddisfatte hanno pensato di prolungare l’assenza dal circuito del padre, contagiandolo con un virus intestinale che lo ha messo ko prima del match. Forfait di Federer, e Zeballos che viene ripescato in tabellone per giocare un derby argentino contro Del Potro. Una bella fortuna, anche in termini economici, perché quei 20mila dollari assicurati dal secondo turno fanno gola a tutti, soprattutto a chi è abituato a confrontarsi con i ben più modesti prize money del circuito Challenger. Peraltro, il nuovo metodo di selezione dei “lucky losers” non lasciava assoluta certezza di ripescaggio, dato che dall’anno scorso i tornei Atp hanno adeguato i loro criteri di selezione dei “fortunati perdenti” a quelli già vigenti negli Slam: sorteggio tra i due giocatori di ranking più alto usciti sconfitti dal turno decisivo di qualificazioni, e rispetto dell’ordine di classifica per eventuali subentranti ulteriori. Ciò per evitare qualche “biscottone” poco consono al dovere di lealtà sportiva, con i giocatori già certi di essere ripescati che disputavano in maniera poco professionale l’ultimo match delle qualificazioni, a quel punto irrilevante per l’accesso al main draw. Ma la fortuna ha arriso in tutto e per tutto al mancino di Mar del Plata, che ha prevalso nel lancio della monetina sull’altro pretendente, il brasiliano Dutra Da Silva.

Quando poi, una volta sceso in campo, si è accorto che dall’altra parte della rete l’avversario accusava nuovamente dolore a quel maledetto polso sinistro, ecco sopraggiungere il pensiero che più che un semplice colpo di fortuna potesse essersi verificato un allineamento di pianeti dalla cadenza millenaria, in grado di rendere irripetibile quella giornata. E così, nel giro di qualche ora, il portafogli prima vuoto riacquista peso, consentendo di trascorrere una Pasqua di maggior spensieratezza, e all’onta di un’eliminazione prematura si sostituisce il vanto di un prestigioso terzo turno raggiunto in un Masters 1000. Poco importa che, più che il suo dritto mancino, un ruolo decisivo lo abbia giocato il fattore aleatorio, più prosaicamente definito fattore C. Il successivo match contro Fernando Verdasco rappresenta l’occasione ideale per dimostrare la fondatezza del motto latino “audaces fortuna iuvat”. Nonostante un primo set dominato dallo spagnolo, il nostro eroe Horacio (ormai lo vogliamo immaginare protagonista di un racconto epico) ha un moto d’orgoglio nel secondo parziale. Un set pari, si decide tutto al terzo. Zeballos fa una fatica terribile per salvare i propri turni di servizio, ma Verdasco non è in grado di approfittarne, nemmeno quando il suo avversario accusa dolore all’adduttore della gamba destra e zoppica tra un cambio di campo e l’altro. Miracolosamente (sarà l’intervento degli dei del tennis, spesso propensi ad aiutare l’eroe in difficoltà?) si arriva al tie-break decisivo, con la folta rappresentanza di argentini tra il pubblico di Miami letteralmente impazzita, conquistata dalla tenacia del connazionale. A questo punto il lieto fine è quasi inevitabile. Zeballos si aggiudica il tie-break, inutile il disperato ricorso all’occhio di falco da parte di Verdasco, in occasione dell’ultimo punto. I 36mila dollari diventano 60mila, uno dei risultati migliori in un Masters 1000 diventa IL risultato migliore in un Masters 1000, e quasi risulta secondario il balzo di oltre venti posizioni in classifica mondiale. Il tutto ottenuto in un torneo dal quale era stato eliminato nel corso delle qualificazioni. La sua avvincente storia insegna come il fattore aleatorio possa influenzare in maniera decisiva le stagioni, a volte le carriere dei giocatori di tennis. Avendo raccontato le gesta dell’eroico Horacio come protagonista di un mito, perché non spingersi oltre l’immaginabile, sognando l’argentino persino vincitore del torneo, un’impresa quasi utopistica che la storia insegna però non essere impossibile.

Se vi racconteranno che è esistito qualcuno in grado di vincere un torneo pur perdendo una partita, voi, fieri della vostra cultura in materia, ricorderete che ciò effettivamente può verificarsi, al Master di fine anno. Djokovic lo scorso anno (ma anche Federer nel passato recente) si laureò campione pur avendo perso un match nel girone. Ma quando vi risponderanno che esistono ulteriori esempi oltre al Master, le vostre approfondite conoscenze vi condurranno al girone dantesco dedicato a quegli anarchici dei lucky losers. Giocatori bloccati su un taxi diretto all’aeroporto il lunedì e inattesi vincitori la domenica. Esempi più recenti son stati Stakhovsky a Zagabria nel 2008 (dove l’ucraino si aggiudicò il primo torneo in carriera, sconfiggendo, tra gli altri, i padroni di casa Karlovic e Ljubicic) e Rajeev Ram a Newport l’anno successivo. Ma ancor più indietro nel tempo Heinz Gunthardt a Springfield e Bill Scanlon a Maui, entrambi nel 1978, Francisco Clavet a Hilversum nel ’90 e Christian Miniussi a San Paolo nel ’91. Sei eroi di una categoria a numero chiuso. Ma le leggende dei lucky losers non narrano solamente di tornei vinti.

Qualcuno ricorderà che gli Australian Open del 2014 non passarono alla storia solo per la sorprendente prima vittoria Slam di Stan Wawrinka, ma anche per la miriade di ritiri prima e durante gli incontri, principalmente causati dalle temperature record raggiunte a Melbourne quell’anno (è lo Slam in cui il canadese Dancevic dichiarò di aver visto Snoopy in campo, evidentemente in dubitabile stato di capacità di intendere e di volere). Fu così che il terzo turno oppose due lucky losers, Stephane Robert e Martin Klizan. Robert vinse quell’incontro, e si regalò un ottavo di finale contro Andy Murray, strappandogli anche un set prima di abbandonare il campo sommerso da un’ovazione di applausi. E con 125mila dollari in più in tasca.

David Goffin emerse per la prima volta su palcoscenici importanti al Roland Garros del 2012, quando da lucky loser giunse fino agli ottavi di finale, prima di soccombere in 4 set contro il suo idolo Roger Federer. Il suo connazionale Dick Norman, nell’edizione del 1995 di Wimbledon, si tolse la soddisfazione di eliminare due ex campioni dei Championships quali Cash ed Edberg, prima di cedere a Boris Becker in ottavi di finale.

Anche per l’Italia, l’espressione “lucky loser” rievoca dolci ricordi a livello Slam. A Wimbledon, Simone Bolelli andò a un passo dal quarto turno nel 2014, battuto solo al quinto set da Kei Nishikori, dopo aver eliminato Kohlschreiber. Flavio Cipolla conduceva 2 set a 0 contro Wawrinka nel terzo turno degli Us Open del 2008, prima di crollare e racimolare otto games nei successivi tre set.

Anche qualche astro nascente dei giorni più recenti ha un passato da lucky loser da confessare. Borna Coric, nonostante i suoi 19 anni, può già vantare nel suo curriculum le vittorie su due Fab Four. Una di queste, contro Murray, fu ottenuta nei quarti di finale di Dubai lo scorso anno, in un torneo che lo aveva visto soccombere nel turno decisivo di qualificazioni contro il modesto francese Martin, ma nel quale si è poi involato da ripescato fino alla semifinale persa contro Federer.

La storia abbonda, dunque, di sconfitte dal lieto fine. Ecco perché ci piace sognare Horacio Zeballos protagonista di un’altra impresa, ancor più grande di quella già realizzata, che lo collochi al vertice della categoria dei “fortunati perdenti”. Sostenuto da contingenze astrali e dall’intervento diretto degli dei del tennis, lo immaginiamo in grado di sovvertire ogni pronostico, superare ogni ostacolo che gli si pari di fronte, accompagnato da quella targhetta, che suona quasi come razzista, di “lucky loser”. Lo vediamo arrivare fino in fondo, perché no, a sollevare il trofeo, dopo aver distrutto il mito dell’immortalità di Novak Djokovic in semifinale e spazzato ogni velleità di gloria di Andy Murray in finale. Vogliamo sognare che la storia possa essere riscritta, ancora una volta, e affiancare a quell’espressione denigratoria “lucky loser” l’aggettivo “vincente”, nel più dolce ossimoro che ogni tennista possa immaginare.

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