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Younes El Aynaoui: “La partita con Roddick un orgoglio”

El Ayanoui - Foto Moroccan sky - CC-BY-SA-3.0

Younes El Aynaoui non ha bisogno di presentazioni. Esponente di maggior rilievo del tennis marocchino a cavallo tra le fine gli anni ’90 ed i primi del 2000, il tennista di Rabat ha raggiunto un best ranking al 14esimo gradino del ranking mondiale e conquistato 5 titoli Atp. All’interno del programma podcast intitolato  “Tennis ai tempi del Coronavirus” a cura di Luca Fiorino, Younes ha ripercorso la sua carriera tra simpatici aneddoti e numerosi spunti di riflessione: dalle marcate differenze tra il tennis di ieri e quello di oggi, passando per il rapporto con gli altri tennisti africani, concludendo con l’incredibile match perso 21-19 al quinto nei quarti di finale degli Australian Open contro Andy Roddick. Un incontro, grazie anche allo splendido abbraccio finale tra i due, entrato di diritto nella storia del tennis.

Sei a Parigi in questo momento. Com’è lì la situazione coronavirus?

“Per fortuna ho un giardino in casa, visto che non si può uscire. Sono 15 giorni che stiamo aspettando notizie migliori, non nego ci sia un po’ di paura. Sono qui con mia moglie e mio figlio, il più piccolo dei 4”.

A Rabat, dove sei nato, sei un’istituzione.

“Sì, sono a Parigi per lavoro. Il cuore però è in Marocco, anche lì la situazione è critica come nel resto del mondo. Spero la situazione migliori rapidamente”.

Nel 2018 ad Antalya hai giocato il tuo ultimo torneo in un Futures ad Antalya, nonostante fossi lì come coach.

“Sì, anche se com’è normale che sia non avevo più la mentalità di prima. Lo faccio per puro piacere, ma non voglio rubare la scena ai più giovani. Seguo molti ragazzi francesi intorno alla 400esima posizione mondiale, sono loro che devono avere spazio”.

Puoi farci qualche nome?

“In questo momento sto allenando Matteo Martineau (423 Atp, ndr) , che a Settembre ha vinto un Futures in Italia, a Piombino. Un altro è Antoine Cornut-Chauvinc (505 Atp, ndr). L’anno scorso ho lavorato con gli under 18 per la Federazione Francese, quest’anno ho intrapreso questo cammino con due ragazzi motivati e che fanno continui sacrifici, che spero siano ripagati”.

Parli benissimo in italiano.

“Mi è sempre piaciuto l’italiano, anche se è forse la lingua che parlo peggio delle 6 che so. Ho giocato molte volte a Napoli e a Merano, mentre a Torino sono stato legato a Riccardo Piatti. L’Italia è un paese in cui si vive e si mangia bene, la gente è appassionata di tennis e di sport in generale, quindi è venuto spontaneo interessarmi”.

Com’è iniziata la collaborazione con la Federazione Francese? Mi dicevi che state lavorando per il Roland Garros…

“Sì, penso sia corretto aver rimandato il torneo a Settembre. Per me era impensabile giocare senza pubblico. Bisogna necessariamente pensare ad un nuovo calendario, anche se non sarà facile. Sono due anni che lavoro con la Federazione, il centro è proprio nella struttura che ospita il Roland Garros: siamo circa 20 allenatori, ognuno si occupa di 2-3 atleti tra under 18 e professionisti”.

Al momento si parla di sospensione fino al 13 luglio.

“Qui in Francia, come in Spagna, stanno pensando di creare un circuito nazionale per agevolare i giocatori a tornare alla competizione. Probabilmente l’ultima cosa che sarà concessa sarà varcare il proprio confine nazionale, quindi la nostra Federazione sta cercando un modo per tutelare i suoi giocatori. Al momento è tutto chiuso, circoli compresi”.

Hai detto che hai un bel rapporto con l’Italia, anche se a Roma non hai vinto tantissimo.

“Ho giocato belle partite, ricordo una partita al terzo con Kafelnikov ma oggettivamente non ho fatto benissimo. Ho bei ricordi del torneo junior di Santa Croce, in uno dei miei primi viaggi fuori dal Marocco per giocare a tennis. Mi regalarono un paio di scarpe stupende. Dopo ho disputato anche il Bonfiglio a Milano: per me era un sogno. Ho giocato anche  l’Interclub, dove ho fatto amicizie importanti sia con la vecchio che con la nuova scuola dei giocatori italiani”.

Hai vissuto una carriera molto lunga. A 17 anni ti sei spostato da Bollettieri in Florida.

“Ho iniziato tardi a giocare seriamente. Ho finito la scuola a 17 anni in Marocco, ricordo che quando esprimevo a mio padre la voglia di intraprendere una carriera professionistica lui non era d’accordo. D’altronde anche nei tornei juniores difficilmente vincevo partite, il mio livello era molto basso. La musica è cambiata col mio trasferimento in America, quando ho iniziato a focalizzarmi in tutto e per tutto sul tennis”.

È vero che guidavi gli autobus e pulivi la palestra per mantenerti?

“Sì, è vero. Inizialmente facevo il maestro la mattina e mi allenavo il pomeriggio, senza guadagnare nulla. Dopo 3 mesi ho cercato di allenarmi tutto il giorno cercando di lavorare per mantenermi. Per me era la situazione ideale, cosa che non sono riuscito ad ottenere in Marocco”.

A tal proposito quali sono le principali difficoltà che può incontrare un giocatore africano?

“Le strutture ci sono, ma non sono accessibili a tutti. Questo è profondamente sbagliato. Sono pochi gli atleti che nascono fenomeni, l’80% dei professionisti  sono costruiti sulla base del loro sogno e sul lavoro quotidiano. In Marocco ad esempio ci sono molti ragazzi tra i 12 ed i 13 anni che giocano molto bene, ma a molti manca quello spirito di sacrificio e la voglia di arrivare che fa la differenza. È un problema sicuramente generale, anche in Francia è così”

Quali sono secondo te le principali differenze tra il tennis dei primi anni 2000 rispetto a quello odierno?

“Io ho smesso nel 2005. Prima era un altro mondo, un giocatore aveva al massimo un coach al seguito, non un intero staff che lo seguiva in giro per il mondo. Oggi è tutto più professionale, anche se onestamente preferivo più lo spirito della mia epoca, quando anche tra tennisti si faceva gruppo. Dal punto di vista tecnico il tennis è diventato più fisico, si tende sempre più a ‘spaccare la palla’ a scapito delle variazioni di velocità. Sono interessanti le statistiche delle Academy Itf: il 70% dei punti finiscono con un errore, solo il 30% con un vincente. Si tende a scambiare tanto da fondo e si predilige sempre più il rovescio, soprattuto nel mondo Wta”.

Cosa pensi del futuro del tennis al ritiro dei big three?

“Credo sia in buone mani. Basta guardare al Canada, con Auger-Aliassime o Shapovalov. Mi piacciono anche Rublev e Sinner, credo ci sarà da divertirsi. L’importante credo sia non forzare il loro processo di crescita: non credo sia sano indirizzare un bambino in tenera età solo sul tennis, sul modello Agassi. Quando sarà cresciuto non saprai mai se tutti i risultati che avrà ottenuto saranno saranno scaturiti dalla sua passione o sono solo il frutto di un progetto dei genitori. Io ho 4 figli e nessuno gioca a tennis: uno di loro è una promessa del calcio, ha 18 anni e attualmente è nella squadra riserve del Nancy”.

In carriera hai vinto 5 titoli Atp. A quale sei maggiormente legato?

“Sinceramente mi fa male aver perso 12 finali Atp (ride, ndr). Sono legato maggiormente al torneo di Casablanca, quando riuscii a trionfare in finale su Guillermo Cañas con la mia famiglia lì a sostenermi. Quando avevo il sostegno del pubblico giocavo decisamente meglio”.

Hai vinto tantissime partite contro top ten. Qual era il giocatore con cui ti trovavi meglio e che soffrivi meno?

“Mi trovavo bene con i giocatori che davano tanto spin alla palla, come Muster o Bruguera. Riuscivo spesso a girarmi di dritto e a tirare forte inside-out. Mentre giocatori come Kafelnikov o Sampras li soffrivo parecchio, perché imprimevano velocità e ti toglievano il tempo. La mia bestia nera era sicuramente Agassi, con lui ho perso 6 volte su ogni superficie. La mia battuta non mi aiutava, avendo lui una riposta sontuosa: è certamente il giocatore che soffrivo di più”.

Cosa pensi di Rafa Nadal? Avresti immaginato questo dominio sulla terra battuta?

“Era prevedibile. Ci ho giocato agli Us Open 2003, vinsi in tre tie-break e l’anno successivo trionfò al Roland Garros. Rafa è un vero esempio per tutti, dentro e fuori dal campo. Credo che lo stop lo abbia danneggiato e non poco, aveva molte possibile di vincere un altro titolo a Parigi”.

E di Federer?

“Ci ho giocato quando era intorno alla 35esima posizione del ranking mondiale. Quando guardavi nel suo box capivi che sarebbe diventato un giocatore forte: era circondato da addetti ai lavori e sponsor. Quel che impressionava era l’atteggiamento in campo, da vero professionista. Si è sempre allenato tantissimo ed i risultati si sono visti”.

Una tennista africana di sicuro talento è Ons Jabeur. Un parere?

“Ha vinto il Roland Garros Jr, quindi già a 17-18 anni aveva un livello molto alto. Ha sempre avuto talento e mano, quel che è le è mancato inizialmente è stata la parte fisica. Non era pronta per il mondo Wta. Ora è migliorata sotto quell’aspetto, si muove meglio e con il braccio che ha può fare quello che vuole”.

Qual è il tuo rapporto tennistico è umano con gli altri tennisti marocchini? Da Hicham Arazi a Karim Alami…

“Siamo fratelli. Ci accomunano tanti ricordi, dai tempi junior fino ad oggi. Tanti aneddoti non li posso raccontare (ride, ndr). Ricordo con simpatia un match in coppia con Arazi a Wimbledon: avevo giocato precedentemente il singolare, ero stanco e ad un certo punto mi è scappato un peto. Hicham lo sentì e mi prese in giro, è stato divertente. Con Karim invece ho un rapporto speciale: da qualche mese è morto suo figlio a causa di un incidente in scooter, ho avuto modo di rivederlo in Qatar al suo funerale, in una situazione certamente triste. Ma per me è sempre una gioia rivederlo”.

Ricordi il match contro Volandri in Coppa Davis?

“Sì, ricordo che non stavo bene. Persi 3 set a 0, avevo un fastidio sotto al piede ma lui giocò alla grande. Non avevamo molte chances onestamente contro l’Italia, anche percnè spesso a turno uno di noi stava poco bene. La Coppa Davis è un po’ il rimpianto della mia carriera”.

Cosa ne pensi del nuovo format? 

“Ho avuto la fortuna di giocare la vecchia Davis. Non mi è piaciuta l’idea di disputarla tutta in una settimana, qualcosa secondo me va rivisto”

Ultima domanda: che ricordo hai della partita contro Roddick negli Australian Open 2003?

“Da quella partita diventai famoso in tutto il mondo, soprattutto per il gesto di fair play a fine match. Uno dei pochi incontri che ho perso ma che non mi hanno reso triste. Anzi, ne sono tutt’ora orgoglioso. Ho avuto match point per andare in semifinale, ma ci sono stati più aspetti positivi che negativi”.

Ascolta “A tu per tu con Younes El Aynaoui” su Spreaker.

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