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Tour de France o Tour de l’ennui? La Grande Boucle numero 103 ha vissuto il suo momento più emozionante con la corsetta, goffa e istintiva, dell’appiedato Chris Froome sul Mont Ventoux. Una figura da cioccolatai, non in linea con la storia e il prestigio della competizione ciclistica più importante del mondo, è diventata la cartolina dell’edizione 2016, che per il resto si è dipanata in un mare di noia. Un’uggiosa monotonia fatta di scatti, scattini e strategie cervellotiche che hanno accentuato lo strapotere del Team Sky e dal suo condottiero.
SUPERIORITÀ SKY – Sia chiaro, nessuna colpa va ascritta al “kenyano bianco”, che, anzi, si è reso protagonista di un paio di attacchi inediti in discesa (8ª tappa) e pianura (11ª tappa), mettendo in mostra una capacità d’inventiva finora sconosciuta. E poi che male c’è se disponi di un budget superiore e lo sfrutti per costruire una corazzata con l’unico obiettivo stagionale di arrivare in maglia gialla a Parigi? L’armata neroblu ci ha riportato indietro di una decade, ai tempi della dittatura – che poi si scoprì viziata dalle emotrasfusioni – di Lance Armstrong e dei suoi “postini”. Non ha dato noia l’autorità con cui Froome e compagni hanno menato le danze, ma il discutibile atteggiamento degli avversari, che si sono inchinati ancor prima di iniziare a combattere. Già non essere riusciti mai a isolare il fuoriclasse britannico è indice di una resa annunciata: emblematico l’arrivo di Morzine, con la maglia gialla che ha tagliato il traguardo circondato da quattro gregari al termine di un tappone alpino di rara difficoltà.
IMMOBILISMO – Nonostante un percorso effervescente, disseminato di salite come non lo si vedeva da tempo, Quintana e gli altri uomini di classifica si sono cullati in un immobilismo dettato più dalla paura che dalla mancanza di gambe. Per esempio, è inaccettabile che soltanto l’Astana di Fabio Aru abbia provato a cambiare passo in alcuni momenti della corsa, aumentando il ritmo per fare selezione e chiudere sulle fughe. E la Movistar dov’era? E l’Ag2r? E la Bmc? Perché non hanno collaborato con il team kazako? Si è andati avanti per inerzia, fedeli al motto dell’“oggi limitiamo i danni, domani chissà…”. Peccato che il 24 luglio sia arrivato in un amen a reclamare il conto e, a furia di rimandare l’azione decisiva, Froome abbia trionfato dando la sensazione di aver raggiunto il massimo risultato con il minimo sforzo. Solletichi più che attacchi mirati a spodestare il re, convinzione prossima allo zero e passività a tratti irritante. Ecco perché diversi corridori – e direttori sportivi – finiscono inevitabilmente dietro la lavagna.
FUGHE – Nell’economia delle tre settimane alcune frazioni si sposano alla perfezione con il concetto di fuga, ma quando ci sono arrivi in salita che mettono in palio preziosi abbuoni è stucchevole dover fare i conti con la solita lagna delle due corse parallele, cioè una per la vittoria di tappa e l’altra per la classifica generale. Anche perché nel ciclismo moderno, caratterizzato da distacchi livellati, l’attesa spasmodica dello scatto buono sull’ascesa finale si trasforma sempre più spesso in un supplizio. Per riprendere una celebre commedia di Shakespeare “molto rumore per nulla”. È proprio in tappe di questo tipo, invece, che le altre squadre avrebbero dovuto collaborare. Per tre ragioni: rendere dura la corsa fin dai primi chilometri, tenere a bada i fuggitivi su distacchi colmabili e provare a “far fuori” qualche scudiero del padre padrone. Lo abbiamo visto nella terzultima tappa di venerdì e solo per merito dell’Astana. È chiaro che non poteva essere sufficiente una formazione per far crollare il castello messo in piedi dalla Sky.
AVVERSARI – Hanno preferito consolidare le proprie posizioni piuttosto che osare. La fortuna, si dice, aiuta gli audaci, ma non sia mai che per tentare il ribaltone si perdano due o tre caselle in classifica generale. Froome avrebbe vinto ugualmente con tutta probabilità, ma forse ci saremmo goduti ben altro spettacolo. Di certo il ritiro prematuro di un artista del pedale come Alberto Contador, messo k.o. da due cadute nei primi giorni, non ha giovato: il madrileno resta il corridore di maggior fantasia al pari di Vincenzo Nibali. A proposito dello “Squalo”: ha cercato di regalarci un lampo di classe a tempo scaduto, ma il ruolo di gregario e di cacciatore di tappe non gli si addice. Giusto comunque far prendere a Fabio Aru confidenza con il Tour. Il sardo, uno dei pochi a provarci, ha personalità da vendere e ragiona da futuro vincitore, anche se le gambe non sono state all’altezza del suo pensiero. Romain Bardet si è svegliato tardi, ma è giovane e si porta a casa una bella tappa e il 2° posto finale. Permangono, invece, forti dubbi su Nairo Quintana. Il colombiano ha disputato un Tour de France sottotono e si ritrova, non si sa come, sul podio; un miracolo o, più semplicemente, un’ulteriore dimostrazione di un livello generale non così alto. Anche Richie Porte torna a casa con una valigia di rimpianti. Il tasmaniano è stato penalizzato nei primi giorni dalla folle scelta della BMC del doppio capitano – ma un Tejay Van Garderen al servizio della causa non avrebbe fatto più comodo? – Poi ci ha messo anche del suo. Nella tappa di Morzine, ad esempio: era l’ultima occasione per attaccare, il podio lì a meno di un minuto, e lui cos’ha fatto? Nulla, a parte difendere la quinta posizione. Va bene tutto, ma la mentalità vincente è un’altra cosa.
Aspettando tempi migliori, non possiamo che elogiare Peter Sagan. Campione del mondo, maglia verde, vincitore di tre tappe, spesso in fuga in aiuto ai propri compagni: il funambolico slovacco è personaggio a tutto tondo, dentro e fuori dalla corsa. Un “birbante” che si diverte e fa divertire. È stato il salvagente che ci ha aiutato a non affondare nel mare della noia di un Tour che aveva già scritto il nome del vincitore ancor prima di prendere il via, ventidue giorni fa, dalla Normandia.