Amarcord

Atlanta 1996, i Giochi del Centenario

Giochi Olimpici Atlanta 1996

La ventiseiesima edizione dei Giochi Olimpici dell’era moderna, quella del Centenario, fu quella dove il mondo intero, per la prima volta, riuscì a scindere l’evento sportivo in senso stretto dalla sua anima. Un vento nuovo, quello del mercantilismo, spirava sempre più forte, tanto da mettere in pericolo la sopravvivenza stessa della fiamma. Televisioni, sponsor, luci, colori e flash. Tutto doveva brillare, nulla brillò. Si vendevano prodotti e si svendevano valori. I Campionati Mondiali di Calcio di USA 1994 erano stati l’antipasto, l’Olimpiade di Atlanta 1996 fu il piatto forte. Si stava, evidentemente, prendendo una direzione: ma quella sbagliata.

Atlanta vinse la corsa all’assegnazione avendo alle spalle i grossi benefattori del CIO, su tutti la Coca Cola, che dal 1980 accompagnava tutti i progetti più importanti dell’organizzazione olimpica. La romantica idea di Atene si sciolse come neve al sole nelle ultime due votazioni. Il nuovo millennio era lì, a due passi, pronto a sbattere in faccia al mondo l’umiliazione della tradizione a vantaggio del progetto economico e di una fredda monetizzazione.

Furono i Giochi della disorganizzazione, dei volontari impreparati, dell’informatica primordiale e di uno smodato condizionamento commerciale. Nessuno, a quanto pare, aveva imparato nulla da Los Angeles 1984. I diritti TV regnarono incontrastati su tutto e atleti meravigliosi furono costretti a gareggiare in stadi trasformati in autentiche fornaci per garantire ai fruitori europei di potersi giovare del “servizio” ad orari a loro congeniali. Di Olimpico, ad Atlanta, si respirò ben poco. Nella notte fra il 27 e il 28 luglio, dieci giorni dopo l’inaugurazione dei Giochi, un ordigno rudimentale esplose nel parco olimpico del centenario durante un concerto. Due morti e oltre cento feriti. Prese la parola il presidente Clinton e in nome (!) dello spirito olimpico si andò avanti come se non fosse accaduto nulla.

La cerimonia di apertura fu estremamente toccante. Le nazioni, ben 197, sfilarono nella parte alta dello stadio, con gli atleti pronti a scendere pian piano verso la pista. Le nazioni dell’ex Unione Sovietica gareggiarono ognuna per conto proprio, il Sudafrica sfilò dietro la nuova bandiera dell’unificazione voluta da Nelson Mandela e ci fu anche una piccola rappresentanza palestinese. Si registrò il 34,1% di atlete, che presero parte a 24 discipline su 30 (la più alta percentuale della storia olimpica).  Fecero il loro esordio mountain bike, beach volley e calcio femminile. Nella città di Martin Luther King, ad accendere il braciere fu Muhammed Alì, con movimenti incerti e tremanti a causa del morbo di Parkinson, un combattente che anche quella notte vinse la battaglia contro il razzismo che aveva caratterizzato la sua vita.

Negli Stati Uniti volevano a tutti costi una Olimpiade che stupisse, tutto e tutti. Il talento dei grandi protagonisti, ancora una volta, diede una bella mano. Si registrarono tanti nuovi record, a partire dall’atletica leggera. Strepitosa fu la prestazione di Michael Johnson, baricentro basso e postura impettita, un vero e proprio soldatino. Fuori causa dalle gare individuali a Barcellona per una intossicazione alimentare, ad Atlanta diede il meglio di sé, lasciando tutti  a bocca aperta. Nei 400 metri scavò un solco di quasi un secondo tra sé e gli altri, il più grande distacco mai registrato in una finale olimpica. Nei 200 fece registrare uno strabiliante 19.32, 40 centesimi meglio del record del nostro Mennea.

Anche in campo femminile si registrò una storica doppietta nei 200 e nei 400 metri, ad opera della  francese Marie Josè Perec. Nei 100 metri c’era voglia di dimenticare Ben Johnson e la brutta storia di doping di Seul. Ci pensò Donovan Bailey, un giamaicano naturalizzato canadese, che corse per l’oro in 9.84. Altro record del mondo. Ad Atlanta calò il sipario sulla carriera di uno dei più grandi di sempre, Carl Lewis. L’ormai trentacinquenne figlio del vento piazzò un 8.50 nel salto in lungo che gli valse il nono oro di una impareggiabile carriera. L’algerino Morceli e la russa Masterkova trionfarono nel mezzofondo. Ancora nulla da fare per il re del salto con l’asta, Sergey Bubka, infortunatosi nelle qualificazioni. Le staffette furono terra di caccia a stelle e strisce, con l’eccezione della 4×100 maschile, tutta del Canada di Bailey.

Nel nuoto la scena fu tutta per il moscovita Alexandr Popov, che con i suoi 48,74 nei 100 metri stile libero riuscì a ripetersi dopo il trionfo di Barcellona. Suoi anche i 50, sempre ai danni dell’americano Gary Hall jr., un classico “eterno secondo”. Ad accompagnare Popov in piscina fu il suo connazionale Denis Pankratov, fenomeno nella farfalla 100 e 200 metri. Altro protagonista, soprattutto fuori dall’acqua, fu l’irlandese Michelle Smith che nell’arco di quattro giorni stravinse i 400 metri misti e i 400 stile libero, alimentando sospetti di doping. Nessun sospetto, invece, nei confronti dell’ungherese Krisztina Egerszegi, vincitrice per la terza volta consecutiva della medaglia d’oro nei 200 metri dorso.

L’apertura al professionismo anche nel ciclismo regalò al mondo anche la straordinaria cavalcata di Miguel Indurain che nel 1984, a vent’anni, si presentò a Los Angeles per la corsa su strada senza riuscire a concluderla. Dopo due Giri d’Italia e cinque Tour de France consecutivi, l’uomo dai 28 battiti cardiaci al minuto riuscì ad aggiudicarsi la medaglia d’oro, chiudendo così il suo ciclo di vittorie.

America, America e poi ancora America. Il “dream team” della pallacanestro continuò ad atteggiarsi da marziano, guidato dal fuoriclasse Shaquille O’Neal, fresco di passaggio dagli Orlando Magic ai Los Angeles Lakers. Nel tennis fu la prima volta olimpica per gli idoli di casa Lindsay Davenport e Andre Agassi, che riuscì a vendicare sportivamente il padre, per due volte atleta olimpico nel pugilato con la maglia dell’Iran, ma sempre eliminato al primo turno.

Infine ma non per ultimo, la consacrazione del calcio africano. Finidi, Yekini, Amokachi e Amunike, già grandi protagonisti al Mondiale di due anni prima, regalarono l’oro al festoso popolo nigeriano, in una rocambolesca finale che vide soccombere i più quotati argentini.

La spedizione azzurra tornò a casa con una valigia piena di medaglie, 35 in totale. L’uomo in più fu il “Signore degli Anelli”, il pratese Jury Chechi, già dominatore ai mondiali e agli europei, che nonostante una partenza in sordina riuscì ad agguantare l’oro con un eccellente 9.887, prendendosi così la sua grande rivincita sulla sfortuna che a Barcellona lo aveva bloccato con la rottura del tendine d’Achille del piede destro. Come da copione anche la scherma non tradì le aspettative. Nel fioretto femminile si affacciò Valentina Vezzali, oro a squadre insieme alle sue compagne. Sandro Cuomo, Angello Mazzoni e Maurizio Randazzo conquistarono un altro oro a squadre nella spada, dopo un’incredibile finale con la Russia. Alessandro Puccini, invece, fu oro nel fioretto individuale. Il primo oro in ordine cronologico arrivò per mano di Roberto Di Donna, abile a sfruttare un passaggio a vuoto del cinese Wang nel tiro a segno. Spazio sulle copertine anche per il più amato dalle donne, il canoista Antonio Rossi: per lui due ori, nel K1 500 e in coppia con Daniele Scarpa nel K2 1000. Storica medaglia d’oro anche per Paola Pezzo nella mountain bike. Niente da fare per i ragazzi della pallavolo allenati da Julio Velasco, la più forte formazione del secolo secondo il parere di critici e addetti ai lavori. A mettere i bastoni fra le ruote fu ancora l’Olanda, come a Barcellona quattro anni prima.

Un secolo di Giochi Olimpici era appena volato via, ma c’era poco da festeggiare. La competizione immaginata, creata e portata avanti dal barone de Coubertin altro non era se non un tenue ricordo, vivo in immagini ormai sbiadite e nei racconti dei protagonisti. Il dio denaro aveva mosso i suoi tentacoli in ogni direzione, infettando senza pietà il sacro fuoco della fiamma. Da allora avremmo trovato riparo solo sotto l’ombra lunga dei grandi campioni.

SportFace