Serie A

Ha ragione Allegri o Adani? Un decennio di dibattito calcistico

Massimiliano Allegri
Massimiliano Allegri - Foto Antonio Fraioli

Si aprì con un botta e risposta tra Claudio Ranieri, al tempo nuovo allenatore della Roma, e Zdenek Zeman il decennio di dibattito calcistico che sta per chiudersi. Il boemo sostenne l’importanza del calcio champagne, il tecnico testaccino rispose senza mezzi termini: “Io lo champagne me lo bevo”. L’episodio strappò più di una risata a critici, tifosi e appassionati ignari che quell’argomento sarebbe tornato di moda negli anni a venire. Verranno gli anni del Guardiolismo e del Cholismo, che del decennio è stata la prima vera contrapposizione tattica quanto comunicativa nelle dichiarazioni e nei modi di porsi con stampa e giocatori.

E verranno gli anni di Massimiliano Allegri e degli scontri in tv con quelli che lui ha chiamato ‘filosofi’. Capofila dei critici Lele Adani con un rimprovero neanche tanto velato mascherato da domanda nel post Inter-Juve: “L’allenatore può incidere?”. Da quella domanda il dibattito non cambia protagonisti ma trasla binario: l’argomento non è più tanto il presunto bel gioco o meno ma la percentuale di impatto dell’allenatore nel dominio della partita di una squadra. E mentre Luciano Spalletti se la rideva nel corso del suo intervento con le urla del collega bianconero di sottofondo, si dava il via ad un ciclo di frecciatine reciproche tra l’allenatore e l’opinionista che non hanno risparmiato la stagione in corso, nonostante la temporanea uscita di scena dell’ex tecnico del Milan. L’idea di calcio di Allegri che sembra emergere da quel celebre litigio eppure quasi arriva a stonare con la storia del tecnico toscano. Allegri si appella a situazioni individuali (“Se i giocatori si passano bene la palla”, “Posso aiutare i singoli giocatori a migliorare“, “Più si hanno giocatori di qualità e più è facile andare in una certa direzione“) puntando sulla logica del miglioramento individuale come via maestra per la crescita del collettivo e del bel gioco. Nel corso della premiazione della Panchina d’Oro 2018, Allegri ripeté il mantra (“Devo ringraziare i miei giocatori, sono loro che vincono le partite”). Sembra emergere una sottovalutazione di se stesso e del ruolo del tecnico che ha fatto storcere il muso a più di un collega (“La tattica è una cavolata? Spero solo non se ne accorgano i presidenti o i nostri salari diminuiranno parecchio“, ha detto Sarri). Così come è emersa un’attenzione prevalente alla difesa a scapito di un fronte offensivo lasciato in balia di un laissez faire giustificato dalla qualità dei singoli. Claudio Ranieri alla vigilia di una delle sue primissime partite (contro il Basilea in Europa League) in conferenza stampa stupì tutti: “Ho lavorato sulla fase difensiva. In attacco siamo talmente bravi che almeno due gol li facciamo“). Tecnica sopra la tattica? I piedi sopra le idee di un allenatore? Ma questo concetto come si sposa con il sorprendente (e anche bello da vedere) Cagliari di Allegri che arrivò nella prima parte della classifica a dispetto di un livello non certo alto dei suoi interpreti e che comunque non si è mai ripetuto al di fuori della gestione del tecnico di Livorno? Da tempo si discute di quanto i calciatori di Gasperini facciano fatica lontano dagli schemi della sua storica Atalanta o di quanto altri riescano ad esplodere una volta approdati alla corte del tecnico ex Genoa, in quel caso la predominante mano dell’allenatore sembrerebbe evidente con una crescita del collettivo e quindi (solo successivamente) del singolo giocatore, inserito in un meccanismo perfetto. E perché non fare lo stesso esempio con Biondini e Cossu che raggiunsero la Nazionale solo nel biennio Allegri o Matri che tanti gol in una singola stagione come con Allegri non li ha più fatti esattamente come Jeda e Acquafresca? La mano dell’allenatore bravo si vede, della tattica pure. 

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