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Nel 1909 il congresso del CIO si riunì a Berlino per assegnare i Giochi del 1912, ma dopo la cocente delusione di quattro anni prima i tedeschi furono costretti a masticare amaro ancora una volta, visto che il Comitato Olimpico, sotto la spinta dell’ufficiale di marina svedese Viktor Gustaf Balck (uno dei fondatori del movimento olimpico), preferì la soluzione scandinava di Stoccolma.
La volta buona, finalmente, fu quella dell’edizione successiva, quando la capitale tedesca, sbaragliando la concorrenza di Budapest, Amsterdam, Bruxelles, Cleveland e anche Alessandria d’Egitto, riuscì a farsi assegnare la sesta edizione dei Giochi Olimpici moderni. La Germania affiancò al suo Comitato Olimpico, presieduto dal generale Viktor von Podbielski, una “struttura organizzativa per i Giochi”, buttandosi a capofitto nella preparazione dell’evento. Nel 1911 ebbe inizio la costruzione dello stadio, inaugurato due anni dopo dal Kaiser Guglielmo II: al suo interno vi erano una pista da atletica di 400 m, una per il ciclismo di 600 m, una piscina di 100 m e spazio per ben 30000 spettatori a sedere. Venne elaborato immediatamente un programma-gare provvisorio per 20 sport, fra cui il pentathlon moderno (debuttante quattro anni prima a Stoccolma con discreto successo), tutti gli sport “da stadio”, il golf, il canottaggio e una sostanziosa parte invernale (si pensò di dedicargli una intera settimana su tre), che oltre al pattinaggio di velocità e di figure prevedeva anche l’hockey, due gare di sci di fondo, il salto e la combinata nordica.
Il 28 giugno del 1914, mentre al Deutsche Stadion (poi ribattezzato Olympiastadion) si concludeva la Festa Olimpica, a Sarajevo lo studente anarchico Gavrilo Princip uccideva l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie, accendendo la miccia che portò all’esplosione della Prima Guerra Mondiale. Il barone de Coubertin decise di partire volontario con l’esercito francese lasciando il CIO, “che un soldato non potrebbe mai presiedere”, nelle mani di un nobile svizzero, Godefroy de Blonay. I preparativi continuarono anche durante la guerra nell’erronea convinzione che le ostilità di li a poco sarebbero cessate. Al Comitato tirava una brutta aria. Britannici e statunitensi spinsero per l’espulsione della Germania e per lo spostamento dei Giochi, ricevendo prontamente la risposta dei padroni di casa che, affidandosi ad un rapporto nel marzo del 1915, fecero sapere che solo le nazioni alleate e i paesi neutrali sarebbero stati invitati. Non è chiaro quando la decisione divenne formalmente esecutiva, ma sta di fatto che ben presto la capitale si accorse di dover rinunciare lasciando agli almanacchi la voce “Berlino 1916” solo ai fini del numero progressivo.
La guerra costò molto allo sport. La morte e la distruzione piegarono gran parte delle nazioni europee impegnate nel conflitto mondiale che terminò nel 1918. Dei circa 6000 atleti che avevano gareggiato ai Giochi dal 1896 al 1912 si sa che almeno 115 non fecero ritorno dai campi di battaglia. Quello che rimase illeso, però, fu lo spirito olimpico. Nel Congresso del 1919 il CIO pensò di assegnare i Giochi ad uno dei paesi più martoriati, il Belgio. La scelta definitiva a favore di Anversa (a dire il vero già candidata fin dal giugno del 1914), appoggiata dalle “potenze alleate”, non fu altro che un gesto di sfida nei confronti dell’altra coalizione (Germania, Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia), uscita sconfitta dalla guerra. De Coubertin era conscio del rischio che si poteva correre facendo sfilare in Belgio gli “invasori”, ma allo stesso tempo sapeva che un siffatto ostracismo avrebbe rappresentato una deroga senza precedenti alla vera essenza dei Giochi. La questione venne mascherata facendo affidamento allo
storico sistema degli inviti che, a dire il vero, fu corretto solo prima facie, rappresentando in sostanza il primo caso di boicottaggio olimpico. La stampa dei paesi esclusi fu comunque presente alla manifestazione e, come prevedibile, ci andò giù pesante criticando oltremodo ogni singolo aspetto della kermesse.
I notevoli problemi economici e la devastazione che ancora regnava sulle maggiori città d’Europa imposero un’organizzazione semplice e concreta. Le strutture per gli atleti, gli impianti e le cerimonie vennero preparate con estrema sobrietà. Fra le maggiori novità si segnalano la prima, storica apparizione della bandiera a cinque cerchi (disegnata personalmente da Pierre de Coubertin), il giuramento ufficiale degli atleti, che da allora si ripete nella cerimonia di apertura di ogni Olimpiade, e il riconoscimento ufficiale del CIO per la partecipazione delle donne. Quanto agli aspetti più tecnici, invece, venne finalmente stabilita una lunghezza standard per la piscina (50 m) e la pista da atletica (400 m).
Anversa 1920 poteva ora prendere il via. L’inaugurazione si tenne il 23 aprile presso il Kielstadion, costruito appositamente per i giochi con una capienza di circa 35000 posti a sedere. La partecipazione, sebbene limitata, vide 29 paesi in gara e un numero di concorrenti approssimativamente stimato in 2664 atleti, di cui 177 donne, per 155 gare in 25 discipline. Al programma base furono aggiunti diversi sport quali l’hockey su prato, lo sci di fondo (che però non venne organizzato) e il golf (anch’esso escluso solo in extremis). Nonostante gli incidenti di Pietri nel 1908 e di Lazaro nel 1912 si decise di mantenere anche la maratona.
Per l’ennesima volta furono gli Stati Uniti a portare a casa più medaglie, ben 95, contro le 64 della Svezia e le 44 della Gran Bretagna. La sorpresa dell’edizione fu senza dubbio la Finlandia, che dopo la bella figura di quattro anni prima in Svezia, si ripeté anche in Belgio conquistando 34 medaglie, di cui 15 ori. La sua stella fu senza dubbio il ventitreenne Paavo Nurmi (tre ori e un argento), che si consacrerà quattro anni più tardi come uno dei migliori atleti della storia. Come detto, gli americani fecero razzia di
medaglie, ostacolati nell’atletica solo dai giovani finlandesi. Nel nuoto, invece, non ci fu storia, con otto dei dieci eventi in palio coperti dalla bandiera a stelle e strisce. I padroni di casa fecero bene negli sport di squadra, conquistando l’oro nel calcio (2-0 alla Cecoslovacchia) e l’argento nella pallanuoto (in una splendida finale con la Gran Bretagna). La finale di rugby, a sorpresa, vide gli Stati Uniti imporsi sulla favorita Francia con un perentorio 8-0.
Anche l’Italia, per la prima volta con la divisa azzurra, fece un’ottima Olimpiade, chiudendo il viaggio in Belgio con 23 medaglie (13 ori, 5 argenti e 5 bronzi). Fu strepitosa la prestazione offerta da Ugo Frigerio, che nella marcia fece registrare una storica doppietta nella 3 km e nella 10 km. Oltre alle medaglie conquistate nell’atletica leggera, in cui comunque gli Stati Uniti ci lasciarono solo un ruolo da comprimari, fu ancora una volta nella scherma che gli azzurri si affermarono come dominatori assoluti. Il trascinatore fu il livornese Nedo Nadi, già oro individuale nel fioretto a Stoccolma. Ad Anversa l’Italia vinse cinque dei sei eventi in programma, sempre con il grande Nadi sugli scudi: fioretto e sciabola individuali (diede forfait all’ultimo minuto nella spada a causa di problemi intestinali) e tutte e tre le specialità nella gara a squadre. Altre grandi soddisfazioni giunsero dall’equitazione (oro a Tommaso Lequio di Assaba e argento ad Alessandro Valerio), dal canottaggio (oro nel “due con” e argento nel “due di coppia”) e dal ciclismo (dove il team azzurro fu il più rapido di tutti nell’inseguimento a squadre).
Come in ogni edizione dei Giochi Olimpici che si rispetti, poi, anche in quella del 1920 non mancarono episodi particolari: nella gara inaugurale di pallanuoto, ad esempio, gli azzurri si ritirarono a causa dell’acqua gelida della piscina; non da meno fu lo “sciopero della fame” dei raccattapalle durante l’infinita partita di tennis fra lo statunitense Law ed il greco Zerlentis; infine si segnala il muratore americano John Brendan Kelly, che oltre ad aggiudicarsi due ori nel canottaggio, nove anni dopo metterà alla luce sua figlia Grace, futura stella di Hollywood e principessa di Monaco.
La VII Olimpiade dell’era moderna si chiuse il 12 settembre 1920. Per una volta, però, i bilanci da fare erano diversi. Solo pochi anni prima la guerra aveva cancellato tutto, lasciando il mondo intero sospeso, in attesa di trovare nuova linfa. Serviva una scossa e da Anversa arrivò un segnale più chiaro che mai. I valori dello sport, contro tutto e tutti, avevano trionfato ancora. Anche sulla morte e sulla devastazione. Lo spettacolo poteva continuare.