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Un giocatore di calcio capisce di aver fatto la storia nel momento in cui un semplice numero viene automaticamente associato al suo nome. Nella testa dei più grandi c’è l’immagine del leggendario Joahn Cruijff quando si vede una maglia con il numero 14, ma nella mente dei ragazzi nati negli anni ’90 quella cifra viene automaticamente collegata a Thierry Henry.
GLI INIZI – Henry comincia a giocare a calcio all’età di sette anni nel posto in cui è nato: Les Ulis. Il suo potenziale non passa inosservato e le voci che un giovane talento francese stia sbocciando cominciano a girare velocemente. L’osservatore del Monaco rimane stregato da lui quando in un’amichevole, vinta per 6-0, Thierry segna tutte e sei le reti della propria squadra. Nelle giovanili del club del principato mette le radici per diventare uno dei grandi, guardando e apprendendo dai più esperti. Qui incontra Arsene Wenger, un uomo che nel futuro ricorderà come tra i più influenti per il suo stile di gioco. Le stagioni con il tecnico francese lo portano nel 1996 ad essere eletto come miglior giovane dell’anno, tutto questo giocando da ala sinistra, un ruolo che gli è stato affidato viste le sue ottime doti da velocista. Titì (come verrà chiamato poi dai tifosi più fedeli) gioca un ottimo calcio a sprazzi, sprigionando una ventata di classe e talento a piccole dosi. Sono molti i club che mettono gli occhi su di lui, tra cui la Juventus, che però non ha la pazienza di far crescere un ragazzo così. La sua parentesi a Torino infatti è brevissima e non lascia nulla né a se stesso né ai tifosi, che qualche anno più tardi però avranno il grandissimo rimorso di aver perso uno dei migliori attaccanti degli ultimi venti anni.
AFFERMARSI – Da Torino quindi si trasferisce a Londra. Il suo arrivo ai Gunners viene accolto con scetticismo. Sia i componenti del club che i tifosi non sono convinti del valore di Thierry, che fino a quel momento aveva dimostrato il suo potenziale con poca costanza. Ma è proprio in questa fase della sua carriera che il ragazzo di Les Ulis decide di affermarsi e di cambiare il modo di giocare a calcio. Con il ritrovamento di Wenger ricomincia da capo, ma da punta centrale. Ora ha la possibilità di poter creare occasioni e di finalizzare, potendosi così costruire la scalinata per entrare nell’olimpo del calcio. Ovviamente raggiunge il suo obiettivo e lo fa in maniera eccellente, dando l’impressione che gli riesca tutto con estrema semplicità. Henry si trasforma da ipotetico campione a giocatore straordinario, uno di quelli che è in grado di decidere le sorti delle partite da solo. Oltre ad una fantasia sovrannaturale nel dribbling (inventava giocate mai viste prima) dimostra di saper essere incisivo in qualsiasi momento del match. L’Arsenal con lui in attacco vive le sue migliori stagioni riuscendo a vincere per due volte la Premier League, uno dei campionati più difficili al mondo.
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LEGGENDA VIVENTE – “Qualche volta, se giochi a calcio, la devi proprio buttare dentro”, disse una volta, ma lui lo faceva sempre, gli bastava avere l’occasione giusta e se questa non arrivava riusciva a crearsela da solo. Tutti gli amanti del calcio ricorderanno quel magnifico gol che fece contro il Manchester United di Ferguson: posizionato fuori dall’area di rigore, spalle alla porta avversaria, raccoglie un pallone rasoterra sollevandolo con la punta del piede. Prima che la sfera arrivi nel punto più alto, calcia con tutta la forza che ha nella gamba destra spedendola sotto l’incrocio dei pali. Un gesto tecnico storico, uno dei tanti che portò i suoi sostenitori a dedicargli una statua che oggi è visibile fuori dall’Emirates Stadium. Solitamente gesti simili vengono dedicati a personaggi purtroppo passati a miglior vita che hanno lasciato un segno, ma per Henry si è fatta un’eccezione perché lui è un’icona e una leggenda vivente.
La sua più recente apparizione calcistica lo ha visto negli Stati Uniti, dove è andato per far crescere il fenomeno del calcio e della MLS, prendendosi la responsabilità di portare più pubblico possibile nello stadio dei NY Red Bulls. Un’opportunità che gli ha permesso di giocare fino a 37 anni e che ha reso grande il suo nome anche oltre oceano. Il suo lungo viaggio lontano dall’Europa gli ha inoltre reso possibile l’opportunità di poter clamorosamente ritornare a casa sua per poco tempo, precisamente per quattro partite, segnando in una gara di FA Cup contro il Leeds che regalò la vittoria ai Gunners. Titì ha vinto molto anche con il Barcellona (tra cui una Champions League e una Coppa del Mondo per Club), ma quello che ha fatto per l’Arsenal non lo farà mai più nessuno. I più nostalgici avranno per sempre in mente la sua immagine con indosso una maglia rossa, larga, con le maniche bianche e quel numero 14.