Editoriali

Doping, Efimova e Phelps. Squalifica a vita? Non è mica un ergastolo

Julia Efimova - Foto profilo ufficiale FB

E tanto piovve che alla fine Michael Phelps tuonò.

Lo Squalo di Baltimora, reduce dal 21° oro olimpico, ha attaccato pesantemente la russa Yulia Efimova, vincitrice dell’argento nei 100 rana e in passato squalificata per doping nonché battente bandiera russa, dicendosi “incazzato” per il fatto che lei potesse competere.

Apriti cielo. In tanti gli han dato ragione, altri hanno difeso la Efimova in nome del garantismo ed è intervenuto persino il Cio, invitando a rispettare gli avversari. Annotazione a mio avviso inopportuna, visto che il rispetto non è dovuto ma va conquistato e non si può obbligare chicchessia a rispettare qualcun altro. Vorrei però provare a fare l’avvocato del diavolo (o dell’angelo, a seconda dei punti di vista) su un tema che anche in Italia è attuale, visto che è stato oggetto di discussione quando Tamberi ha attaccato Schwazer. Al di là della successiva evoluzione della storia, ancora in itinere, all’epoca mi feci una domanda. Premesso che ci sono delle regole e che, finché ci sono, chi torna dopo una squalifica ha il sacrosanto diritto di farlo, è giusto sostenere che chi viene trovato positivo debba essere squalificato a vita?

Solitamente chi sostiene la squalifica a vita viene bollato come draconiano e gli viene detto che tutti hanno diritto a una seconda opportunità. Concetto nobile, ma che non è attinente ai casi di doping nello sport. Quando si parla di seconda opportunità? Quando una persona commette un reato e viene messa in galera. La tesi, compiutamente applicata in alcune nazioni, è che anche di fronte al più efferato dei reati sia necessario provare a redimere la persona, cosa che esclude pena di morte e carcere a vita tra le sanzioni applicabili. Non tutti gli stati la pensano così e non per questo non sono democratici, ma personalmente credo che la strada verso una democrazia moderna passi anche per il concetto di rieducazione. Quindi sì, tutti meritano una seconda opportunità.

E allora perché sono d’accordo con la squalifica immediata a vita per casi gravi di doping?

Perché dare una seconda opportunità significa permettere a una persona di ricostruire la propria vita, mica restituirgliela così com’era prima. Guardiamo la cosa da un’altra prospettiva: se un atleta si dopa mette in atto una pratica scorretta riguardante il proprio lavoro. Ora proviamo ad immaginare la Efimova, Schwazer o Vinokourov, tanto per citare qualche ripescato eccellente, come impiegati di un ufficio anagrafe. Anche in quel mestiere sbagliare è possibile e ci sono errori più o meno gravi. Se il funzionario, per dire, non sbriga delle pratiche burocratiche che andrebbero fatte subito, può incorrere in sanzioni ma, salvo che la cosa sia reiterata, non corre il rischio di essere licenziato. Cosa succede, però, se l’impiegato timbra il cartellino e poi se ne va a fare i comodi suoi lasciando il suo ufficio vuoto? Semplice: viene denunciato e, se giudicato colpevole, licenziato.

E cosa succederebbe se l’avvocato di un impiegato “fantasma” chiedesse il reintegro del suo assistito dicendo che “tutti hanno diritto a una seconda opportunità”? Ve lo dico io: verrebbe investito da una valanga di pernacchie. “La seconda opportunità ce l’ha, mica ha preso l’ergastolo. Trovasse un altro lavoro e ricostruisse la sua vita”. È così ed è giustissimo, perché altrimenti bisognerebbe restituire il posto, tanto per dire, anche a un insegnante che mette le mani addosso a un bambino.

Bene, la mia opinione è che con gli atleti accusati di doping bisognerebbe applicare lo stesso ragionamento. Prendiamo violazioni accidentali, derivanti da farmaci per uso terapeutico, contaminazioni alimentari dimostrate o omissioni burocratiche: in quei casi la squalifica a vita sarebbe eccessiva. Ma in casi di assunzione di doping verificata e per la quale non si riesce a provare l’accidentalità, non capisco perché alle persone in questione vada data la possibilità di tornare a svolgere il lavoro di atleta dopo che hanno tentato una vera e propria truffa. Sì, perché di truffa si tratta, signori: chi vince ha introiti diretti (premi) e indiretti (pubblicità) e dopandosi prova a sottrarli a un collega che ha lavorato onestamente.

Un furto, senza mezzi termini. Voce del verbo rubare.

Purtroppo uno dei limiti dello sport è che la gente lo considera un mondo a parte ed è abituata a ragionare a botta di tribunali speciali. L’autonomia dello sport è stata pompata a dismisura e al giorno d’oggi, se da un lato sembra normalissimo non reintegrare l’impiegato comunale che prende lo stipendio a scrocco, dall’altro sembra assurda la squalifica a vita di un calciatore strapagato. Solo che il primo imbroglia per poche migliaia di euro, il secondo per milioni.

E non c’entra la differenza tra pubblico e privato: a parte che si parla di salute, ma comunque gli eventi collegati a una Federazione hanno carattere pubblico e anche nel più “privato” degli sport ci sono delle regole. Nel tennis puoi essere il numero 1 ma se non hai un minimo di partecipazioni a Davis o Fed Cup, manifestazioni non gestite dall’Atp, non vai all’Olimpiade.

Allora sarebbe davvero così sbagliato prendere un atleta imbottito di sostanze dopanti e dirgli “Caro mio, nella vita farai altro”? Non si parla di ammazzarlo, né di metterlo in galera e buttare la chiave, ma solo di dirgli che dovrà organizzarsi diversamente. Magari studiare o imparare un lavoro meno retribuito, fatti suoi: lo fanno miliardi di persone, non sarà mica questa gran tragedia?

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