Ciclismo

Ogni maledetto Ventoux: il “Gigante della Provenza” è pronto a emettere la sua sentenza sul Tour 2016

Mont Ventoux, Tour de France 2009 - Foto di Serge Zacharias CC BY-SA 3.0

Ci sono due modi per affrontare il Mont Ventoux: quello dell’attacco e quello della resa a priori. Chi lo aggredisce lo sfida. Chi si arrende ne accetta l’invincibilità. Ma anche chi passa per primo sul suo traguardo ne esce lo stesso sconfitto: il “Gigante della Provenza” si ribella alle leggi della fisica e supera qualsiasi ragionevole limite umano.

Lo sa bene Eddie Merckx, il Cannibale per antonomasia abituato a non essere secondo a nessuno. Lui, è ovvio, apparteneva alla prima categoria di corridori, a quelli che hanno attaccato la montagna. Nel 1970, nella tappa che partiva da Pau, il belga sembrava voler spaccare quelle rocce a colpi di pedale. Affrontò il Ventoux con la spavalderia del campione assoluto, senza paura, come dev’essere. Arrivò primo, barcollando sulla bicicletta e dopo il traguardo svenne. Due anni dopo, pur in maglia gialla, Merckx lasciò a Bernard Thévenet la vittoria, avendo imparato la lezione.

Mario Fossati, uno degli storici menestrelli del ciclismo epico, aveva definito il Ventoux “il dio del male dell’antica Provenza”. L’asfalto che si scioglie, il mistral che soffia caldo, il respiro che si accorcia fin quasi a mancare. Nessun albero nell’ultimo tratto. Il Ventoux è quanto di più simile alla Luna possa trovarsi sulla Terra. E non perdona.

Sui suoi tornanti c’è una pietra che ricorda la sua vittima più illustre. Tom Simpson fu un altro di quelli che vollero sfidare il Ventoux, nel 1967. Con tutti i mezzi possibili, anche quelli illeciti. La montagna, però, ha un certo sesto senso per questo genere di cose. Il corridore statunitense fu stroncato da un collasso cardiaco, in una cunetta. L’autopsia rivelò che aveva assunto delle anfetamine. Diversi minuti dopo la dichiarazione clinica della sua morte, il suo corpo – che aveva assorbito l’afa di quella giornata di luglio in quel luogo spettrale – continuava a essere caldo.

L’unico, forse, che seppe trattare con gentilezza quei tornanti spogli e sabbiosi fu Marco Pantani. Nel 2000, sembrava doversi staccare dal gruppo dei migliori, un puntino rosa in preda alle sue debolezze. Il Ventoux ebbe pietà di lui e si spianò sotto i suoi piedi. Il Pirata tornò a volare, in una delle sue ultime volte. Alle sue spalle, il texano condannato alla damnatio memoriae. La montagna non poteva accettare che il nome di quest’ultimo potesse entrare nel suo albo d’oro.

Il Tour usa il Ventoux con moderazione. Nel corso della sua storia ultracentenaria lo ha affrontato solo 15 volte, 9 come arrivo di tappa. È stato sempre decisivo e, a maggior ragione, lo sarà anche quest’anno, anche se – a causa di fortissime raffiche di vento che sfiorano i 100 km/h – la sua ascesa sarà dimezzata. Gli organizzatori, al termine dell’11ª tappa, hanno infatti deciso di abbassare l’arrivo allo Chalet Reynard, a sei chilometri dalla vetta.

La maglia gialla Chris Froome, che sul Ventoux ha vinto già nel 2013, finora non ha scavato alcun solco profondo tra sé e i suoi avversari in salita (accumulando margine solo con azioni estemporanee in discesa o in pianura). Non lo ha fatto forse per impossibilità fisica, forse per calcolo. Il Ventoux tollera la prima, ma non accetta il secondo: chi vuole vincere il Tour deve rischiare qui.

 

 

 

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