Editoriali

Tennis, il serve and volley non è ancora morto

Pat Rafter - Wimbledon 2001 - Foto Ray Giubilo

Mischa Zverev ha compiuto l’impresa. Il tennista tedesco di origini sovietiche ha battuto Andy Murray, testa di serie numero 1 degli Australian Open 2017, accedendo ai quarti del torneo di Melbourne. Una favola sorprendente non solo per la portata dell’incontro ma soprattutto per la maniera in cui tale vittoria è arrivata: l’attuale n°50 del ranking ATP ha battuto il britannico, uno dei migliori ribattitori del circuito, giocando un tennis di puro attacco così come accadeva a fine anni ’80 e ’90. Zverev ha rispolverato il tanto discusso serve and volley dimostrando che forse quest’arte non sia del tutto ancora estinta.

La domanda nasce spontanea: può su superfici così rapide come quella di Melbourne risultare efficace anche in un tennis moderno in cui attrezzi e velocità di palla sono totalmente differenti rispetto al passato? Il serve and volley, pratica diffusa sino a qualche lustro fa, consiste nell’eseguire il servizio seguendolo immediatamente a rete per poi giocare di volo togliendo di fatto il tempo all’avversario. Con gli anni questa tecnica è andata in via di estinzione a causa di un mutamento costante del gioco che ha privilegiato un tennis impostato prevalentemente da fondocampo.

Ad oggi è raro vedere il serve and volley salvo qualche sporadica esecuzione in cui si prova a sorprendere l’avversario o, semplicemente, non sapendo più che contromisure apportare lo si usa in situazioni quasi disperate. Tale arte può essere definita un’arma a doppio taglio. Se la battuta viene variata spesso, ovvero attraverso kick, slice, palle più lavorate e continui cambi di traiettorie, allora può essere incisiva in quanto chi è in risposta può essere mandato in confusione non avendo punti di riferimento e sapendo che dovrà scegliere spesso una risposta “rischiata” pur di non far giocare una comoda volée dall’altra parte della rete.

Ovviamente non sempre si può adottare questo tipo di schema. Le superfici infatti sono sempre più lente e omogeneizzate e anche gli stessi attrezzi (racchette e palle) permettono di giocare risposte sempre più pesanti e penetranti che vanno a penalizzare il gioco di volo. A venirne meno è anche e soprattutto lo spettacolo perché tale tecnica, diciamocelo, permette di gustarsi il meglio che questo meraviglioso sport può offrire: risposte fulminanti, stop volley, ricami sotto rete, passanti incrociati in cui la tecnica più pura e le sensibilità della mano viene messa maggiormente in evidenza.

Purtroppo è sempre più infrequente assistere a questa tecnica sia a livello professionistico che nei circoli in cui crescono le giovani promesse del domani. Difficilmente, ahinoi, assisteremo a nuovi Pat Rafter, Boris Becker, John McEnroe, Stefan Edberg, Pete Sampras e Goran Ivanisevic. L’aumentata velocità del gioco, che non consente di prendere la giusta posizione sulla rete e riduce al minimo i tempi di reazione, e il sopracitato rallentamento delle superfici sono il risultato dei nuovi prodotti che il tennis sta partorendo. È questo il destino che vogliamo riservare a questo sport?

Una volta tanto siamo dalla parte di Sergiy Stakhovsky.

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