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Nel marzo del 1936, a pochi mesi di distanza dalla promulgazione delle Leggi di Norimberga, forte di un potere ormai assoluto, Adolf Hitler violò il Trattato di Versailles con la rimilitarizzazione della Renania. È un momento molto importante nella storia contemporanea, perché il successo dell’operazione (una sorta di rivincita della Germania nei confronti di chi l’aveva umiliata dopo la Grande Guerra) accrebbe l’autostima di Hitler e gli consentì di aumentare la popolarità, arrivata ai massimi livelli grazie anche all’infaticabile opera di Joseph Goebbels, uno dei più grandi artefici dell’ascesa del leader nazionalsocialista.
Uomo minuto ma di straordinaria intelligenza, Goebbels sfruttò al meglio la sua capacità di persuadere le masse con una raffinata arte oratoria e un sapiente utilizzo dei mezzi di comunicazione. Nominato capo dell’ufficio propaganda nel 1929, divenne subito ministro dello stesso e poi assunse la guida della Camera della cultura, con un controllo assoluto su arte, informazione e media. Artefice della celebre notte dei cristalli, si affidò ad Albert Speer (passato alla storia come l’architetto del diavolo) per allestire il famoso Raduno di Norimberga del 1934, ripreso dalla regista Leni Riefenstahl nel documentario Il trionfo della volontà. La campagna di propaganda del regime proseguì e si consolidò con i Giochi Olimpici (giunti all’undicesima edizione), che si svolsero a Berlino dal primo al sedici agosto 1936.
LA PRIMA OLIMPIADE IN TV E I PRIMI TEDOFORI – Berlino era già stata designata come sede ospitante dei Giochi del 1916. Lo scoppio della I Guerra Mondiale e il successivo isolamento della Germania dalla scena politica (terminato nel 1925 con l’ingresso nella Società delle Nazioni e nel CIO), però, fecero slittare di vent’anni l’evento. La candidatura fu presentata nel maggio del 1930, durante il IX Congresso del CIO, tenutosi proprio a Berlino: insieme alla città situata sulle rive della Sprea c’erano ben undici aspiranti candidate, tra cui Roma, Budapest e Barcellona. Il ballottaggio finale fu con quest’ultima, che perse in maniera schiacciante anche a causa della difficile situazione politica spagnola. La Germania di Hitler ebbe così l’occasione di riabilitarsi agli occhi del mondo e sfruttò la manifestazione per mostrare tutta la propria grandezza, nonostante le perplessità iniziali dello stesso dittatore che, a differenza di Mussolini, non aveva mai dato molta importanza allo sport prima di allora. Fu Goebbels a fargli capire quanti benefici avrebbero portato al regime un’occasione del genere; così, la Nazione in cui sarebbero stati perpetrati (nel giro di pochi anni) alcuni tra i peggiori crimini contro l’umanità, diventò per un paio di settimane un’oasi felice e organizzata, dove regnavano la pace e la tolleranza. Un’immagine costruita ad hoc, di facciata, mentre altri progetti deliranti prendevano forma.
La macchina organizzativa fu pressoché perfetta e si avvalse di tutti gli strumenti disponibili. L’Olimpiade di Berlino fu il primo evento mediatico a totale servizio del potere: oltre alle trasmissioni radiofoniche, la propaganda venne attuata attraverso le riprese televisive (per la prima volta nella storia), la pubblicazione di un bollettino informativo giornaliero (l’Olympia Zetung, tiratura di decine di migliaia di copie) e soprattutto con il cine-documentario Olympia, il capolavoro girato dalla Riefenstahl e incentrato sulle gesta dei partecipanti, in un mix perfetto tra misticismo e culto della bellezza. Ovviamente, il regime non badò a spese nella costruzione di impianti all’avanguardia e dei villaggi olimpici, ma anche nella preparazione degli atleti. Berlino subì un imponente restyling, un processo di modernizzazione necessario per porre la nuova Capitale Mondiale al di sopra delle capitali più importanti, come Roma, Londra, Parigi, Washington. I lavori furono affidati a Speer e a Werner March, che si occupò dell’Olympiastadion, costruito nel 1913 dal padre Otto. Al suo interno, il primo agosto 1936, Fritz Schilgen portò per la prima volta la fiaccola con il fuoco sacro proveniente da Olimpia e accese il braciere. La staffetta, ideata dallo scienziato tedesco Carl Diem, coinvolse oltre 3000 tedofori e diventò, da quel momento, uno dei simboli principali delle Olimpiadi.
L’OLIMPIADE DI BERLINO 1936 – Ai Giochi, che furono preceduti dall’Olimpiade invernale di Garmisch, presero parte 49 Nazioni e circa 4000 atleti (poco più di 300 donne). Francia, Gran Bretagna e Usa vinsero le iniziali resistenze e si presentarono praticamente al completo, nonostante i dubbi legati alle persecuzioni nei confronti degli oppositori politici e degli ebrei operate dal governo nazionalsocialista. Le rassicurazioni dei tedeschi bastarono alle varie Federazioni, sbalordite da un’organizzazione assolutamente perfetta. Le uniche due diserzioni (prevedibili) furono quelle della Spagna e dell’Unione Sovietica: in Catalogna fu addirittura organizzata una contro-Olimpiade, che si disputò tra il 19 e il 26 luglio. Meno di una settimana più tardi, fu lo stesso Hitler ad aprire ufficialmente gli undicesimi Giochi Olimpici ufficiali, al termine di una fastosa cerimonia d’apertura e davanti a 110000 spettatori. Sfilarono tutti gli atleti, il giovane Fritz Schilgen accese il braciere e un anziano signore si fece largo tra i rappresentanti della squadra greca, vestito con il costume tipico della sua terra: era Spiridon Louis, il primo “Dio di Maratona”, che porse al Fuhrer, in segno di pace, un ramoscello d’olivo raccolto nel Sacro Bosco di Giove, a Olimpia. Fu l’ultima apparizione pubblica dell’eroe di Atene, che morì quattro anni più tardi. Quelli di Berlino 1936 furono anche gli ultimi Giochi del papà dell’olimpismo, il barone Pierre De Coubertin, scomparso nel 1937.
I PROTAGONISTI – Ventuno discipline, 129 competizioni totali e 3954 atleti in gara. Numeri impressionanti, come quelli ottenuti dai padroni di casa, che riuscirono ad aggiudicarsi il primo posto nel medagliere, scalzando gli Stati Uniti per la prima volta da Londra 1908, conquistando ben 89 medaglie (33 ori, 26 argenti 30 bronzi). Il successo dei tedeschi fu reso possibile grazie al dilettantismo di Stato: gli atleti poterono prepararsi a tempo pieno e senza alcuna preoccupazione, perché furono alimentati, curati e alloggiati a spese dello Stato. Inoltre, la Germania fece incetta di medaglie nella canoa e nel kayak (insieme ad Austria e Cecoslovacchia), specialità poco praticate altrove e introdotte proprio a partire dall’edizione di Berlino, insieme alla pallamano e alla pallacanestro. Il torneo di basket si disputò all’aperto, su campi da tennis in terra: la finale tra USA e Canada fu giocata sotto un violento acquazzone e terminò 19-8 per gli americani. La Francia di Robert Charpentier e Guy Lapébie spadroneggiò nel ciclismo su strada (i due vinsero anche l’oro a squadre nell’inseguimento), mentre su pista fu lotta tra olandesi (Arie van Vliet su tutti) e tedeschi. Il Giappone colse successi di prestigio nelle due discipline più importanti, l’atletica e il nuoto. A trionfare nella maratona fu il 22enne Son Kitei, di origini coreane (all’epoca sotto la dominazione nipponica), davanti al britannico Ernie Harper e al connazionale Nam Sung-yong, mentre si ritirò il favorito campione uscente, l’argentino Juan Carlos Zabala. Le soddisfazioni più grandi per l’impero del Sol Levante arrivarono dalla piscina del Berlin Olympic Swim Stadium: ben 11 medaglie, di cui quattro d’oro, anche se nei 100 metri Yusa e Arai furono preceduti dall’ungherese Ferenc Csik, accolto come un eroe al suo ritorno in patria. Ma la vera regina dell’acqua fu senza dubbio l’olandese Rie Mastenbroek, dominatrice assoluta delle tre gare a stile libero (100, 200 e 4×100) e argento nei 100 dorso, favorita anche dall’esclusione della campionessa americana Eleanor Holm, alla quale non fu consentito di partecipare perché trovata ubriaca (troppo champagne) durante la traversata oceanica. Tra i personaggi più curiosi spiccano senza dubbio il norvegese Willy Rogerberg, che si aggiudicò l’oro nella carabina senza sbagliare un colpo e rimase impassibile, meritandosi il soprannome Il Freddo, e la tedesca Dora Ratjen, specialista nel salto in alto, dove arrivò quarta. Due anni dopo, ai Campionati del Mondo di Vienna (in cui stabilì il nuovo primato mondiale) si scoprì che in realtà Dora era un uomo e si chiamava Heinrich. Ratjen fu spinto alla frode sportiva dalla Gioventù hitleriana, “per l’onore e la gloria della Germania” e gareggiò al posto della primatista Gretel Bergmann,nata nel 1914 da genitori ebrei e “scartata” per questo motivo.
Berlino 1936, però, fu soprattutto l’Olimpiade di Helene Mayer e Jesse Owens.
HELENE MAYER E IL PODIO EBREO – Una storia controversa, il personaggio simbolo di due settimane in cui il regime nazista s’impegnò con tutte le forze a nascondere una realtà ben diversa dalle apparenze. Helene Mayer, medaglia d’oro nel fioretto ad Amsterdam, fu l’unica atleta ebrea a gareggiare per i colori della Germania, nonostante le fosse stato impedito, dal 1933, di allenarsi in patria. Helene, figlia di un medico ebreo, si rifugiò negli Usa, dove continuò ad allenarsi e a sperare di essere reintegrata. La convocazione per i Giochi, probabilmente, non sarebbe mai arrivata se dalla sua parte non si fossero schierati involontariamente proprio gli americani. In un primo momento, infatti, il comitato olimpico statunitense pensò di boicottare l’Olimpiade, perché l’opinione pubblica disapprovava la politica portata avanti dai nazisti. Goebbels fiutò il pericolo (l’assenza della compagine più forte sarebbe stata un colpo durissimo per la propaganda) e cercò, in occasione della visita della delegazione a stelle e strisce, di “ripulire” Berlino da ogni simbolo e slogan di stampo antisemita. Contemporaneamente, Helene Mayer ricevette l’agognata chiamata, a ulteriore riprova della fiducia e della tolleranza dei tedeschi nei confronti degli atleti di origine ebrea. Questo scenario inatteso convinse gli Usa, mentre l’atleta decideva di accettare (forse per il desiderio di riabbracciare la madre), nonostante tante critiche. Mayer conquistò la medaglia d’argento e effettuò il saluto romano su un podio che, per uno scherzo del destino, vide la presenza di altre due ragazze ebree: l’ungherese Ilona Elek (oro) e l’austriaca Ellen Preis. La performance non le consentì però di restare in Germania: Helene rientrò in America, dove prese la cittadinanza e visse fino al 1952, quando riuscì a tornare in patria. Morì un anno dopo a causa di un tumore, portando con sé tanti quesiti irrisolti e la certezza che, senza la sua caparbietà e il suo amore per la famiglia e la patria, forse non sarebbe mai nata la leggenda di Jesse Owens.
JESSE OWENS – L’eroe indiscusso dei Giochi di Berlino, il primo atleta a identificarsi con un’edizione, colui che imbarazzò Hitler e la sua idea di superiorità della razza ariana. James Cleveland Owens nacque a Oakville, in Alabama, nel 1913, da una famiglia poverissima di agricoltori (i nonni erano stati schiavi nelle piantagioni di cotone). A nove anni si trasferì nell’Ohio, dove cominciò ad appassionarsi all’atletica e a ottenere successi nelle competizioni giovanili. Nel 1935, durante il tradizionale raduno dei “big ten”, i dieci college più importanti del Middle West, l’Università dell’Ohio lo schierò come fiore all’occhiello. Fu in quell’occasione, dopo aver demolito cinque primati del mondo, che gli venne dato il soprannome di Lampo d’Ebano. Fu inserito nella lista dei partecipanti all’Olimpiade insieme ad altri nove afro-americani e dominò le gare di atletica, conquistando ben quattro medaglie d’oro. Nella corsa non ebbe rivali (vinse agevolmente i 100, 200 e la 4×100), mentre il successo nel salto in lungo fu decisamente più sudato ed è ricordato soprattutto per la polemica sulla mancata stretta di mano di Hitler. Il 4 agosto, Jesse Owens affrontò un avversario degno del suo talento, il tedesco Carl Ludwig “Luz” Long, idolo di casa. Long lottò sul filo dei centimetri con l’americano, prima di capitolare a causa di un ultimo salto nullo. Jesse, già sicuro dell’oro, decise di onorare fino in fondo la gara e il suo rivale, spiccando un balzo straordinario che lo fece atterrare a 8,06 metri. Long fu il primo a congratularsi; prima della premiazione, gli atleti passarono sotto il palco delle autorità, dal quale Hitler salutò Owens, lasciando successivamente lo stadio. Nessuna stretta di mano, dunque, ma un gesto distensivo, confermato dallo stesso atleta in diverse interviste. Owens apprezzò quel gesto e lo ha più volte ricordato negli anni successivi, confrontando l’esperienza olimpica (e i trattamenti di riguardo ricevuti) con l’accoglienza non proprio trionfale che gli riservarono il presidente Roosevelt e un Paese ancora afflitto dalla vergogna della segregazione razziale. Il proiettile umano morì nel 1980 a Tucson, in Arizona, per un cancro ai polmoni (fumò un pacchetto di sigarette al giorno per oltre 35 anni).
LA SPEDIZIONE AZZURRA – L’Italia partecipò ai Giochi Olimpici di Berlino con ben 182 atleti, tra cui 13 donne, ottenendo 22 medaglie (otto ori, nove argenti e cinque bronzi). Il trionfo più significativo fu quello di Trebisonda “Ondina” Valla, la prima donna a vincere un oro olimpico individuale nella storia dello sport azzurro. Ondina Valla si affermò negli 80 metri ostacoli con il tempo di 11”748, al fotofinish, precedendo di pochi millesimi la tedesca Anni Steuer, la canadese Elizabeth Taylor e la connazionale Claudia Testoni, con cui diede vita a una rivalità durata ben 11 anni. Mario Lanza, invece, fu battuto per soli quattro decimi dall’americano John Woodruff negli 800 metri, mentre il campione di Los Angeles e favorito sui 1500 Luigi Beccali si fece precedere dal neozelandese Jack Lovelock e dallo statunitense Glenn Cunningham a causa di una ferita al piede. A Berlino mosse i primi passi di una carriera straordinaria Edoardo Mangiarotti: l’atleta italiano più titolato di sempre ai Giochi si impose nella spada a squadre, conquistando la prima di 13 medaglie olimpiche. Dalla scherma, storica fucina per l’Italia, arrivarono ben nove medaglie, di cui altre tre d’oro (Giulio Gaudini nel fioretto, Franco Riccardi nella spada e fioretto a squadre); Aldo Montano, capostipite della grande famiglia di sciabolatori e nonno del Montano campione ad Atene 2004, vinse l’argento nella sciabola a squadre. Le delusioni più grandi arrivarono dal ciclismo (solo un argento, nell’inseguimento a squadre) e dalla ginnastica, mentre anche il pugile Ulderico Sergo (pesi gallo) e l’equipaggio dell’8 metri di vela salirono sul gradino più alto del podio, così come la Nazionale di calcio. Una vittoria inattesa, ancora oggi unica e sorprendente, perché quella guidata da Vittorio Pozzo fu una selezione sperimentale, composta interamente da esordienti e quindi diversa da quella Campione del Mondo nel 1934 e 1938. I terzini Foni e Rava (acquistati dalla Juventus) e l’ala Annibale Frossi (finito all’Ambrosiana-Inter la stagione successiva) furono i grandi trascinatori: Frossi realizzò ben sette reti, tra cui quella decisiva, al 2’del primo tempo supplementare, nella finale contro l’Austria , terminata 2-1 (dello stesso Frossi e di Kainberger le marcature al 90’). Il Dottor Sottile (come sarà ribattezzato in seguito) aveva la particolarità di giocare con un paio di occhiali dotati di lenti infrangibili, assicurati alla nuca da un elastico; era miope, ma questo non gli impedì di segnare in tutte le partite, dall’esordio con gli Stati Uniti (1-0) alla goleada col Giappone (8-0) e alla semifinale con la Norvegia, in cui fu determinante con un altro sigillo nell’extra-time. La formazione austriaca era giunta all’ultimo atto dopo aver eliminato Egitto, Perù e Polonia, anche se la vittoria con i sudamericani fu assegnata a tavolino: il match, che il grande scrittore Edoardo Galeano ha definito “il più emozionante di sempre”, finì 4-2 per il Perù. I tifosi, colmi di gioia, invasero il campo dopo il quarto gol e questo portò alla decisione di sospendere le ostilità e di rigiocare la sfida. I peruviani si rifiutarono, così l’Austria passò il turno.
FINE DI UN’EPOCA – Il 16 agosto 1936 terminavano i Giochi di Berlino. La città di Tokyo era stata designata per ospitare l’edizione del 1940, ma la Guerra stravolse ogni programma e rinviò tutto a otto anni più tardi, quando a Londra si disputò l’Olimpiade numero dodici. La Germania di Hitler e Goebbels aveva raggiunto il suo scopo, offrendo al mondo un saggio della propria grandezza ed efficienza. Un mondo abbagliato da tanta perfezione e ancora inconsapevole dei gravi pericoli a cui il nazismo lo avrebbe esposto.