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Roberto Canessa, il rugbista eroe sulle Ande tra etica e vita

Ci sono storie che non possono essere raccontate. E altre solo in parte. Quella che Roberto Canessa ha portato con sé da una vetta impervia delle Ande è una storia comprendente un arco di 72 giorni trincerata nel silenzio dei sentimenti vissuti, spezzata dai segreti di sedici uomini costretti a condividere il palcoscenico non solo di una lotta per la sopravvivenza ma di una guerra serrata tra l’istinto di sopravvivenza e l’etica. Avrebbe voluto raccontare una storia di sport, Roberto Canessa, lui che del rugby uruguaiano era una promessa. Lo chiamavano “Muscolo” perché dominante fisicamente lo era ieri, studente di medicina con la passione per la palla ovale, e lo è oggi, stimato cardiologo. Oggi, 17 gennaio, compie 67 anni, ne aveva 19 nel 1972 quando l’aereo che trasportava lui e i suoi compagni di squadra dell’Old Christians si schiantò sul massiccio montuoso vicino a Glaciar de las Lágrimas a quota 4.000 m in uno dei punti più nascosti della Cordigliera delle Ande. La routine da sportivi e una condizione fisica notevole contribuirono a tenerli in vita. Ma fu soprattutto una decisione ai limiti delle possibilità umane che permise ai sedici superstiti di restare tali. Roberto Canessa decise di iniziare a cibarsi delle vittime del disastro quando da una radio a bordo scoprì che i soccorritori non stavano più cercando sopravvissuti ma cadaveri. Gli aerei dei soccorsi notarono una croce sul terreno, la stessa costruita con pezzi di ferro dai superstiti con tanta cura e precisione geometrica da indurre gli agenti ad escludere che fosse opera di persone in fin di vita e senza viveri. Troppo perfetta, pensarono. Non potevano sapere.

E nel momento stesso in cui quell’estremo tabù primitivo si infrangeva, i sedici rugbisti giuravano con se stessi di non rivelare alle famiglie le identità dei corpi mai risparmiati dalla fame. Per settantadue giorni la fusoliera divenne così parte di uno scenario apocalittico. L’acqua era ottenuta dalla neve messa a sciogliere sulle lamiere mentre la plastica dei finestrini era utilizzata per rudimentali occhiali di protezione dal sole. Fu sempre Roberto Canessa a reagire allo scarso scrupolo dei soccorritori con una eroica spedizione a valle in compagnia di Fernando Parrado. Quest’ultimo prima di partire si avvicinò al più piccolo del gruppo, Carlitos Paz, 18 anni, e strinse il patto con la vita più estremo che si potesse stringere di fronte alla possibilità della morte: “Se non torno, cibati anche dei corpi di mia sorella e mia madre”. Il viaggio a piedi e con i pochi viveri rimasti durò dieci giorni e li costrinse a scalare quota 5.000 metri prima di una faticosa discesa per raggiungere dal territorio argentino il Cile con vestiti inadatti e temperature sotto lo zero. La forza della vita ma anche dello sport li condusse a casa di un pastore che non poteva credere ai suoi occhi. Dopo il salvataggio, alle predominanti celebrazioni degli eroi, seguirà anche un affresco di critiche da più parti per la loro scelta. Come le “anime morte” di Gogol mai protagoniste dei fatti ma piccole voci corali di un mosaico di personaggi racchiusi tra la pigrizia e la pochezza morale del pettegolezzo. Arriveranno perfino gli sfottò dal mondo dello sport a completare il quadro d’orrore. Una rivista brasiliana richiamò in causa addirittura il gol di Ghiggia in finale di Coppa del Mondo del ’50: “Adesso possiamo perdonare i nostri calciatori che hanno perso la finale mondiale contro l’Uruguay perché sappiamo come sono gli uruguaiani: dei cannibali”. Quel brutto vizio di legare una terribile tragedia al campanilismo sportivo forse non ce lo toglieremo mai.

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