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Juventus, il senso profondo dei cinque anni di Allegri

Massimiliano Allegri - Foto Antonio Fraioli

Cinque scudetti, quattro Coppe Italia, due Supercoppe italiane. Si chiude con uno straordinario bilancio di undici trofei in cinque stagioni l’avventura di Massimiliano Allegri sulla panchina della Juventus, tramite una nota della società bianconera che ha reso storico questo 17 maggio. I fatti parlano chiaro: il binomio fra il tecnico livornese e la Vecchia Signora è stato uno dei meglio riusciti da quando esiste il calcio in Italia. Un paradosso pensando al fatto che buona parte della tifoseria juventina ha accolto con gioia la notizia della separazione consensuale fra le parti, ad un anno dalla scadenza prevista da contratto. D’altronde però parliamo di una figura simpatica ma divisiva, il cui legame profondo con i successi dei torinesi in questi cinque anni va analizzato, per essere compreso a fondo.

Probabilmente Allegri era destinato ad essere messo perennemente in discussione in questi cinque anni – e probabilmente lo sarebbe stato anche se fosse riuscito nell’impresa di riportare la Champions League a Torino. È però sbagliato giudicare il valore di una guida tecnica esclusivamente in base ai risultati di una competizione che ha nella fortuna una componente determinante. È sbagliato farlo nel caso di Allegri alla Juventus, ma anche nel caso di Guardiola al Manchester City, di Valverde al Barcellona e di tutti gli altri allenatori in qualsiasi altra squadra del mondo. I cicli degli allenatori nei club calcistici più importanti d’Europa vanno giudicati secondo una prospettiva sempre differente, e probabilmente ciò che ha reso il tecnico dei campioni d’Italia così criticato in questi anni è proprio l’anti-convenzionalità del suo pensiero, unita ad un’ambiguità di fondo nella comunicazione coi media che ha troppo spesso ridotto il livello del dibattito al classico “meglio vincere o giocare bene?”, come se le due cose fossero incompatibili – basti dare uno sguardo ai recenti beceri confronti televisivi con Daniele Adani.

Il metodo di Allegri si fonda su pochi e chiari princìpi di gioco che i giocatori sono chiamati a mettere costantemente in campo. Questi princìpi hanno reso la Juve degli ultimi anni una squadra difficile da affrontare per qualsiasi avversario in primo luogo proprio perché il tecnico ha potuto scegliere di volta in volta chi schierare fra i giocatori a disposizione per sfruttare al meglio i punti deboli dell’avversario. “È una questione di caratteristiche”, direbbe il buon Max: questa filosofia non è interessata al dominio del gioco o all’identità complessiva della formazione che scende in campo, ma ha come obiettivo esclusivo il raggiungimento dei tre punti. E di fatto questo procedimento ha funzionato; in più, ha “accorciato” il percorso della Juventus verso l’élite del calcio mondiale. Infatti proprio il metodo di Allegri ha permesso di mantenere grande continuità nei risultati in ambito nazionale, pur cambiando molto spesso giocatori, anche fondamentali.

In questo senso la mano dell’allenatore ex Milan è stata evidentissima: nel 2014-2015 la Juve iniziò col 3-5-2, sulla scia dell’era Conte, e finì l’annata con un 4-3-1-2; poi fu il turno del ritorno alla difesa a tre, nell’anno della clamorosa rimonta in Serie A; successivamente Allegri s’inventò dal nulla un 4-2-3-1 con Mandžukić ala sinistra; infine negli ultimi due anni il sistema prediletto è stato un 4-3-3, che pure si è evoluto col tempo. Questo cangiante ma continuo dominio in campionato ha garantito alla Juventus la possibilità di misurarsi sempre di più su scala europea e non solo nazionale. In parole povere, ad Allegri viene imputato di non essere riuscito a conquistare la Champions, ma quello che forse è il suo merito più grande è proprio l’aver riportato la Champions ad essere un’ambizione credibile del club, senza per questo compromettere i percorsi delle singole annate in campionato.

Andrea Agnelli sa tutto questo e c’è da credere che proprio queste motivazioni abbiano reso così lungo il tempo impiegato ad assumere la decisione definitiva. Certo qualche piccolo segnale favorevole al cambiamento lo hanno mandato i giocatori negli ultimi mesi: basti pensare alle criptiche attività social di Cancelo e Douglas Costa, al gesto di Cristiano Ronaldo subito dopo la sconfitta con l’Ajax, all’insofferenza dichiarata (dal fratello) di Dybala. Questi elementi danno comunque la sensazione che la Juve abbia scelto il momento giusto per cambiare, per evitare di logorare eccessivamente i propri giocatori con un pragmatismo così spinto. È facile pensare che il prossimo allenatore dei bianconeri avrà il compito principale proprio di dare un po’ di respiro ai grandi talenti presenti tra le fila juventine, di farlo con l’esigenza di vincere, ma di farlo in maniera diversa da come lo ha fatto – in modo straordinario – Allegri negli ultimi cinque anni.

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