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Da Atene a Rio, le mille vite di Federica Pellegrini

Federica Pellegrini

Londra, 2012. L’inizio non era stato dei migliori. Una semplice frase detta senza malizia, “troppe sette ore in piedi alla vigilia della gara”. Polemiche, critiche, l’allora presidente del Coni Gianni Petrucci che le rispose “portare la bandiera non è una via crucis”. Rio de Janeiro, 2016. La zavorra diventa una piuma, finalmente quel drappo tra le mani e “il coronamento della carriera”. Rewind. Il nastro si riavvolge e c’è di nuovo una pagina bianca da scrivere. La strada che si incrocia ancora una volta con quella di un’altra primadonna dello sport, la Valentina Vezzali che quattro anni fa partì in quarta per prendersi il Tricolore e che oggi annuncia il suo ritiro dalla scherma proprio mentre la sua ‘erede’ si prende l’Italia. Un addio e un inizio, la staffetta si consuma a Rio de Janeiro.

Federica Pellegrini ce l’ha fatta. Il tempo le ha ripresentato il conto e stavolta i pianeti si sono allineati tutti, nessuno escluso. Con un bonus: il 5 agosto, quando sarà la prima degli Azzurri a sfilare dentro il Maracanà, sarà anche il suo 28esimo compleanno. Insomma, era scritto nelle stelle. Una, due, tre, quattro Olimpiadi: da Federica bambina a Federica donna. In mezzo, vita, vasche e passioni di una predestinata.

Nel 2004, capelli lunghi e qualche brufolo, si presenta da sconosciuta con il miglior tempo sul blocchetto dei 200 stile di Atene. Ad appena 16 anni finisce con un argento al collo e un pizzico di delusione, tutta colpa dell’adolescenza che per qualche istante le offusca il valore dell’impresa: lei valeva e voleva l’oro ma pazienza, la veterana Potec laggiù in prima corsia, lontana dal suo sguardo, glielo sfila toccandole davanti di soli 19 centesimi. A Pechino tutta un’altra storia. Atleta da battere, affonda nei 400 e poi risorge nella sua gara, i 200, prima con un record del mondo in semifinale, poi con il trionfo olimpico. L’araba fenice che risorge dalle sue ceneri, proprio come il tatuaggio sul collo. Il 2012 è l’unico anno storto della sua carriera: in piscina non è più lei, fa fatica, è una stagione da dimenticare che culmina, si fa per dire, con quel quinto posto in finale che lei incassa, si carica sulle spalle senza cercare scuse, semplicemente “non è andata”.

Lo dice da donna, quella che è diventata in vasca e fuori. Icona di stile, eserciti di fan nutriti a selfie e tweet (facebook no, non le va a genio), manager di se stessa, comunicatrice in prima persona: lei che stira insieme al fidanzato Magnini, lei che prepara la colazione in tuta, lei che dà i croccantini ai gatti della piscina di Verona, lei in abito da sera e tacchi altissimi, lei testimonial di shampoo, biscotti, gioielli, tablet… Alla Divina piace senza filtri, e i ‘mafaldini’ ringraziano.

Eppure non è stato tutto facile. Due libri all’attivo, Fede racconta i suoi problemi di bulimia, a Genova nel 2008 in tanti la vedono fermarsi in acqua e non riuscire più a respirare. Poi, quando supera il trauma, arriva l’ansia che la fa fuggire dai blocchetti. Dopo ogni caduta, la risalita. Dicono sia fragile, ma senza quel carattere lì non si riemerge. La chiamano mangiatrice di uomini e lei ci ride su, un po’ sorpresa e un po’ contrariata. In realtà le si conoscono due grandi storie d’amore. Con Luca Marin è stato un rapporto a metà tra un libro di Moccia e Beautiful: anelli che volano in piscina, all’altro lato del ring la rivale non solo acquatica Laure Manaudou. Ai mondiali di Shangai nel 2011 il copione cambia di poco. Lei, lui e l’altro, Magnini. Il gossip finisce in prima pagina più delle medaglie, tra racconti di sceneggiate e urla nelle stanze d’albergo non si sa dove finisce il romanzo e inizia la realtà. Amore Nazionale. Di sicuro a distanza di anni avevano ragione loro, i PelleMagno. Coppia da copertina, coppia glamour, coppia che a casa si divide tra la lavatrice e l’aspirapolvere. Con lui Federica cresce, si trasforma, calma l’ansia e trova l’equilibrio. Coincidenza?

A bordovasca però Federica resta la fuoriclasse irrequieta. Costretta dal 2009 a saltare da un allenatore all’altro, alla continua ricerca del filo che unisce motivazione e testardaggine. Tanto la sua, quanto quella dell’uomo col cronometro in mano. Un volto diverso per ogni Olimpiade: Max Di Mito ad Atene, l’adorato e perso troppo in fretta Alberto Castagnetti a Pechino, Claudio Rossetto a Londra, ora Rio con Matteo Giunta, l’ultimo in ordine di tempo sul quale in molti storcevano il naso. Lei no. Tra una stagione e l’altra l’ufficio di collocamento Pellegrini assume i vari Lucas (due volte compreso il trasferimento in Francia), Morini, Bonifacenti. Con il senno di poi ha sempre avuto ragione lei, se non altro perché ci ha messo la faccia, inseguendo le sue sensazioni, mettendo in discussione prima di tutto se stessa perché i veri campioni non cercano alibi. La Pellegrini story, estrema sintesi di dodici anni vissuti al massimo, potrebbe forse finire qui. In Brasile sarà l’ultimo atto a cinque cerchi: mese più, mese meno, Federica ha già anticipato che arriverà il tempo dell’addio. Ci saranno una famiglia, i figli, una nuova carriera da inventare. Ma questa è, appunto, un’altra storia.

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