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Federer-Nadal: quando il concetto di rivalità, banalmente, si eleva

Roger Federer e Rafael Nadal
Roger Federer e Rafael Nadal - Foto Ray Giubilo

Finale Wimbledon 2006, 9 luglio, il loro primo faccia a faccia sul verde. Un timido sole rischiara l’All England Lawn and Croquet Club. L’erba, consumata dopo due settimane di torneo, è quasi inesistente sul fondo del campo. Roger Federer segue, Rafael Nadal lo precede quando è il momento di fare l’ingresso ufficiale sul ‘Centre Court’. Il primo sembra un principe nel suo giardino di casa. Sopra gli abiti da gioco, infatti, indossa con ammirabile disinvoltura un completo bianco. Sui capelli porta una fascia, che non impedisce alla folta chioma bruna di fare capolino dall’altra parte nascondendo solamente in parte lo stemma ‘Nike’ stampato sulla fronte.

Il secondo è un po’ meno a suo agio mentre s’inchina di fronte al ‘Royal Box’. Ha una canottiera, dei pantaloni a pinocchietto ed una fascia, posizionata in maniera certosina sul capo per far sì che anche un singolo capello non possa infastidirlo durante lo scambio. Anche lui è sponsorizzato dalla medesima marca, unica cosa in comune con il suo sfidante. Mentre posizionano il loro equipaggiamento sulle rispettive panchine, i più attenti si rendono subito conto di una cosa. La loro rivalità rappresenta un ibrido. Non sono né migliori amici né dei semplici contendenti. C’è una sorta di mutua comprensione che insieme cambieranno per sempre la storia di questo sport.

Sul campo, come ormai è noto essendo il loro ottavo scontro diretto, i due non hanno solamente due stili di vita contrapposti ma anche modi diversi d’intendere il gioco del tennis. Federer è destro, non suda, apparentemente non fa fatica quando si muove, quasi non emette suoni ad eccezione della pallina che schiocca con udibile perfezione contro il piatto corde della sua racchetta. Nadal è mancino e per gestire la traspirazione ha bisogno di almeno due asciugamani. Durante il match ha dei continui tic, ‘dei modi per riordinare la testa’, lui che nella quotidianità è molto disordinato. La sua fisicità si percepisce da ogni gesto, dalla violenza con cui maltratta la pallina ai gemiti emessi nel corso del punto.

Il glamour e l’eleganza millantati fuori dal campo, lo svizzero li incarna anche dentro. Il suo tennis è il perfetto punto d’incontro tra lo stile classico e la concretezza di quello moderno. I suoi movimenti, portati con una leggiadria dai sapori antichi, collimano alla perfezione con la nuova velocità di cui il gioco è ormai pregno. Una classe superiore, pura, quasi divina, che fa di lui un sacerdote intento nella sua funzione quando apre il rovescio ad una mano ed i suoi tagli oppure sciorina perle nei pressi della rete. Lo spagnolo è impostato in maniera completamente diversa. Ama la lotta e la fatica di uno scambio. Il rovescio bimane è un colpo sicuro ma è con il dritto che fa male.

La sua chela mancina fa schizzare rapidamente la pallina sul campo e disegna traiettorie in topspin che martellano il rovescio avversario lungo la diagonale sinistra. Genio della tattica ed agonista nato, il suo tennis ha come obiettivo il logoramento dell’avversario ed abbina la potenza calibrata dei colpi ad una forza mentale fuori dal comune. Il loro è un antagonismo di un altro tipo. Con loro il concetto di rivalità, semplicemente, si eleva, innalzando gli stessi protagonisti nei confronti di tutti i duelli che intraprenderanno in futuro. Federer, il giocatore perfetto ed apparentemente senza punti deboli, e Nadal, che questi è riuscito non soltanto a scovare ma anche a mettere a nudo.

Di fronte a tutto ciò, appare quasi volgare specificare che la sopracitata finale a Wimbledon è appannaggio dello svizzero in quattro set. Così come affermare che lo spagnolo chiuderà la loro epopea con un bilancio favorevole di 24-16 negli scontri diretti (6-3 il computo in suo favore nelle finali Slam). Si tratta di freddi dati all’interno di un dualismo che tutto può rappresentare tranne un qualcosa di misurabile. Per anni vivono in funzione l’uno dell’altro. Insieme si spingono verso la perfezione assoluta, si trainano a vicenda all’interno di una rivalità sportiva priva di qualsiasi accenno di umanità. Per la prima volta nella storia del tennis non esiste, per davvero, una via di mezzo. Due distinte ‘sette religiose’ prendono vita e sono animate da passione ed ideali talmente marcati che ogni appassionato è obbligato a fare la propria scelta.

Grazie al loro carisma, diverso nei modi ma uguale nell’intensità, questo sport tocca vette di popolarità mai intraviste prima del loro simultaneo avvento. L’epicità delle loro battaglie procede di pari passo con la cementazione di un rapporto meraviglioso fuori dal campo. Non sono amici intimi, forse non lo saranno mai, ma tra di loro i canali di comunicazione sono sempre aperti. Alla base di tutto c’è il rispetto, la consapevolezza di essere indivisibili, inseparabili, di aver rappresentato l’uno un qualcosa di fondamentale per il percorso dell’altro. Non supereremo mai questa fase, o meglio, non avremmo mai voluto superarla. Una rivalità di questo tipo, infatti, ti concede la grazia di poterne fare parte, anche solamente dal di fuori.

Tuttavia, una volta che ne sei rimasto piacevolmente investito, bisogna prepararsi a non essere più completamente lucidi, a volte a negare persino l’evidenza dei fatti. Tutti noi, anche se sapevamo benissimo di sbagliare, credevamo che il ritiro di Federer sarebbe avvenuto a Wimbledon oppure nella sua Basilea, dove tutto ha avuto inizio nei panni di raccattapalle. Una sua lettera, invece, ci ha fatto rinsavire. Ci ha ricordato lui stesso di non essere immortale, di aver provato a combattere contro il tempo ed un ginocchio che negli ultimi tre anni davvero non gli ha dato tregua.

Il finale perfetto non poteva esistere ma lo svizzero ha voluto che fosse il migliore possibile. Alla Laver Cup, evento che lo stesso Federer ha contribuito a fondare e che con lui è cresciuta negli anni. In un match di doppio ma non con un compagno qualsiasi. Accanto a sé voleva proprio quel ragazzino spagnolo che affrontò per la prima volta nel 2004 ad Indian Wells, proprio in occasione di un doppio. Perché il cerchio, volenti o nolenti, doveva per forza di cose chiudersi in questo modo. Insieme.

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