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L’addio al calcio di Claudio Marchisio, ambasciatore della Juventus

Claudio Marchisio - Juventus 2015/16

Il 2 ottobre 2011 la prima Juventus di Conte sta ospitando un Milan un po’ in crisi, ma comunque favorito nel pronostico perché campione d’Italia in carica. Eppure in campo è la Vecchia Signora a dominare: solo diverse parate di Abbiati e la traversa evitano lo svantaggio per la fazione guidata da Allegri, che ha creato solo un’occasione da gol. È l’87esimo quando Claudio Marchisio riceve la palla con tanto spazio nell’half-space di sinistra, sulla trequarti. Il numero 8 bianconero arriva al limite, entra in area duettando con Vidal, di prima cerca un altro uno-due con Vučinić: Bonera legge le intenzioni del Principino ed interviene per fermarlo, ma il rimpallo questa volta favorisce i bianconeri, che trovano un gol meritatissimo. Nel recupero sarà ancora Marchisio ad arrotondare il risultato su un 2-0 che si rivelerà fondamentale nella corsa-Scudetto di quella stagione, quella in cui la Juve tornerà a vincere il campionato per la prima volta dopo Calciopoli. Secondo un curioso scherzo del destino, esattamente otto anni dopo quella doppietta fenomenale, diversi media hanno confermato che oggi Claudio Marchisio annuncerà il suo ritiro dal calcio giocato, a soli 33 anni.

Il termine inglese prime è facilmente traducibile dall’inglese come “primo” o comunque “di prima qualità”. In ambito strettamente calcistico, però, si usa definire prime di un calciatore il periodo migliore della sua carriera, quello in cui ha avuto le performance migliori. In relazione a Marchisio molti collocherebbero il prime in quella stagione 2011-2012 di cui sopra, o magari in tutte le tre annate di Conte sulla panchina della Juventus. Quello è stato sicuramente il periodo più luminoso della carriera del Principino, ma non necessariamente quello migliore: perché la qualità calcistica migliore di Marchisio è stata proprio quella di aver interpretato per la Juve sia la parte dell’incursore sia quella del metodista, di essere stato uomo d’inserimento ma anche di palleggio, elegante regista o rabbioso corridore in base alle richieste del suo allenatore. Marchisio è stato un centrocampista eclettico, intelligente, qualitativo, quantitativo – ma più di tutto è stato un perno fondamentale, per Conte prima ed Allegri poi, nella ricostruzione della Juventus fra le migliori squadre del mondo. Il Principino è diventato re, ma non lo è diventato per successione: lo è diventato col duro lavoro di tutti i giorni, a partire da quella Serie B che per tanti altri giovani talenti è stata motivo di addio ai colori bianconeri. Per tanti, non per tutti.

Marchisio ha costruito così una bacheca ricca di trofei, crescendo di anno in anno con la Juventus, per la Juventus. È stato spesso tra i pochi a salvarsi negli anni difficili dei settimi posti, si è imposto come mezzala totale con Conte e poi si è adattato alle necessità di Allegri, prima aumentando la propria influenza nel palleggio e poi addirittura andando a prendere quel ruolo di regista lasciato vuoto da Pirlo. Tutto questo grazie ad una strepitosa umiltà, calandosi nella tradizione bianconera come solo un torinese avrebbe potuto fare. Negli anni quindi Marchisio è diventato anche un simbolo riconoscibile della juventinità in Italia e nel mondo, di una mentalità vincente che tutti riconoscono alla Vecchia Signora. E se la fascia da capitano è finita sul braccio di altri simboli come Del Piero, Buffon e Chiellini non è mai stato un problema. D’altronde è Marchisio stesso a dire che “essere capitano è unattitudine. Si può esserlo anche senza portare la fascia”. Una frase che ben rappresenta ciò che è stato il Principino nei suoi anni alla Juve.

E certo oggi sarà naturale pensare che Marchisio avrebbe meritato un addio più glorioso al gioco del calcio, magari in campo e non in una sala stampa. In questo senso si è messo di mezzo un destino sfortunato, nella forma di quel maledetto infortunio del 17 aprile 2016, quella rottura del crociato da cui il Principino non si è mai ripreso completamente – come naturale, visto che il suo calo fisico era comunque già iniziato. Non può però essere un finale sottotono a cambiare il giudizio su una carriera e un uomo straordinario, destinato ad essere ricordato per sempre nella storia del nostro calcio. Almeno finchè ci sarà memoria per esempi così lampanti di come talento e professionalità non siano valori inconciliabili, anzi si esaltino se uniti l’uno con l’altro.

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