Amarcord

L’angolo del ricordo, Robert Parish: il “Capo” con 21 anni di carriera e 1.661 partite giocate

Robert Parish
Robert Parish

6 aprile 1996: nell’incontro tra Hornets e Cleveland, cadde a causa di Robert Parish un record che apparteneva a Kareem Abdul-Jabbar, ossia quello delle partite giocate nella NBA. Il centro di Bucks e Lakers ne aveva sommate 1.560, frutto di una carriera longeva. Quel giorno The Chief, altro pivot dalla lunga e leggendaria carriera, lo superò. Parish è stato giocatore di una incredibile regolarità. Tre titoli con i Boston Celtics (1981, 1984, 1986) e medie eccellenti con Charlotte a 43 anni.

Viene scelto all’ottava dai Golden State Warriors laureatisi campioni nel 1975. Purtroppo per il Capo il suo arrivo ai Warriors coincide con il declino del club, che nei suoi quattro anni di permanenza riesce solo nella prima stagione a raggiungere i playoffs. Parish è tutt’altro che felice della situazione, avendo successivamente a dichiarare come: “Stessi seriamente pensando che la mia carriera nella NBA sarebbe stata molto breve a causa delle molte sconfitte dei Warriors di cui potevo essere ritenuto la causa, essendo stato la prima scelta della franchigia al Draft del 1976 ed era logico che ne venissi incolpato”. Ma le cose erano destinate a cambiare molto in fretta, grazie al ritiro di Dave Cowens quale centro dei Boston Celtics, circostanza che porta la vecchia volpe di Red Auerbach nel giugno del 1980 a lasciare a Golden State la prima scelta assoluta in cambio di Parish, ottenendo al contrario la possibilità della terza scelta spettante ai Warriors.

Viene formato un trio di grandezza assoluta come quello composto da Bird, Parish e McHale, capace di rimediare a cinque anni di vacche magre. Sempre presente nelle 82 gare di regular season, Parish mette a segno medie da 18.9 punti e 9.5 rimbalzi a partita, che contribuiscono al miglior record assoluto di 62-20 della Lega da parte dei Celtics: arriverà il primo titolo sconfiggendo 4-2 in finale gli Houston Rockets di Moses Malone, limitato da Parish a 22.3 punti e 15.7 rimbalzi. Presa definitivamente confidenza con il resto della squadra, Parish disputa forse la sua migliore stagione l’anno seguente, al termine della quale è ventesimo in punti realizzati (19.9 di media), ottavo quanto a rimbalzi (10.8) e mette a segno 192 stoppate, quinto assoluto, risultando altresì votato come secondo, alle spalle del compagno Larry Bird, nella scelta come MVP della regular season. Dopo due anni senza successi al Boston Garden è il momento di cambiare, e l’avvicendamento in panchina di Bill Fitch con l’ex stella dei Celtics K.C. Jones giunge a proposito per dar vita al “Quadriennio di Fuoco” in cui la rivalità tra biancoverdi e gialloviola raggiunge il proprio apice. Con un quintetto base oramai consolidato formato da Dennis Johnson, Danny Ainge, Larry Bird, Kevin McHale e Robert Parish, con l’aggiunta di Cedric Maxwell nel 1984 e di Bill Walton nel 1986, i Celtics sono pronti a dar battaglia contro i Lakers.

Le Finals 1984 sono tra le più avvincenti della Storia NBA: i Celtics sconfiggono i rivali di sempre per l’ottava volta in altrettante occasioni grazie a una gara-7 vinta 111-102 dove Parish contribuisce con 16 rimbalzi (tenendo una media in finale di 14.9 punti e 10.8 rimbalzi. La sfida infinita si ripete l’anno seguente: questa volta sono i Lakers a primeggiare 4-2, sfatando una maledizione che durava da tanto, troppo tempo. Una sfida che viene inaspettatamente a mancare l’anno successivo, dato che i Lakers si fanno sorprendere nelle finali della Western Conference dagli Houston Rockets delle torri Hakeem Olajuwon e Ralph Sampson, mentre il cammino di Boston ai playoffs è qualcosa di molto simile (11-1) ad un rullo compressore. La serie finale è vinta dai Celtics per 4-2 con il contributo di Parish costituito da 12.7 punti e 6.8 rimbalzi: il centro inizia a risentire gli acciacchi del’età, avendo toccato quota 33 anni. Ai playoffs del 1987 giungono alle Finals sul velluto (11-1), nel mentre Boston deve sudare le classiche sette camicie (è proprio il caso di dire, pari alle gare disputate), per avere ragione per 4-3 sia di Milwaukee che di Detroit. Non solo la fatica per le maggiori gare disputate (17 rispetto alle 12 degli avversari, ma soprattutto l’aver a che fare con un Magic Johnson all’apice della sua carriera, fanno sì che le prime tre gare vedano rispettato il fattore campo (126-113 e 141-122 per i Lakers, 109-103 per i Celtics), prima che assuma un ruolo decisivo gara-4 al Boston Garden, vinta in rimonta da Los Angeles dopo aver chiuso in svantaggio 78-85 il terzo periodo, con Johnson a mettere a segno gli ultimi due leggendari dei suoi 29 punti a due dalla sirena per il 107-106: il suo leggendario running hook. Il gesto che, di fatto, consegna il titolo ai Lakers, che lo fanno proprio in gara-6 al Forum.

Con la quarta finale consecutiva disputata, si conclude il periodo magico dei Boston Celtics degli anni ’80, i quali dovranno attendere addirittura 20 anni per tornare a disputare (e vincere) una finale per il titolo, manco a dirlo superando 4-2 i Los Angeles Lakers. Ma la cosa più curiosa è che l’ultimo del glorioso quintetto ad abbandonare la franchigia è proprio Parish, il quale si congeda da Boston a fine stagione ’94 dopo 14 tornei da protagonista, allorché ha già superato i 40 anni, essendo riuscito a farsi convocare per altri due All-Star Game nel 1990 e nel 1991. La dimostrazione di quanto alla longevità sia abbinata un’ancora sufficiente capacità di stare in campo, Parish la dimostra nel suo ultimo anno a Boston, concludendo la regular season con 11,7 punti e 7.3 rimbalzi di media, fornendo un impressionante insegnamento ai più giovani il 22 aprile 1994: gara esterna contro i campioni in carica di Chicago vinta 104-94 all’overtime, lui resta in campo per 51’ nonostante abbia 40 anni e 235 giorni.

The Chief va poi all’inseguimento di record individuali assoluti, con due stagioni a Charlotte e una a Chicago, con cui contribuisce peraltro molto marginalmente al quinto titolo dei Bulls di Michael Jordan e suo quarto personale, prima di annunciare, il 25 agosto 1997, il suo definitivo ritiro con le consuete, poche parole: “Penso che sia giunto il momento, il mio cuore mi dice che è il caso di smettere”. Per lui 21 anni di militanza nella Lega e 1.611 incontri di regular season, record quest’ultimo ancora ben lungi dall’essere superato. Nel 1998 i Celtics hanno ritirato il suo n.00 e nel 2003 è stato introdotto nella Hall of Fame assieme al suo rivale di tante battaglie, James Worthy, nonché al nostro Dino Meneghin. Tutti omaggi ben più che meritati da parte di The Chief: il Capo silenzioso che incuteva stima e rispetto da parte di compagni e avversari senza bisogno di alzare la voce o usare le maniere forti.

SportFace