Ciclismo

Dodici anni senza Marco Pantani

Marco Pantani - Foto Hein Ciere CC BY 3.0

Passa il tempo e il traguardo di San Valentino diventa sempre più doloroso per chi ama il ciclismo e lo sport. Da dodici anni la festa degli innamorati coincide, infatti, con l’anniversario della morte di Marco Pantani, con annesso carico di rimpianti. E se fiori e cioccolatini non bastano ad addolcirne il ricordo, proviamo almeno a chiudere gli occhi e a immaginarcelo ancora lì a danzare in piedi sui pedali, mentre fa l’amore con l’asfalto delle grandi montagne. Facciamo finta di esserci appena svegliati da un brutto sogno e riviviamo insieme le imprese più belle del Pirata di Cesenatico, lo scalatore venuto dal mare, che tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio stregò l’Italia intera, riportando il ciclismo indietro di cinquant’anni, ai fasti dell’epica rivalità tra Gino Bartali e Fausto Coppi.

Marco Pantani esordisce tra i professionisti con la maglia della Carrera nel 1993, nell’era di Miguel Indurain. Se lo spagnolo è un freddo calcolatore, sono gli attacchi in salita dello scricciolo romagnolo a infiammare le folle. La consacrazione definitiva arriva al Tour del 1995. È il 12 luglio e i mitici tornanti dell’Alpe d’Huez certificano la nascita di una stella: Pantani scatta a dodici chilometri dalla vetta e annichilisce i più forti ciclisti del mondo. Dopo aver ripreso uno dopo l’altro i reduci della fuga di giornata, va a vincere da solo, lassù dove le più grandi leggende della storia di questo sport hanno inscritto, almeno una volta, il proprio nome.

Tuttavia, anche negli anni migliori, il Pirata è perseguitato dalla sfortuna e dagli incidenti, con picchi da tragedia classica che accomunano la sua parabola a quella del grande Fausto Coppi da Castellania. È il 18 ottobre del ’95 quando un fuoristrada fa irruzione nel percorso di gara della Milano-Torino e lo investe in pieno, procurandogli una frattura esposta-scomposta di tibia e perone sinistro che ne mette a serio rischio la carriera. Pantani torna in sella negli ultimi mesi del 1996, in preparazione alla stagione successiva. Nel frattempo lascia la Carrera per passare alla Mercatone Uno, che gli ha costruito una squadra al suo completo servizio. Ma il motivo del tragico, questa volta nelle sembianze di un gatto, gli rovina ancora i piani, perché al Giro d’Italia del ’97, nella discesa del Chiunzi, l’incauto animale attraversa la strada al passaggio del gruppo; nuova caduta e addio corsa rosa. Si riprende in tempo per il Tour de France, dove torna a volare. Il 19 luglio 1997 avviene il commovente ricongiungimento con la “sua” Alpe d’Huez: la leggendaria montagna ricambia l’emozione e s’inchina per la seconda volta all’amante prediletto. Pantani freme, al terzo tornante è già in piedi a menare l’andatura con la rabbia di chi è rimasto in disparte per troppo tempo. L’ultimo a perdere la sua ruota, a 10 chilometri dal traguardo, è la maglia gialla, il tedesco Jan Ullrich. Quando arriva in cima, per la prima, e forse unica, volta ha un’espressione viva invece del solito volto triste e angosciato. C’è tutto in quell’esultanza: grinta, gioia, consapevolezza e anche sofferenza, certo. E poi un chiaro e forte messaggio recapitato a tutti i rivali: “Il Pirata è tornato”.

Arriviamo spediti al 1998, l’anno che regala a Marco Pantani la patente della gloria eterna con la doppietta Giro-Tour, un privilegio per pochi intimi nella storia del ciclismo. Sono due i momenti decisivi per l’impresa. Al Giro d’Italia la frazione di Plan di Montecampione del 4 giugno: il Pirata, già in maglia rosa, è protagonista di un duello spettacolare con il suo avversario diretto, Pavel Tonkov. I continui scatti del romagnolo sulla salita finale prosciugano il russo metro dopo metro, sino alla resa definitiva ai meno due chilometri dal traguardo. Il secondo capolavoro, quello in terra francese di qualche settimana più tardi, è un’azione d’altri tempi, epica allo stato puro. È il 27 luglio, quindicesima tappa da Grenoble alle Deux Alpes. Piove e fa un gran freddo. Pantani, che in classifica deve recuperare diversi minuti a Jan Ullrich, decide di far saltare il banco a circa 50 chilometri dal traguardo. Scatta in faccia alla maglia gialla sul Col du Galibier e fa il vuoto. Il tedesco rivedrà la bandana del fuoriclasse di Cesenatico soltanto al traguardo, giusto in tempo per cedergli il simbolo del primato. “C’est un geant”, titola l’Équipe in prima pagina il giorno seguente. Uno scricciolo di 172 centimetri per 54 chili giganteggia sulle strade della Grande Boucle. Sulle pagine di Repubblica, invece, il solitamente imparziale Gianni Mura scomoda citazioni letterarie per l’incipit del suo articolo: “M’illumino di Pantani”. Trentatré anni dopo Felice Gimondi (1965) un italiano torna sul gradino più alto del podio di Parigi. L’Italia è ai suoi piedi.

Ma il passo dal paradiso all’inferno è rapido. La morte figurata di Madonna di Campiglio 1999, quando viene espulso a due tappe dalla fine di un Giro d’Italia dominato per un tasso di ematocrito superiore al limite consentito, mette a nudo tutte le fragilità del Pantani uomo. La sospensione di quindici giorni a tutela della salute gli consentirebbe in linea teorica di presentarsi regolarmente al Tour de France, ma da quella batosta morale il Pirata non si riprenderà più. Entra nel tunnel della depressione, dove tutto è buio, dove la cocaina sembra l’unico palliativo per alleviare il dolore e l’onta del pubblico disonore. Il canto del cigno lo inscena a Courchevel, al Tour del 2000. Il Pantani corridore si spegne con quella straordinaria vittoria di orgoglio (tanto) e gambe (molte meno). Anche perché in Francia non è più un ospite gradito, ma un’icona negativa, un malato a rischio contagio da isolare. Abbandona progressivamente la vita da atleta. Si sente solo e perseguitato, si circonda di brutte compagnie. È una lenta agonia, la stessa, come aveva rivelato a Gianni Mura, che cercava di abbreviare in corsa appena la strada iniziava a salire. Questa volta, però, non sono previsti arrivi a braccia alzate ad alta quota, né le urla entusiaste della gente. C’è soltanto una sofferenza infinita, di quelle che conducono a un traguardo sì, ma il peggiore possibile. Il contesto spazio-temporale del dramma è San Valentino 2004, residence “Le Rose” di Rimini. Il resto è storia nota.

Marco Pantani è un personaggio che divide. Per alcuni è il simbolo del ciclismo malato della sua epoca, per altri un eroe senza tempo che ha saputo riscaldare i cuori della gente, regalando emozioni indimenticabili; un campione rovinato da oscuri giochi di potere. La verità assoluta, purtroppo, non la sapremo mai. Di certo non mancano le incongruenze, sia sui fatti di Campiglio, con l’ombra delle scommesse gestite dalla camorra, sia sulla misteriosa morte. È bene che la magistratura continui a battere il ferro su entrambi i fronti (è di questi giorni la notizia dell’iniziativa dell’attore Sebastiano Gavazzo, che ha lanciato sul sito Change.org una petizione, invitando a procedere con le indagini), così com’è giusto che la famiglia prosegua la propria battaglia legale. Tutti gli altri che l’hanno amato e rimpianto in questi anni di vuoto, invece, potrebbero trovare conforto nella convinzione che la luccicante pelata dello scalatore venuto dal mare si sia spenta spontaneamente. Che se ne sia andato dopo aver capito che non sarebbe stato più possibile sopravvivere a se stesso. D’altronde, un vero eroe non aspetta che gli crescano le rughe per volare nel firmamento dedicato agli dei dello sport. Quando Gianni Brera provò a motivare l’improvvisa e prematura dipartita del Campionissimo Fausto Coppi, stroncato dalla malaria, utilizzò più o meno queste parole.

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