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Wimbledon, tie-break al quinto: sì o no? Anderson-Isner riapre il dibattito

John Isner, Wimbledon 2018
John Isner - Foto Ray Giubilo

“Per cogliere nel segno è necessario contraddirsi”, diceva lo scrittore e filosofo colombiano Nicolas Gomez Davila. E in uno sport zeppo di variabili come il tennis, tra cambi di superficie, climatici e di condizioni di gioco, di contraddizioni ce ne sono a bizzeffe. Uno degli eterni dibattiti che attanaglia gli appassionati (no, non è chi è il più forte di sempre) c’è quello del tie-break al quinto: sì o no? Tutto in pochi punti o infinite battaglie?

Dalla sua introduzione nel 1970 agli Us Open (inizialmente con il format a 5 punti, poi portato a quello attuale nel 1975), il tie-break nel set decisivo non ha più abbandonato il cemento di Flushing Meadows portando con sé la prima contraddizione e differenziandosi dagli altri tre Slam stagionali. Tra le partite con più game mai disputati spicca il secondo turno del 2007 tra Djokovic e Stepanek o il quarto di finale tra Graf e Shriver nel 1985, vinto dalla tedesca 7-6 6-7 7-6. Sebbene la tendenza attuale sia quella di voler ridurre la durata degli incontri tennistici (l’esperimento del torneo Next Gen con cinque set da quattro game, il no-ad e lo shot clock per evitare perdite di tempo), la fetta di spettatori che chiede il ‘sangue’ in campo resta corposa. Aveva suscitato diverse polemiche l’abolizione nel quinto set dei match di Coppa Davis, adesso torna di moda mentre Isner e Anderson si danno battaglia sul Centre Court di Wimbledon per un posto in finale.

Per Federer, sconfitto in un long set proprio contro il sudafricano ai quarti, decidere un match con un tie-break al quinto vorrebbe dire affidare troppo al caso il suo esito, mentre la corrente di pensiero opposta crede che sia il giocatore di maggior talento a spuntarla in una concentrazione di punti così importanti. E’ anche vero che ad entrare nella storia sono proprio le partite infinite, decise ad oltranza dopo ore di battaglia. Restringendo il campo al torneo di Wimbledon, resterà negli annali quella tra Isner e Mahut nel 2008, in tre giornate e un totale di 11 ore e 5 minuti, oppure la finale chiusa per 9-7 da Nadal contro Federer per sollevare al cielo il suo primo Wimbledon. Le contraddizioni, però, tornano a far capolino: è giusto compromettere il torneo, a maggior ragione in semifinale, mandando in finale un giocatore praticamente sfinito fisicamente? E ancora, è giusto tenere in bilico i giocatori del match successivo senza sapere se e quando scendere in campo, rinviando magari la loro partita al giorno successivo con tutto ciò che ne consegue? Due facce della stessa medaglia, scegliere è più che mai difficile: fate il vostro gioco.

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