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Tiro a volo, Giovanni Pellielo: “Rio 2016? Rispetto a Londra sono meno preoccupato”

Giovanni Pellielo - Mondiale Lima 2013 - Foto Fitav

Un campione dentro e fuori dal campo, un atleta a 360 gradi che in carriera ha raggiunto numerosi traguardi con sacrificio e dedizione arricchendo il proprio palmares senza tuttavia sentirsi appagato ma conservando sempre la genuinità e l’umiltà che lo contraddistinguono e che hanno rappresentato il valore aggiunto per i suoi successi. Parliamo di Giovanni Pellielo: punta di diamante del tiro a volo azzurro e vincitore di tre medaglie olimpiche individuali, dieci titoli mondiali e dodici europei. Il campione classe 1970 si racconta in esclusiva ai microfoni di Sportface.it rivelando le sue aspirazioni, i prossimi obiettivi da realizzare all’Olimpiade di Rio, i programmi ai quali si dedicherà nei prossimi mesi e tante curiosità che lo riguardano in un perfetto connubio in cui l’amore per lo sport si coniuga sapientemente alla determinazione di un ragazzo fiero delle sue origini e che ha saputo conquistarsi con le proprie forze un posto d’onore nell’Olimpo dei grandi dello sport.

Come procede l’avvicinamento a Rio: come ti stai preparando e quali sono le sensazioni?
“La preparazione è simile a quella di ogni anno, è cominciato il mondiale nello stesso periodo quindi un mese dopo, verso i primi di settembre. Si tratta di una preparazione analoga a quella del mondiale, anche l’avvicinamento è analogo dopo l’Europeo in Italia e poi l’Olimpiade. Tutto procede abbastanza bene”.

Procede tutto secondo le tappe prestabilite?
“Sì, abbiamo stabilito il programma adesso per la stagione e quindi affronteremo dei gran premi in Italia, delle competizioni nazionali, la Coppa del mondo, faremo tutto quello che dobbiamo fare come abbiamo sempre fatto”.

Per quanto riguarda la programmazione, è già ben definita come mi stavi dicendo…
“Sì, la programmazione è già ben definita e viene effettuata esattamente come gli altri anni, non ci sono novità particolari se non quella di programmare il tutto per arrivare in forma ad agosto, considerando gran premi, Coppa del Mondo, europei ed affrontando le gare passo dopo passo”.

Preparazione mentale e fisica: come ti alleni? Cosa fai prima di una gara?
“La preparazione mentale è una preparazione lunga, relativa al lavoro che devi fare, al lavoro psicologico che dura da decenni, ci sono i professori Alberto Cei e Francesco Bona che sono dei luminari della scienza psicologica e che mi seguono ormai da tanto tempo. Per la preparazione fisica abbiamo il preparatore Fabio Partigiani, ed insieme a lui seguo tante cose come ad esempio l’alimentazione, quindi presto una grande attenzione al cibo, stabilendo tutto quello che bisogna mangiare per non appesantire il fegato, gestire lo stomaco, cercare di trovare un’alimentazione che vada bene anche per stare in buona salute, secondo un procedimento che è stato sperimentato e consolidato da almeno quindici anni”.

Parliamo invece delle difficoltà mentali del tiro a volo, a quale altro sport secondo te può essere accostato? Si potrebbe fare un paragone sotto questo punto di vista con un’altra disciplina?
“E’ uno sport di grande costanza e di grande concentrazione in cui le gare durano due giorni, quindi non credo che ci sia uno sport analogo, forse il tiro con l’arco dura tanto, ma in generale una gara che dura due giorni nelle altre discipline non la vedo. Di sport olimpici le cui gare durano due giorni non credo che esistano, è un po’ particolare come sport e la difficoltà più grande è proprio questa: di mantenere costantemente la concentrazione nonostante passino 48 ore, si tratta di uno sport in cui i riflessi, la capacità motoria, la risposta in 5 decimi di secondo per colpire un bersaglio, l’equilibrio, l’attenzione, la coordinazione, l’attrezzo, sono tutto. Utilizziamo un attrezzo che è esterno quindi tutto deve assolutamente viaggiare in grande armonia con il nostro corpo, con le tensioni, bisogna possedere una forte precisione nel movimento, che non è statico, perché noi ci muoviamo lungo traiettorie che vanno da 40 a 45 gradi, quindi parliamo di grandi escursioni che vanno anche sui 90 gradi per cui mantenere tutta questa coordinazione, tutta questa attenzione per due giorni senza sbagliare quasi mai non è facile”.

Come è nata questa tua passione per il tiro a volo?
“Mi ha portato mia madre a sparare perché anche lei ha questa passione, mia madre poi è anche presidente della stessa associazione sportiva in cui mi alleno (Associazione tiro a volo San Giovanni di Vercelli). Il presidente è dunque è Santina Bertolone che è mia madre. Ho iniziato un po’ tardi, a 18 anni, adesso iniziano a 12 quindi l’avvicinamento era un po’ diverso rispetto ad oggi, c’erano altre dinamiche generali, riguardo soprattutto la presa di coscienza di questo sport sono cambiate radicalmente molte cose rispetto ad una volta”.

Qual è secondo te l’aspetto principale in cui si è evoluto questo sport durante gli ultimi anni?
“Si sono evolute le metodiche di allenamento, la facilità con cui ci si avvicina a questa disciplina: oggi i ragazzini accompagnati dai genitori che hanno il porto d’armi possono sparare, una volta bisognava avere il porto d’armi, comprarsi l’arma, andare sul campo, oggi un genitore può accompagnare un bambino di 12 anni, trovare lì un istruttore, mettergli tra le mani un fucile e far provare il figlio a sparare. È chiaro che la facilità con cui oggi ci si può avvicinare al tiro al volo è completamente diversa rispetto ad una volta infatti oggi ci sono anche i gruppi sportivi militari che una volta non c’erano, il nostro presidente è stato un pioniere in questo, ha aperto ai gruppi sportivi militari il tiro a volo facendo sì che i giovani in qualche modo possano intravedere in questa disciplina sportiva anche un futuro lavorativo nel momento in cui l’avessero dismessa. Pertanto anche a livello familiare le prospettive cambiano e mentre prima si pensava ad orientare la nostra esistenza al piano lavorativo, dato che lo sport era visto solo come  un complemento, oggi c’è la possibilità di pensare allo sport a tutto tondo anche come prospettiva di vita futura, quindi è ovvio che cambiano le prospettive anche in termini di educazione allo sport”.

Ho letto che sei stato campione juniores di liscio? E’ vero? E che l’hai praticato fino all’età di 17 anni con tua cugina…
“Sì, mia cugina Donatella Bertolone, che è la nipote di mia madre. E’ la figlia del fratello”.

Hai lasciato di punto in bianco il ballo?
“Ho lasciato il ballo a 18 anni per il tiro, mi sono diplomato da grande assenteista anche se comunque mi sono ritrovato con il massimo dei voti e sono riuscito ad andare avanti. Avere le gare il sabato e la domenica non era proprio perfetto, non è stato facile, ho dovuto poi fare una scelta e ho scelto il tiro perché effettivamente era la mia passione, poi si possono fare bene tante cose però tutte cose che in linea di massima possono essere conciliate nel miglior modo, poi è chiaro che quando l’impegno diventa un impegno olimpico si cerca di coltivare solo quello perché assorbe più tempo”.

Non è facile conciliare le due cose. I risultati poi ti hanno anche dato ragione.
“All’inizio ho faticato molto perché i miei genitori si sono separati nel 1976 e ne 1973 è stata legalizzata la separazione quando io avevo 6 anni e dunque non avevo nemmeno la possibilità e l’opportunità di potermi allenare perché mia madre lavorava in fabbrica, prendeva 600 mila lire al mese. Mi ricordo che abbiamo avuto anche una struttura che mi ha aiutato e che ha permesso a mia madre di pagare ratealmente quest’arma 682 e io praticamente sono diventato Pellielo, ho vinto tutto con gli anni, ma prima non potevo chiedere a mia madre sforzi ulteriori, intanto io andavo a scuola e il sabato andavo presso un campo di tiro a volo quando avevo 18 anni lavorando  come segretario il sabato e la domenica quando gli altri sparavano  e partecipavano alle gare. Io prendevo le iscrizioni, curavo la segreteria  e quindi recuperavo poi una paghetta settimanale che mi consentiva di comprarmi le cartucce e di allenarmi. Ho iniziato così. Oggi è semplice ma si tende sempre a guardare il punto di arrivo: io non rinnego mai le mie origini e sono estremamente fiero ed orgoglioso di tutto quello che ho fatto e devo dire che  forse un po’ questo aiuterebbe oggi i giovani a guadagnarsi passo dopo passo i sogni, gli obiettivi, perché solo con i sacrifici si può capire se c’è vera passione. Io sacrificavo tutta la mia settimana e mi allenavo durante la settimana perché il sabato e la domenica lavoravo e quindi ho iniziato ad allenarmi così grazie a questa struttura che mi ha consentito di poter prendere una paghetta che in qualche modo mi permetteva di allenarmi, le possibilità non le avevo. Io avevo una grande passione e ho capito che se fossi diventato forte e avessi vinto poi potevo dedicare spazio anche al sabato ed alla domenica alle gare che era quello che mi piaceva fare ma non potevo perché dovevo comunque recuperare del denaro per potermi allenare. I primi due anni ho fatto 70000 km in vespa, mi ricordo che ogni 15000 km cambiavo le gomme  e la spesa più grande è stata quella, questa vespa che mi ha accompagnato per due anni prendendo acqua, vento, pioggia, neve, tutto quello che c’era perché ci si allena non solo quando fa caldo ma anche di inverno. Ho fatto questa scelta e sono estremamente orgoglioso di averla fatta, e penso anche che se non avessi fatto questa vita non sarei oggi quello che sono”.

Riguardo gli hobby invece, a parte il ballo, ne coltivi altri?
“Gioco a tennis, mi piace molto giocare a tennis e a ping pong e poi un altro mio hobby è quello di studiare. Mi sono iscritto a psicologia, ho deciso di fare psicologia e mi sono iscritto di nuovo all’università. Mi divertirò durante il tempo a studiare un po’”.

E sull’attrezzo? Come sei riuscito ad entrarci in confidenza? Ci sono state delle iniziali difficoltà? D’altronde non si tratta di uno sport usuale…
“L’attrezzo è molto particolare. Adesso se vuoi far felice un bambino gli regali un fucile con le palline di plastica, un po’ come le  bambole e la barbie per le ragazzine. Ai ragazzini regali un fucile, un arco, qualcosa che riesca in qualche modo a battere lo stacco. Per me il rapporto con l’attrezzo è stato qualcosa di estremamente naturale quindi non ho mai trovato difficoltà nel sentirlo mio anche se ho lavorato molto per farmelo calzare come fosse un vestito, per costruire quella parte che va sul viso e l’asta, il sostegno dell’arma con la mano sinistra. Il lavoro è estremamente lungo, si va a 1 millesimo, ci sono 10 misure per volta per un totale di 36 misure diverse per il braccio del fucile. Sono  tutte parti che poggiano sulla tua persona, l’impugnatura sulla mano destra deve essere fatta su misura, bisogna calcolare la giusta distanza, la lunghezza, la larghezza, l’altezza, la curva perché ognuno ha il polso fatto in un certo modo  per cui la curva che c’è tra l’indice ed il polso è una curva che è diversa da individuo ad individuo e poi per fare la parte che appoggia sul viso sotto lo zigomo ognuno ha una certa distanza tra lo zigomo e l’occhio che è diversa da individuo ad individuo e che va da conformazione fisica a conformazione fisica. Anche per quanto riguarda l’altezza dell’occhio, la dimensione dell’occhio ognuno ha una dimensione propria, lo spazio che c’è tra la base dell’iride ed il centro della pupilla varia da persona a persona e poi c’è il centro focale. Stessa cosa vale per la parte che poggia sulle spalle: ognuno ha la spalla con  un pettorale diverso ed avrà bisogno di una diversa misura di inclinazione dell’arma per far sì che le canne vadano dritte sotto l’occhio: è uno sport di una complessità veramente esasperante, a misura decimale. È uno sport di precisione e va curato ogni dettaglio”.

Hai letto il libro di Campriani “Tiro a segno: ricordati di dimenticare la paura”?
“No, non l’ho letto. Campriani è una persona estremamente intelligente quindi sicuramente ha scritto delle cose intelligenti. Io però non ricordo di dimenticare la paura, io non mi sforzo mai di dimenticare qualcosa, mi sforzo di accettarlo. Campriani è molto giovane ancora, gli auguro tutto il bene del mondo ma io sono passato nella famosa valle di lacrime attraverso la sofferenza ed ho capito che non possiamo dimenticare noi stessi, bisogna diventare grandi accettando la paura perché la paura è qualcosa che ci può anche salvare in certi momenti e io non voglio dimenticare nulla di tutto quello che provo e voglio essere in grado di accettare tutto quello che ricevo dalla vita. La cosa più importante è proprio quella di accettare tutto quello che ci viene dato o per grazia ricevuta o perché in qualche modo il destino ha voluto così e dall’altra parte non rifiutare nulla di ciò che ci è successo perché possiamo mentire a chi vogliamo ma la paura ce l’avremo sempre e non dobbiamo dimenticare di avercela, ma dobbiamo accettarla. E’solo nella consapevolezza dell’accettazione che noi cresciamo, tante volte forse l’istinto ci porta a voler dimenticare, a voler cancellare in realtà ma non puoi dimenticare, non possiamo mentire a noi stessi, possiamo mentire al mondo e far finta di essere felici ma non è la verità. Io spero di non dimenticare mai nulla perché quando iniziamo a dimenticare si crea quel muro che ci separa tra l’essere vivi e il non esserci più. Io provo tanta tristezza per le persone che non ricordano più chi  hanno dinanzi oppure il proprio figlio. Ho paura di dimenticare, voglio ricordare tutto quello che ho vissuto e in questo siamo un po’ diversi però ognuno giustamente ha la sua opinione. Posso anche non essere d’accordo ma farò di tutto perché l’altra persona possa esprimersi. Probabilmente lui si riferiva alla paura di vincere, alla paura di affrontare una competizione immagino. Io la voglio questa paura, la paura è quella cosa che mi mantiene vivo e mi fa capire ogni evento che si sta avvicinando: la competizione importante. La paura è un moto interiore che porta il nostro istinto a dover affrontare anche l’ignoto perché nasce nel momento in cui c’è l’incertezza. Io per esempio non ho paura di perdere nulla.

Questo può costituire un valore aggiunto?
“Certo, perché una persona ha paura quando pensa di poter perdere qualcosa che ha già conquistato o che vede come meta. Io vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo, non ho paura neanche di morire: a me fa paura la sofferenza, mi fa paura tutto quello che non conosco  ma non ho paura di affrontare una competizione,  non ho paura neanche di non affrontarla perché magari sto a casa o non me la sono meritata ma lo dico con la tranquillità non di quello che mette le mani avanti  ma con la sicurezza di uno che non ha paura di fare una cosa che conosce bene. Ho paura invece di affrontare una cosa che non conosco, ma non di una competizione, lì c’è gioia nel dover affrontare tutti gli ostacoli  della gara ma è dal 1988 che affronto gare  e non mi spaventa, non mi fa paura, non ho paura di vincere come non ho paura di perdere: se vincerò avrò raggiunto una medaglia alle 180 che ho, se la perderò non la conquisterò come è successo a Londra  e come invece non è successo nelle tre precedenti dove ho vinto tre medaglie consecutive. A Londra son stato fuori per uno e chi ha messo un piattello più di me ha poi vinto la gara, non ho paura né di vincere né di perdere non cambierei nulla in me, sono sempre rimasto quello che si svegliava la mattina quando i miei genitori erano separati e aveva le scarpe attaccate alla bombola del gas per il freddo che faceva”.

“Si potrebbe fare un parallelismo con il calcio, quando Baggio quando sbagliò il rigore nel 1994: non si giudica certo da un rigore o da un episodio il valore di un giocatore…”
Questo non significa essere irresponsabili, significa vivere le situazioni per quello che sono. Mio padre la sera prima di morire mi disse una cosa estremamente bella, me la disse in diletto: “Guarda le cose della vita, quelli sono solo dei piattelli che volano, ricordatelo”.

Tu come l’hai interpretata questa frase?
“L’ho interpretata nell’unico modo in cui, secondo me, può essere interpretata. Cioè “ io me ne sto andando, tu bada alle cose serie della vita, quelle sono solo piattelli che volano, preoccupati invece solo delle cose importanti, soffri veramente per le cose che ti piacciono ma dai ad ogni cos il giusto peso”.

Hai vinto tante medaglie nella competizione a cinque cerchi: come cambia di Olimpiade in Olimpiade il tuo approccio alla gara?
“Non è cambiato, quest’anno però a differenza di Londra sono molto più disteso, molto più sereno per via della sofferenza di mio padre che lì avevo, e infatti è mancato poi poco dopo. Certo mi manca lui però ora non ho quel travaglio interiore che invece ti porta al calvario. Io invito sempre tutte le persone che si preoccupano del nulla ad andare dieci minuti in oncologia pediatrica e vedere che cosa succede: quando si esce da lì probabilmente saremo tutti più tranquilli e più allegri”.

Quindi sei più tranquillo rispetto a Londra, più sereno…
“Sono meno preoccupato, sono meno sofferente, se vogliamo. Anche perché queste sono cose che non si potevano nemmeno raccontare perché sembravano alibi, sembrava quasi un voler mettere le mani avanti, cosa che invece io non ho mai fatto. Così l’ho tenuto per me”.

Hai iniziato a 18 anni ma già a 22 sei stato convocato per le Olimpiadi. Questo penso sia un caso quasi unico.
“E’ unico, come uniche sono le 100 Olimpiadi…”

Nel tiro al volo abbiamo ottenuto nove carte olimpiche su dieci totali, manca un solo pass. Conosci la storia tra Jessica Rossi e Silvana Stanco, per la quale la federazione ha preso la sua decisione: tu cosa ne pensi?
“Io penso che sia una questione molto delicata, ho sempre avuto l’abitudine, questa è la mia risposta, di non uscire mai dai miei ruoli, quindi io faccio il tiratore e mi occupo solo di questo, ed è già tanto difficile. Non ci ho mai pensato perché onestamente non mi preoccupo di quello che può accadere intorno a me e non entro nei ruoli altrui, come quello della federazione, del tecnico, del presidente federale e del consiglio. Non mi sono mai preoccupato degli altri ruoli, io sono convinto che il tecnico e la federazione faranno la scelta migliore per l’Italia perché è ovvio che si farà una scelta per l’interesse e per il bene della nazione e io questa cosa l’ho detta quando a 42 anni ho ricominciato, partendo da Londra e facendo poi 3 anni come non ho mai fatto in tutta la mia carriera e con 3 podi mondiali consecutivi, con europei vinti, coppe del mondo, record del mondo. Lo dico adesso con tranquillità e per i prossimi 4 anni continuerò con serenità preoccupandomi di fare bene se ci riesco come ho sempre fatto, se non ci riesco è giusto che il tecnico faccia delle scelte. Anche a me chiedono quando smetterò. Io smetto quando mi renderò conto di non essere più in grado di essere Pellielo e quando il mio tecnico e la mia federazione mi diranno che secondo loro, dato che dall’esterno si valuta meglio, non ho raggiunto il livello ottimale. Io ci vado perché sono l’unico al mondo ad aver conquistato in tre anni consecutivi tre podi mondiali  individuali e ci vado perché sono oggi il numero 1 del mondo e non perché mi chiamo Pellielo ma perché me lo sono conquistato. Nessuno mi ha regalato nulla. Ci vado perché qualsiasi altra persona avesse fatto al mio posto quello che ho fatto io, un giovane, un altro, sarebbe andato. Io le gare non le ho fatte da solo, le ho fatte sempre con altre persone e se manderanno me, perché ancora non è stato scritto nulla, è perché me lo sono meritato, se decideranno di lasciarmi a casa io in coscienza sono sereno. Non sono preoccupato assolutamente. Non mi sono mai preoccupato nemmeno quando mi hanno detto che ero vecchio anche se il mio tecnico questo non me l’aveva mai detto, ha sempre detto che ero più giovane”.

E’ anche una questione di motivazioni…giusto?
“Certo, ci sono due tipi di atleti, l’atleta che deve soddisfare un bisogno, quindi un atleta che lotta per arrivare ad un obiettivo e se lo raggiunge ha soddisfatto il bisogno, mentre se non lo raggiunge si deprime perché non l’ha soddisfatto, oppure gli atleti che non hanno bisogno di soddisfare il proprio “bisogno” ma che sono mossi da un fuoco interiore che prescinde dall’evento. E’ una categoria di atleti e sono quelli come che continuano perché non hanno soddisfatto mai un bisogno perché il loro bisogno non ha una motivazione, il loro bisogno è l’interiorità, il loro bisogno è quel fuoco che è ingiustificato, quel fuoco che non si sa da dove arrivi, che è scritto nel dna e che li continua a spingere nonostante  tutto. Io non mi sento mai appagato quando ho finito una gara, non mi sono mai seduto su quello che ho fatto  perché non è quello che mi dà la felicità. La felicità è assecondare quel fuoco e fare sempre in modo che non si spenga mai: e questa è la mia felicità. Quella fame che avevo quando ho iniziato e che continua ad alimentarmi oggi”.

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